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…Giacché come la tradizione lo ricorda, conserva
e annovera, negli annali della Storia, lo stesso capace indistintamente di fabbricare,
chiodi o mortali munizioni, in medesima ugual miniera o bottega…
Ma nella volontà da noi espressa in accordo con
l’intera Natura, ed in disaccordo con ogni miniera o bottega, intendiamo in
questa e qualsiasi altra sede, adoperare la sua proverbiale incuria: sia nel
maneggiare la scure della Ragion persa; sia l’incudine, specchio e araldo, del
dismesso Divino Intelletto (hora votato a Bacco!).
Perciò ci atteniamo nella volontà di esaudire nonché
appagare, la Botte ubriaca non meno del marito da lei ispirato nella cantina
Difesa.
Cioè nell’attenersi il più possibile a codesto
timbro musicale accompagnato, sia da Thor, il più famoso unno derivato o solo
‘incrociato’; sia dai suoi parenti della Grande steppa fin su la Grande Russia
finalmente unita dall’America, e non più alla Deriva.
Nella nota Armonia della congiunta e accompagnata
(con dovuta pensione accreditata) Banda Ufficiale dell’Armata intera detta
Italiana.
Dicono tradita, donde l’intera Sinfonia, avversa
ad ogni Strofa di Madre Natura.
Al fabbro, nobile mestiere da zingaro, gli
odierni imperatori porgono note e meritevoli ringraziamenti, per aver
indistintamente forgiato strumenti (arrecando il dovuto danno alla Natura
quanto al suo Profeta) al fine, - cioè nella certa fine - d’ogni più nobile èra,
dell’industrioso suono d’un Tempo per sempre smarrito, seppur ci dicono, rinomato,
nonché illustre altolocato richiesto sommo artigiano…
…E hora a lui rispondiamo, un vero peccato che l’antico mestiere d’artigiano perso, seppur barattato con una diversa Arte da Tribunale…
Nei primi secoli la musica si studiava come scienza matematica; e nelle chiese e nelle scuole delle vecchie Abbazie ove era rimasta la tradizione, attraverso il canto liturgico di quei lontani inni Orientali e Greci, che avevano meravigliato il mondo. In quegli asili di pace, oasi in mezzo al mondo imbarbarito, si conservavano le gemme preziose dell’umano intelletto; e forse le cantilene di Orfeo, risuonavano ancora dinanzi agli altari.
Baaam, baaam, boom, biiiim, baaammm...
Basta,
basta, basta! Smettetela di martellare su quelle incudini! Non sopporto tutto
questo frastuono!
Pitagora aprì gli occhi. Era sudato. Quel principio
d'estate era più caldo del solito. E da qualche giorno il maestro si svegliava
col rimbombo di quel suono metallico nelle orecchie. Da quando avevano cambiato
il percorso mattutino per raggiungere la scuola, la notte continuava a sognare
la scena in cui lui, Eratocle e Filolao passavano davanti alla bottega di
Gerone vicino al tempietto di Eracle e le loro voci venivano sopraffatte dal
fragore delle martellate del fabbro e dei suoi apprendisti.
Pitagora
girò lo sguardo verso sua moglie che stava ancora dormendo. Mentre si alzava
dal letto sentì rumori dal piano inferiore. Inspirò profondamente e le narici
gli si riempirono del profumo di pani appena sfornati. Il suo servitore,
Trasibulo, era già all'opera. Uscendo dalla camera, Pitagora sentì la piccola
Muia che si lamentava nel sonno.
Anche lei
da qualche giorno era un po' irrequieta.
Scese in
cucina dove Trasibulo gli aveva già imbandito la tavola.
Il vostro pasto è pronto, maestro, fece il servitore indicando sul tavolo la maza spalmata di miele e la coppa di ciceone. Pitagora rispose con un cenno del capo mentre l'uomo usciva per avviarsi alla scuola.
Mangiò e
bevve con lentezza. Finita colazione, mentre indossava il chitone, Pitagora
sentì risuonare le voci familiari di Eratocle e Filolao.
‘Buongiorno,
maestro, spero che abbiate trascorso una buona nottata’.
‘Non direi’,
rispose
Pitagora.
‘Sento di
continuo il rimbombo del martellare del fabbro. E la tua gamba come va,
Filolao?’
‘Mi duole
ancora, maestro. Spero non vi dispiaccia se anche stamani vi chiedo di
percorrere il sentiero lungo’
‘Non ce la
farei a salire per la ripida scorciatoia’
Pitagora lo
guardò con un misto di comprensione e fastidio:
‘Non mi
spiace’,
rispose
secco.
Prima di uscire, il maestro si mise in testa il petaso di paglia. Era ancora presto ma il sole era già abbastanza alto sull'orizzonte. La giornata era serena e il solstizio alle porte.
Filolao
notò che Eratocle si schermava gli occhi con una mano.
‘Eratocle,
non capisco perché ti ostini a indossare il pileo anche in queste lunghe
giornate di sole. Non trovi che le larghe falde di un petaso ti riparerebbero
meglio dalla luce?’
‘Il pileo è
tradizione della mia famiglia. È una delle poche cose che mi ricordano
l'infanzia a Samo. E proprio per questo non ci rinuncio’
Una
piacevole brezza rendeva il caldo sopportabile e increspava la superficie dello
Ionio. I tre uomini s'incamminarono verso la scuola. Filolao zoppicava
vistosamente.
Troppo poco
tempo era passato dall'infortunio durante l'allenamento con Milone. Forse la
partecipazione ai giochi olimpici era definitivamente compromessa.
‘Non sarà
poi così male rimanere a Crotone con Eratocle e gli altri’,
…tentò di
consolarsi.
Svoltato
l'angolo si avvicinavano al tempietto di Eracle.
L’aria aveva cominciato ad assumere un retrogusto
di metallo incandescente e, man mano che i tre si avvicinavano, il clangore
delle martellate si faceva più forte.
Baaam,
boom, baaam, boom, biiiim, baaammm ...
Nel tratto
di strada tra il tempietto e la bottega, Pitagora si mostrava sempre un po'
inquieto. Inquieto ma concentrato: tutta la sua attenzione pareva rivolta al
lavoro di Gerone. Il maestro sembrava magnetizzato dai gesti del fabbro. Quel
giorno, senza nessun preavviso, deviò dal proprio cammino e s'infilò nella
bottega. Eratocle e Filolao si scambiarono uno sguardo perplesso e lo
seguirono.
‘Benvenuto
maestro. La mia officina è a vostra disposizione’,
lo accolse
Gerone con dignità, che non celò del tutto sorpresa e deferenza.
Pitagora sembrò non badare all'uomo: spostava in continuazione gli occhi da un martellato re all'altro al ritmo dei loro colpi.
Baaam,
boom, baaam, booom, biiim, baaam, booom, baaammm.
‘Maestro,
volevate chiedere qualcosa a mastro Gerone?’,
lo
sollecitò Eratocle.
Pitagora
ignorò anche lui e tenne lo sguardo fisso sui tre apprendisti che lavoravano
con martelli e incudini di dimensioni diverse. Un sorriso gli illuminò il volto
e gli occhi si fecero più luminosi. Poi, all'improvviso Pitagora inarcò le
sopracciglia, aprì la bocca e inspirò profondamente:
‘Oh Zeus!
Padre di tutti gli Dèi!’
Sotto lo
sguardo di tutti, si avvicinò al più nerboruto dei tre che di conseguenza smise
di martellare, presto imitato dagli altri. Per quanto sovrastasse la figura di
Pitagora, l'apprendista sembrava a disagio e sorrideva imbarazzato.
‘Come ti chiami, ragazzo?’.
‘Coglione,
maestro, anche se per le cronache o negli spartiti, o forse solo partiti per
altri lidi, di brevi frammentati messaggini… non esistiamo, quali poveri
operai… oppure manovali!’
…rispose il
giovane con voce profonda mentre alcune gocce di sudore gli cadevano dal naso.
‘E voi due?
Quali sono i vostri nomi?’
‘Basilico,
per servirvi’
‘Se non
sbaglio, Coglione, la tua incudine e il tuo martello sono più grandi di quelli
di Basilico e Prezzemolo’.
‘Sì,
maestro, questi sono gli arnesi per forgiare le armature e padelle nonché ruote
dei carri armati’,
…rispose Coglione…
‘Sono i più grandi di tutti, se escludiamo quelli di mastro Gerone, naturalmente’
‘E quelli
di Coglione Basilico e Prezzemolo a che cosa servono?’
‘Con gli
arnesi di Basilico, che sono poco più piccoli di quelli di Coglione, forgiamo
spade e spiedini, intervenne Gerone, mentre Coglione si sta occupando dei ferri
di cavallo con brevi rintocchi’
‘Coglione,
potresti colpire la tua incudine?’,
chiese
Pitagora.
Il giovane
sferrò una martellata sulla sua incudine, fino quasi al piede!
baaammm
‘E ora tu,
colpisci la tua’.
‘E ora insieme!’.
baaammm
biiimmmm
Pitagora si
girò verso i suoi allievi con un sorriso serafico.
‘Sentite
che Armonia?
‘Sentite come si fondono questi Elevati Suoni
Armonici…’…
(F. Ubaldini)
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