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Ed
ora, tornando alla Cappella del Rosario,
non voglio chiudere il presente capitolo senza intrattenere il cortese lettore
sovra alcune notizie aneddotiche riguardanti la distruzione della sepoltura Stradivari.
Si era nell’estate del 1869, le opere di
demolizione della stupenda Basilica di S. Domenico apparivano inoltrate, tanto
che l’abside e la torre e la Cappella del Cristo erano già spariti sotto i
colpi incessanti dei picconi, i quali andavano man mano cupamente ripetendosi
fra i piloni e sulle volte delle arcate e delle cappelle che ancora rimanevano
in piedi.
I tempi nuovi s’imponevano ai vecchi.
Le esigenze imperiose e reclamate dell’igiene e della civiltà distruggevano in una pregevole concezione dell’arte le tracce di un’epoca nefasta illuminata dai sanguigni bagliori del rogo. La foga del lavoro faceva sì che non si badasse ad abbattere questa piuttosto che quella parte. E il piccone lavorava, lavorava sempre, e già era entrato nella Cappella del Rosario, e la cupola del Molosso e la volta del Cattapane vi aveva abbattute.
Ed io lo ricordo ancora, e ancora mi
par di assistere a quella febbrile distruzione di tanto artistico splendore; mi
pare di assistervi poiché non passava giorno ch’io non andassi a vedere il
progressivo atterramento della grandiosa Basilica. Mi ricordo perfino quando il fotografo Aurelio Betri era là colla
sua macchina a ritrarre i punti più interessanti della demolizione. D’uno dei
quali credo non inutil cosa offrire qui il disegno, e precisamente quello dove
si vede tutta intera la fila delle arcate di sinistra, e a destra un lato della
Cappella di S. Pietro Martire e cioè il muro divisorio con quella del Rosario,
che nella riproduzione fotografica si vede segnata con la crocetta nera.
Or bene io fui presente in un certo momento nel quale vari cospicui cittadini stavano intorno all’entrata della sepoltura Stradivari. E ricordo, come se appena ora le avessi udite, le seguenti parole allora pronunziate da uno di quei signori: «
V’è
tanta confusione di ossa senza nessun segno particolare, che riesce proprio
inutile il far ricerche.
…In
quella circostanza ho anche udito il nome di Stradivari.
Ma io era così giovane e talmente digiuno di ciò che volesse significare quel nome, da non comprendere affatto l’importanza delle ricerche, che avrebbero voluto effettuare quei cospicui cittadini, de’ quali panni ricordare l’Avvocato Tavolotti, il Dott. Robolotti, il Prof. Stefano Bissolati, Pietro Fecit, e gli assuntori delle demolizioni Ferrari e Bassi, ed altri ancora che sfuggono ora alla mia memoria.
Ricordo invece perfettamente un
aneddoto di cui non voglio defraudare il cortese lettore.
Qualche
giorno dopo l’avvenuto sopraluogo di quella Commissione di dotti, era corsa
voce che a visitare la sepoltura
Stradivari sarebbe giunto espressamente da Milano il proprietario di un
importante Museo. Io lo seppi da persona addetta ai lavori, e non mi lasciai
sfuggire l’occasione per mettere a novella prova la mia curiosità. La visita s’è
infatti verificata a soli due o tre giorni di distanza; e quel che avvenne
eccolo in poche parole.
Quel signore, dalla fisonomia tutt’altro che rassicurante dal lato della serietà, ottenuto il permesso di scendere nel sotterraneo, fu visto dopo alcuni istanti risalire la scala a pioli e uscire trafelato e ansimante come Montecristo dall’antro delle verghe d’oro. Egli aveva fra le mani un teschio che agitava convulsamente, e che mostrava ai presenti per l’enorme sviluppo della calotta cranica e specialmente dell’osso frontale, ciò che a lui dava la certezza essere quello il teschio del grande Stradivarìus.
Quell'atteggiamento, quella fisonomia, quelle smanie convulse non fecero che destare le risa nei presenti. Fra i quali pur troppo! nessuno ha trovato di osservare, che forse l’opera del caso poteva benissimo aver fatto indovino l’improvvisato antropologo, mentre il teschio da lui asportato bastava perché nessuno più potesse avere la certezza che nella sepoltura, con gli altri teschi fosse vi ancora quello di Antonio Stradivari.
Altri
tre teschi furono tolti dalla cripta nei giorni successivi per corredo
scientifico di uno studente di medicina figlio dell’assuntore dei lavori. Tutte
le altre ossa vennero man mano estratte con le ceste del terriccio, per essere
di poi maciullate e sparse pei campi a incremento dell’agricoltura. Se tutto
fosse rimasto dov’era, non sarebbe stato difficile a qualche intelligente e
diligente antropologo il cercare fra le ossa esistenti nella sepoltura quelle
che più rispondevano all’alta statura che si vuole avesse lo Stradivarìus.
E, comunque, con la scorta sicura dei documenti della Parrocchia di S. Matteo, si aveva sempre la certezza che in quel sotterraneo, fra le ossa sparse sul pavimento della cripta, quelle pur v’erano dell’uomo la cui fama era corsa per ogni dove non mai disgiunta dal nome della nostra Cremona.
Certezza
assoluta in forza della quale potremmo oggi avere tra i fiori del nostro
pubblico giardino un piccolo santuario dove custodire la più grande reliquia a
ricordo della celebre scuola dei liutai cremonesi. Ma chi ordinò o lasciò
compiere la dispersione dei resti gloriosi del grande liutaro, avrà forse
pensato col poeta dei Canti rossi:
Date al vento le ceneri ridendo dei sepolcri, delle cripte, dei colombai, forme ingannevoli d’umani egoismi e spesso di ridicole ambizioni.
Date al vento le ceneri, e naviganti
nella infinità dello spazio, feconderanno forme umane.
Una parte di esse toccherà il Sole dove
il grande artefice tenne fisso lo sguardo per togliervi quella scintilla che
doveva renderlo immortale e tornerà più tardi sulla terra
Forse a dar vita a un fior,
O a fecondar le zolle
Di un obliato allor
Dimentichiamo adunque l’opera inconsulta dei profanatori, e accontentiamoci noi concittadini di Antonio Stradivari di cullarci nella dolce illusione che l’alito trasformatore della natura abbia mutato le ceneri del sommo liutaro ne’ variopinti fiori del nostro pubblico giardino.
Qualche
anno dopo la Rappresentanza Comunale deliberava di intitolare ad Antonio Stradivari uno dei Corsi più
centrali della Città, e precisamente quello che fa capo al pubblico giardino di Piazza Roma, dove sorgeva la
Basilica di S. Domenico, e qualcuno fino d’allora propose, con assai poca
fortuna, d’innalzare al grande artefice un ricordo monumentale. Proposta che io
stesso ebbi l’onore di ripresentare al Consiglio Comunale di Cremona nella
seduta del 12 maggio 1889, ma che,
come la prima, si trovò di fronte lo spettro minaccioso e indomabile delle
esauste finanze.
Ma, sia comunque, anziché dilungarmi più oltre intorno all’argomento della Sepoltura Stradivari il quale mi pare aver trattato abbastanza ampiamente e con suffiiente corredo di notizie e di considerazioni, mi consenta il benevole lettore di chiudere il presente Capitolo colle parole che servono d’introduzione ad un lavoro pubblicato dal mio egregio amico Ingegnere Ettore Signori intorno la Basilica di S. Domenico nei Documenti Cremonesi della decadenza Romana alla fine del Secolo XVII:
Non crediamo di fare opera inutile
col pubblicare questo insigne monumento e coll’indagarne la storia, sebbene già
da qualche anno sia caduto sotto il martello demolitore e sull’area del vasto
tempio e del chiostro fiorisca ora un pubblico giardino. Non sarebbe però
adesso di nessun scopo pratico l’addentrarci per codesta demolizione in una
discussione tecnica ed amministrativa, che è già durata troppo a lungo; e noi a
dir vero, per quanto ferventi amici dell’arte e della conservazione dei patri
monumenti, contemplando la folla allegra e festante, che si versa nel pubblico
giardino di Piazza Roma a respirare un po’ d’aria pura, e scorgendo il verde
che rallegra la squallida e soffocante nudità delle mura cittadine, non
possiamo deplorare affatto la perduta Basilica.
Come
ognun sa inoltre, detta Basilica per vero assai ammalorata ed in certi punti
pericolante e l’annessovi Convento adibito da parecchi anni ad uso Caserma,
furono acquistati dal Comune di Cremona allo scopo precipuo di poter operare
nel centro della Città quella specie di sventramento ottenutosi di fatto colla
costruzione del pubblico giardino…
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