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Passeggiate e racconti di Domenica
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Un giorno,
in Val di San Lucano – raccontò il professore Cino B. stavo esplorando una
piccola grotta quando all’imboccatura comparve un vecchio che si fermò a
guardarmi. Era un pastore, aveva una
faccia scarna e astuta, dai suoi panni veniva un fetido tanfo di pecora.
– Cerca ossa, signore?,
mi domandò,
sibilando tra i denti disgregati.
– Oh Dio, non solo ossa,
risposi
divertito, e gli spiegai:
– Forse un giorno qui abitavano degli uomini. E
io cerco se hanno lasciato qualche cosa.
– Allora non deve cercare qui,
fece lui
come se la sapesse lunga.
– Qui non c’è niente. E’ tempo perso. So io dove. A Tiei dovrebbe andare.
– Tiei? Dov’è Tiei?
– E’ il mio paese, in Val Cesilla. Là ci sono
otto nove grotte. Io dico di una, specialmente. In quella sì ne troverà di
roba.
– Che roba?
– Ah, io non so, io…
– Nessuno è mai entrato. Ma ci sono le ossa del
gigante…
– Noi
maniaci delle cose antiche stiamo sempre all’erta, con le orecchie in su, sapete
bene. Il minimo indizio ci fa venire il batticuore.
Gero non disse niente di preciso, però insisteva su quella storia delle ossa e ammiccava maliziosamente quasi gli fosse vietato di parlare.
Sperava così
di guadagnare qualche soldo?
O cercava
di imbrogliarmi?
Fosse stato
anche così, ormai ero troppo incuriosito. Meglio tentare. Gli offrii mille lire
se mi avesse accompagnato. Ne volle duemila. Andammo in auto, la mattina dopo,
e c’erano con me due giovani assistenti. Il Vigoni e il Bettel, che conoscete.
Gero, per l’occasione aveva cercato dimettersi un po’ in ordine, ma ci voleva
altro: averlo accanto era un supplizio.
Anche in
Italia, qui da noi, nel Veneto, esistono paesi dove si può arrivare con l’auto
in meno di un’ora eppure sono lontani, una lontananza addirittura di millenni.
Chi di voi li ha visti?
Sono
squallidi, dimenticati, misteriosi. Non ci va mai nessuno. Paesi pieni di
leggende. La gente, per lo più pastori e contadini, è vestita come altrove, le
case sono in muratura, coi vetri alle finestre, c’è luce elettrica, gira anche
qualche motocicletta, si sente perfino qualche radio.
Cosa
importa?
Anche col
pieno sole c’è un’aria immensa di tristezza, lo stesso aspetto delle case,
grigio, nudo, torvo, senza un fiore, ci toglie il respiro. E gli abitanti
danno, per quanto assurda, l’impressione di essere antichissimi, nati migliaia
di anni fa e mai cresciuti, con dentro una indefinibile stanchezza, anche i
bambini. Come se da tempo immemorabile tutto là sia rimasto fermo, mentre il mondo
camminava, fermo alle remote età quando non c’era ancora il ferro e si lottava
con le belve.
Esseri ottusi, diffidenti, bugiardi, senza speranze, manchevoli di Dio. Così era Tiei. Mai vidi anzi contrada più triste e sconsolata, benché il paesaggio fosse verde. In realtà i monti intorno, tozze e insulse coperte di prati e di cespugli, erano soltanto brutti, senza neanche la romantica mestilizia che consola spesso i deserti. Per di più, quando ci giunsi, era una giornata grigia. Questo poteva influire sull’animo. C’era però ben altro: come un greve incanto, un’aria di maledizione, una specie di paralisi che pesasse su quell’angolo di terra. Si attraversò il paese. Qualche donna immota sulle soglie, due tre cani e basta. Non si vedavano bambini.
Poi ci
inoltrammo per una strada ripida, poco meglio di una mulattiera, che si
inerpicava per la valle. Qua e là, nei campi, dei contadini intenti al lavoro. Gero
dal finestrino li chiamava. Quelli neppure si voltarono.
– Ecco, laggiù,
fece il
pastore, finalmente, una stretta curva, indicando un valloncello.
Qui ci fermammo, ma mi era passata la voglia. Non so, avevo un senso di vergogna. Immaginate un ricco che entri a chiedere acqua in una catapecchia di famelici pezzenti. Pressappoco così. E non vuol dire se lassù gli uomini non pativano la fame. Era peggio che fame: soli, abbandonati a sé, in esilio, incapaci perfino di dolore. Intorno, campi incolti, lunghi muretti di sassi nerastri, qualche vigna, pochi alberi da frutta. Non si vedeva anima viva. Lasciai il Vigoni a custodire l’auto e in tre scendemmo alla caverna. La quale si apriva in un breve bastione di rocce seminascosto dai cespugli.
– E’ qui?,
chiesi al
pastore.
– E’ qui disse.
– Tu mi aspetti fuori?
Non
rispose, limitandosi a un sorriso.
In quel mentre si udì il richiamo di un uccello, querulo lungo. Un’altro rispose da lontano. Qualcosa si mosse alle mie spalle. Mi voltai, non c’era nessuno. Che mi stessero spiando?
– Dimmi Gero,
chiesi con
un inspiegabile disagio,
– Dimmi, c’è qualcuno?
– No, no, signore. E chi vuole che ci sia?
Andò avanti
Bettel, aprendosi la strada tra i cespugli. Ecco la imboccatura. Chinatici,
entrammo nella grotta facendo lume con due torce elettriche. La cavità subito
si allargava così che si poteva stare in piedi. I raggi cercarono qua e là.
– Qui, professore, guardi,
fece Bettel
che si era spinto in fondo.
Da fuori,
stranamente modulato, giunse di nuovo il richiamo dell’uccello.
– Che c’è?
chiesi,
senza muovermi. Ero inquieto.
– C’è un cranio, professore, disse Bettel dal
fondo.
– Un cranio d’uomo.
– D’uomo?
feci
avvicinandomi.
– Sei proprio sicuro?
–Direi, almeno… Forse un Neanderthalensis…
Da uno
strato di fango fatto solido dagli anni la cupoletta candida sporgeva.
Ma di quando?
Abbastanza
antico per essere di competenza mia?
Fu Bettel
che cominciò a tossire. Qualcosa di aspro prese anche me poi subito alla gola.
Un rabbioso singulto mi scuoteva.
– C’era aria cattiva qui,
disse
Bettel.
– Forse qualche esalazione.
– Ma questo è fumo, professore! Fumo.
Veniva dall’ingresso.
Densi nembi
irrompevano di là così compatti da nascondere la luce del giorno. Gli occhi ci
bruciavano.
– Bettel, gridai ansimando.
– Presto! Fuori!
Ci
lanciammo all’uscita mentre di là del fumo nere ombre umane dileguavano. Sulla
soglia bruciava un mucchio d’erba. Feci per sorpassarlo, ma una cosa nera mi passò
a un pel dalla faccia, piombando con un tonfo sul terreno. Una pietra. Ne seguì
un’altra, sarà pesata dieci chili. Fortuna che feci un balzo indietro. Ne venne
giù una cateratta.
Era un agguato.
Non con bombe, o mitra, o schioppi.
Laggiù
vigeva ancora la tecnica dei tempi favolosi, quando si dava la caccia al lupo col fuoco dinanzi alla caverna e il
lancio dei pietroni sul mostro obbligato a uscire.
Ma perché?
Per puro
bestiale odio al forestiero?
O per
oscure superstizioni tramandate?
O per
proteggere un segreto?
Dietro di
me, Bettel, semiasfissiato, giaceva al suolo. Anch’io mi sentivo soffocare.
Dentro non potevo più resistere. Tentando il tutto per tutto sollevai Bettel da
terra e lo trassi all’aperto. I temuti proiettili non vennero. Appena fuori
all’aria libera, trovai invece Vigoni, spaventato.
– Un uomo è venuto ad avvertirmi, ha detto che
lei mi voleva…
– Uno ti ha avvertito, dici?
– Ma sì…. Ah, guardi, guardi, le carogne!
Guardai, là
dove sul ciglio della curva avevo lasciato l’automobile. Tra i fumi del
braciere che oscillavano, li vidi, i pazzi, i selvaggi, i bruti, gelosi della loro
stessa solitudine, e decisi a difenderla col sangue. Erano quattro e contro luce
parevano preistorici giganti. Inarcati nello sforzo, sollevavano da un lato la
macchina, evidentemente per rovesciarla nel burrone.
– Ehi, canaglie!
…urlai, mentre Vigoni, che aveva con sé la rivoltella, sparava un colpo in aria. In quel mentre, con un mugolio bestiale, i quattro riuscirono ad alzare l’auto di quel tanto che bastava. Come fantasmi poi disparvero. La macchina per un istante restò in bilico, quindi si rovesciò in fuori. Volò tre quattro metri, batté con schianto su un roccione per rimbalzare e a orrendi colpi precipitare in fondo, sconquassandosi.
– Via, via, presto!
Bettel era
intanto rinvenuto. Prendemmo a piedi la strada del ritorno. Vigoni in testa con
la rivoltella. A Tiei qualcuno ci avrebbe pure dato una mano. Vallette, campi,
forre, tutto era deserto e silenzioso. Anche Gero era sparito. E la sera stava
per discendere. Camminando, pareva di sentire cento occhi che ci spiassero alle
spalle.
Ma anche Tiei era deserto. Porte, finestre, botteghe, osterie sprangate come se fosse notte fonda. Non una voce, un passo, neppure più una gallina. E invece sapevamo che tutti erano là, dietro i battenti, col fiato sospeso, a controllarci. Attraverso le minuscole fessure scintillavano le pupille fisse su di noi. Battemmo l’uscio di una casa dall’apparenza più civile. Dalle profondità dell’edificio rispose l’abbaiar di un cane. Nessuno di noi diceva niente.
Come
parlare in quel silenzio così carico di odio?
Ai compagni
feci un muto cenno: andarcene, fuggire, non perdere un minuto, prima che
venisse buio. Che suono smisurato fecero i nostri passi fra le case taciturne. Ci
voltavamo indietro .Niente. Non si muoveva un filo. Poi via per la campagna.
Questa è la storia.
In seguito girai per la zona interrogando. Seppi che già altri studiosi erano andati, prima di me, alle grotte di Tiei :un professore di Atene, mi dissero, due antropologhi olandesi, un prete docente di geologia, uno scrittore… I due olandesi li avevano trovati dinanzi alla caverna, morti, il professore e il prete attraversarono Tiei, diretti alla montagna; non furono mai visti di ritorno. E lo scrittore…. a parlare con voce da scrittore…
– E dopo chiesi?
– C’è stato qualche altro?
– Non credo,
disse il
professore.
Il cranio
del gigante, come diceva Gero, deve essere ancora là, nell’antro, mezzo immerso
nel fango. Personalmente non mi attira più. Temo che non sia molto antico.
(Dino Buzzati)
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