CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 20 giugno 2021

RACCONTI DELLA DOMENICA, ovvero: DA QUAL BOCCA LA VERITA' [mai detta!] (30)

 










Precedenti capitoli:


Della Domenica, ovvero:


La Natura stregata (28/9)


& Alla miniera del fabbro 


Con il Secondo Governo


Prosegue ancora con...:







Da qual bocca la verità 


...giammai detta (31)


&d ancora...:







Con il capitolo (alle porte) completo... 


& un antropologo (& i diversi)









La Bocca della Verità è uno dei simboli più famosi di Roma, eppure non tutti conoscono la sua storia. E soprattutto, pochissime persone sanno a cosa è dovuto il suo nome. Una cosa è certa: se vi trovate nella capitale magari per ascoltare un comizio dei tanti Cesari, di chi cioè abituato per proprio mestiere ad ingannare la gente e con loro gladiatori dal dubbio mestiere, dopo aver visitato i luoghi del potere dell’antica Roma, proseguite per Viterbo, e agli stessi Cesari del nord (o nordici-padani) riuniti raccomandiamo che a loro preferiamo il Giardino dei Mostri di Viterbo, sicuramente la vista come il noto est est est a loro sarà gradito perBacco e Bocca di Dioniso.

 

PerBacco proseguiamo la visita:

 

Se il Colosseo, la fontana di Trevi, Piazza San Pietro e il Pantheon sono famosi in tutto il mondo come opere d’arte di incomparabile bellezza, la Bocca della Verità è celebre grazie alle leggende che da secoli la accompagnano.

 

Ma cos’è, quali sono le sue origini e da quanto tempo si trova lì?


 

La Bocca della Verità è un mascherone monolitico in marmo, murato in una delle pareti della chiesa di Santa Maria in Cosmedin a Roma, all'interno della piazza omonima. Si trova lì dal 1632 e rappresenta un viso barbuto con naso, occhi e bocca cavi.

 

Nel corso del tempo, studiosi ed archeologi hanno tentato di dare un’interpretazione univoca al mascherone, ma i soggetti ai quali è stato attribuito sono tanti. Tra questi il dio Oceano, Giove Ammone, un fauno e un oracolo.

 

La Bocca della Verità si trova sulla parete del pronao di Santa Maria in Cosmedin fin dalla prima metà del Seicento. Prima di allora non era lì. Nel periodo romano, infatti, questo misterioso mascherone di quasi due metri di diametro era un semplice tombino. E proprio quest’uso ha fatto propendere gli studiosi per un’interpretazione che vorrebbe il suo volto appartenente ad una divinità legata al mondo delle acque.




Nell’antica Roma, infatti, i tombini riportavano spesso l’effigie delle divinità fluviali, che inghiottivano l’acqua piovana e la veicolavano verso il mare. Tuttavia, questa non è l’unica soluzione avanzata dagli storiografi: c’è, infatti, chi ipotizza fosse il coperchio del pozzo sacro situato di fronte al tempio di Mercurio, presso cui i commercianti romani giuravano la loro onestà durante le compravendite.

 

A confermare la credibilità di quest’ipotesi interviene l’ormai celebre leggenda medioevale, secondo la quale tutti coloro che dicevano una bugia tenendo la mano nella bocca del mascherone, l’avrebbero persa perché recisa dal suo terribile morso. Se le sue origini restano avvolte nel mistero, è certa invece la sua fama leggendaria: in tanti credono si tratti del manufatto menzionato nei Mirabilia Urbis Romae dell’XI secolo (una guida dedicata ai pellegrini che raggiungevano la città), nei quali alla Bocca della Verità è attribuita la capacità di formulare oracoli.




In un altro volume pubblicato nel XII secolo viene raccontato di un inganno perpetuato ai danni dell’imperatore Giuliano.

 

Il testo, che riteneva Giuliano colpevole di voler restaurare il paganesimo, narra una storia secondo cui da dietro la Bocca, il diavolo, presentatosi come Mercurio (impoverito) (protettore degli imbrogli), trattenne la mano dell’imperatore (il quale a sua volta aveva truffato una donna e giurò la sua buona fede inserendo la mano all’interno della Bocca), e gli promise grande fortuna nel caso fosse riuscito a riportare in auge il paganesimo*.       



        
      

* Giuliano — Poiché il Dio concede di divertirci (sono infatti i Saturnali), e poiché cose scherzevoli e garbate io non ne conosco, sembra, amico caro, che mio primo pensiero debba essere di non dire scempiaggini.

 

Amico — E che? C’è alcuno così pedante e antiquario, o Cesare, da pensare perfin nello scherzo? Io credevo che lo scherzo fosse sollievo dell’animo e liberazione da tutti i pensieri

 

Giuliano — Bene in ciò ti apponevi; ma a me di tentare per questa via la prova non si conviene. Io non sono nato né per scherzare, né per far la parodia, né per dir barzellette.  Però, dacché al comandamento di Dio bisogna ubbidire, vuoi che in luogo di scherzo ti racconti una favola in cui troverai, spero, molte cose degne della tua attenzione?

 

Amico — Di’, che ti ascolto di tutto cuore; poiché le favole non le dispregio neppur io, né le condanno ad ogni costo, quando siano istruttive: d’accordo con te e con l’amico tuo, o meglio, amico nostro comune, Platone, il quale molte serie questioni ha trattato in forma di mito.

 

Giuliano — Verissimo quel che tu dici.

 

Amico — Ma quale e come è questa favola?

 

Giuliano — Non di quelle vecchie, del genere di  Esopo: ma, se sia un’invenzione di Ermete, dal quale io l’ho imparata, o sia la verità stessa, o una mescolanza di entrambi, vero e fittizio, vedrai poi tu dal fatto stesso.

 

Amico — Ecco un preambolo in piena regola, secondo l’uso dei favolisti insieme e degli oratori. Ora però, come sia il fatto stesso, questo comincia.

 

Giuliano — Senti dunque. Romolo, volendo festeggiare i Saturnali, invitò a banchetto tutti gli Dei, non solo, ma anche gli Imperatori. I seggi per gli Dei si trovavano disposti più in alto, sulla vetta stessa — per così dire — del cielo, Quando anche il banchetto dei Cesari fu imbandito, entrò, per primo, Giulio Cesare, con l’aria di volere — ambizioso com’era — disputare a Zeus il dominio del mondo. Sileno, squadratolo un poco: ‘Bada’, disse, ‘o Zeus, che quest’uomo, per amor di comando, non pensi davvero a sbalzarti dal trono. Non vedi come è grande e bello? A me, se non in altro, assomiglia meravigliosamente qui sopra la testa’.




Mentre ancora Sileno scherzava, né gli Dei gli ponevano grande attenzione, entra, secondo, Ottaviano, cambiando molte volte colore, come i camaleonti: se dapprima era pallido, tosto facevasi rubicondo; se era fosco, tenebroso, rannuvolato , non tardava a metter su il sorriso di Afrodite e delle Grazie. Pretendeva, fra l’altro, di avere occhi così sfolgoranti da eguagliare il re Sole. Non tollerava che alcuno al mondo reggesse il suo sguardo. E Sileno: ‘Capperi!’, esclama, ‘Che animale variabile è questo? E chissà che brutto tiro medita contro di noi!’ — ‘Tregua agli scherzi!’ gli fa Apollo. ‘Io lo metto qui nelle mani di Zenone, che d’un tratto ve lo trasforma in oro colato. — Qua, Zenone, prenditi cura del mio pupillo’. Zenone ubbidì, e, dopo avergli recitato all’orecchio qualche briciolo di dottrina, come fanno coloro che mormorano le formule magiche di Zamolxide, lo rese uomo sensato e prudente.

Terzo si aggiunse a loro Tiberio, con aria maestosa e fiera, promettente saviezza non meno che bellico ardire. Ma, voltatosi a sedere, si scopersero sulla sua schiena cicatrici innumerevoli: scottature, abrasioni, piaghe spaventose, lividure, nonché — ricordo di lussuria e di crudeltà! — ulceri e pustole, quasi marchiate col fuoco. Allora Sileno:

 

Tutto diverso, o straniero, m’appari, da quello di pria,

 

disse, più serio del solito. Tanto che Dioniso: ‘Che fai, pappaluccio?’ gli dice. ‘Metti cipiglio anche tu?’ — Ed Egli: ‘Quel vecchio Satiro’, risponde, ‘mi ha sconcertato tanto, da farmi buttar fuori, senza volerlo, le omeriche muse’. — ‘Stà attento’, ripiglia l’altro, ‘che non ti tiri le orecchie, come dicono le abbia tirate un giorno a un professore’. — ‘Vada piuttosto, il disgraziato! nella sua isoletta (e alludeva a Capri) a lacerare il viso di qualche altro pescatore’…




 Qui Zeus pose agli Dei il quesito, se tutti quanti convenisse sottoporre alla lotta, ovvero seguire il costume degli agoni ginnici, dove il vincitore di un altro che molte palme abbia riportato, sebbene vinca questo solo, si considera ugualmente superiore a coloro che non lottarono  con lui, ma furono da meno del vinto.

 

A tutti, questa seconda maniera di giudicare parve la più acconcia. Quindi Ermete, da araldo che era, chiamò Giulio Cesare, e, dopo di questo, Ottaviano, poi Traiano per terzo, come i più guerrieri. Sennonché, fatto silenzio, re Crono, volgendosi a Zeus, si dichiarò meravigliato che soltanto imperatori guerrieri fossero scelti alla prova, e nessun filosofo.

 

‘A me’, soggiungeva, ‘questi qui piacciono non meno .  degli altri. Orsù, chiamatemi anche Marco Aurelio!’.

 

Così anche Marco Aurelio, chiamato, si presentò, tutto grave di aspetto, con gli occhi e il viso un poco avvizziti, ma in ciò appunto manifestando una insuperabile bellezza, nell’offrirsi senza sfarzo, senza ornamenti. Aveva la barba densa e prolissa; abiti modesti e seri; il corpo, per penuria di nutrimento, trasparentissimo e perlucidissimo, come — direi — la più pura, la più immacolata delle luci.

 

Quando anche lui fu entrato nel sacro recinto, prese la parola Dioniso:

 

‘Vi pare, o re Crono e Zeus padre, che possano ammettersi dagli Dei cose men che complete?’.

 

E quelli avendo detto di no:

 

‘Dunque’,


[Prosegue...]















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