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‘In quali
circostanze consideriamo le cose reali?’:
Questa
domanda sta in uno dei più notevoli capitoli dei Principi di psicologia di
William James, il quale inizia da qui per sviluppare la sua teoria dei diversi
ordini della realtà. James scopre che tutto ciò che è pensato in modo non
contraddittorio viene ipso facto creduto, cioè inteso come assolutamente reale.
E una cosa pensata può essere contraddetta da un’altra solo se l’una inizia la
disputa affermando qualcosa che non è ammissibile per l’altra.
Se si verifica questo caso, la mente
deve fare una scelta.
Ogni
proposizione che si tratti di predicare un attributo, o di affermare
l’esistenza di qualcosa, viene creduta per il fatto stesso di essere concepita,
a meno che non si scontri con altre proposizioni cui si presta fede
contemporaneamente, e che si intendano riferire tutte agli stessi termini.
Sempre secondo William James, la distinzione tra reale e irreale, l’intera psicologia della credenza, dell’incredulità e del dubbio si basano su due fatti mentali: primo, che abbiamo la possibilità di pensare in modi diversi a proposito del medesimo oggetto; secondo, che quando lo abbiamo fatto possiamo scegliere a quale modo aderire e quale scartare. L’origine e la fonte di tutta la realtà, sia dal punto di vista assoluto che da quello pratico, è dunque soggettiva: siamo noi.
Di
conseguenza, esistono molti diversi ordini di realtà, probabilmente un numero infinito, ciascuno con il suo stile di esistenza
particolare e distinto: James li chiama ‘sotto-universi’. Fra di loro vi è il
mondo dei sensi o delle ‘cose’ fisiche così come sono sperimentate dal senso
comune; il mondo della scienza; il mondo delle relazioni ideali; quello degli ‘idoli
della tribù’; i mondi soprannaturali come il Paradiso e l’Inferno dei
cristiani; i numerosi mondi dell’opinione individuale; e
i mondi della pura follia e della fantasia, anch’essi infinitamente numerosi.
Ogni oggetto cui pensiamo si riferisce ad almeno uno di questi mondi, o ad uno di una lista analoga. Ogni mondo, nel momento in cui vi si fa riferimento, è reale a proprio modo, ed ogni relazione con la nostra mente, se non vi è la presenza di una relazione più forte che la contrasti, è sufficiente a rendere un oggetto reale.
Fin qui
William James.
Questa non
è la sede per studiare con quali mezzi la mente attribuisca un accento di
realtà ad uno di questi sotto-universi e lo sottragga ad altri, né come avvenga
il passaggio da una sfera di realtà ad un’altra, e neppure, infine, che tipi di
coscienza caratterizzino le varie provincie o sotto-universi di realtà. Le
poche frasi citate di James delimitano il nostro scopo, che è quello di
analizzare il problema della realtà nel Don Chisciotte…
Così come il Dialogo dei ‘cani’ dello stesso autore che fra breve ripropongo con un diverso Epilogo o ‘accento deduttivo’, nonché espositivo nelle finalità che lasciano sottintendere nel loro significato espressivo, fra allegorico e letterale inerente medesimo linguaggio posto fra Ragione Pensiero ed Intelletto derivato da una Idea, quindi da un Dio - o un Demone dello stesso - che al meglio l’ha ispirata:
“A meno che le sue parole non s’abbiano
a prendere in un senso particolare, che ho sentito dire che si chiama ‘allegorico’;
ed è un senso che non corrisponde a quel che letteralmente dicon le parole, ma
ad un significato diverso che, sebben differente, abbia con esso una certa
somiglianza”.
E di cui l’Autore - o meglio il Genius Loci del
medesimo -, hanno abdicato alla realtà di Sancho, come con l’Io Dialogante d’una
diversa Coscienza, condiviso seppur diviso fra Scipione e Braganza, sottratto
da una condizione eretica in conflitto con la Fede del proprio Tempo.
E Sancho - il più mite e saggio Sancho - così
come l’interlocutore Scipione, lo riportano e riconducono alla realtà - ma non
certo verità - del nostro - trascorso presente e futuro - Tempo con loro
condiviso, sino al Genio dell’Infinito e un più probabile eretico Dio.
Quantunque sottratto ad ogni freccia o curvatura - spazio temporale - da cui medesime condizioni materiali - in paradossale conflittuale condizione - con il Genio e l’Anima incarnata che ne deduce un diverso contesto narrativo - oppure ed ancor meglio - metafisico, sottratto all’inganno della realtà, ne evidenzieranno la nascita - ma non certo la ‘summa’ - del proprio tempo nato e/o narrante:
“Dunque la Camacha fu una burlona
bugiarda, la Cañizares una mentitrice, e la Montiela una sciocca maliziosa e
perversa, con rispetto parlando per il caso che sia nostra madre, di entrambi,
o piuttosto soltanto tua, perché io non voglio averla per madre. Dico dunque
che il vero significato di quei versi è ‘un gioco di birilli’, in cui con
pronta diligenza i giocatori abbattono quelli che stanno in piedi e rialzano
quelli abbattuti, si capisce, per mano di chi lo può fare. Pensa dunque quante
volte nel corso della nostra vita abbiam visto giocare a birilli, e se perciò
ci siam visti tornare uomini, dato pure che lo siamo”.
Ovvero di una diversa realtà narrante non confacente con le verità soggettivate, nonché calendarizzate, d’una medesima menzogna storica protratta nel tempo contato come numerato…:
“BRAGANZA: Confesso che hai ragione, Scipione, fratello mio,
e che sei più saggio di quanto credessi. Da ciò che hai detto mi induco a
pensare e a credere che tutto quello che fin qua ci è intervenuto, e quel che
ora ci accade, sia un sogno, e che in realtà noi siamo cani. Ma non per questo
dobbiamo rinunciare a godere questo bene della favella che ora possediamo e l’immenso
privilegio di avere ragione umana, per tutto il tempo che ci sarà possibile. E
perciò non ti seccare se ti racconto quel che mi accadde con gli zingari che mi
avevano nascosto nella grotta”.
Come molti ricorderanno, la storia di Calderon de
la Barca racconta di Sigismondo, principe ereditario di un immaginario regno di
Polonia. Quando lo incontriamo, Sigismondo è prigioniero in una torre, e non sa
di essere principe. A causa di una profezia, il padre lo aveva allontanato
dalla corte appena nato, e tenuto all’oscuro della propria origine. Tuttavia,
più o meno per caso, un giorno la sua identità gli viene svelata: viene portato
a corte, ammesso al suo rango, riconosciuto come l’erede al trono. Però, come
era stato predetto,
Sigismondo si rivela dispotico e crudele: dopo averlo fatto addormentare, dunque, i servi del re lo riportano alla torre. Al suo risveglio, egli ritrova tutto com’era all’inizio della storia: poiché i servi si sono accordati tra loro, nessuno gli conferma di aver effettivamente viaggiato fino a corte né l’identità che pensava di avere scoperto. Di fronte alla concordanza di tutti i testimoni con cui è in grado di parlare, egli è portato così a pensare di aver sognato, e di non essersi in verità mai mosso dalla sua torre.
Il dramma di Calderon si chiude sul problema
metafisico se la vita, per tutti, sia o no un sogno.
Al di qua della metafisica, il problema è però:
che cosa fa sì che noi riteniamo certe avventure dei sogni, e certe altre
realtà?
Nel racconto, la risposta è che ciascuno di noi
ritiene “reale” ciò che gli altri confermano: in mancanza di questa conferma,
siamo costretti a credere di avere solo “sognato”. A rigore, vi è un’altra
risposta alla stessa domanda: che noi chiamiamo “realtà” ciò che si offre alla
prova della resistenza cioè quegli oggetti che si prestano a una relazione
materiale con il nostro corpo, che possiamo modificare con i nostri gesti, che
possono piegarsi o resistere ai nostri disegni. È “reale” ciò su cui le nostre
mani hanno presa. Tuttavia, non tutto ciò che usualmente chiamiamo “realtà” è effettivamente
a portata di mano, e si presta a questo tipo di prova.
E ciò conduce esattamente alla risposta indicata da Calderon de la Barca: chiamiamo “realtà” quello che anche gli altri concordano nel chiamare “realtà”. Anzi: la forza di questo tipo di risposta è tale che, in assenza di una concordanza con gli altri, persino ciò di cui ci sembra di aver provato la realtà sembra svanire nel sogno. In mancanza di un accordo intersoggettivo, il dubbio non può non farsi strada (se non di sogno, potremo parlare di “allucinazione”, di “fantasia”, di “errore” o di “pazzia”). Il senso della realtà, la definizione di cosa è “reale” e cosa no, è dunque una costruzione intersoggettiva.
Naturalmente, non tutti e non sempre si chiedono
cosa sia la realtà.
La tesi che voglio proporre è che il racconto (i racconti) di Cervantes ha sistematicamente a che fare proprio con il problema delle realtà multiple posto da William James, e che le varie fasi delle avventure di Don Chisciotte sono variazioni attentamente elaborate del tema principale, cioè di come noi abbiamo esperienza della realtà.
Questo
problema ha molti aspetti, dialetticamente interrelati. C’è il mondo della
follia di Don Chisciotte, il mondo della cavalleria, un sotto-universo di
realtà incompatibile con l’ovvia realtà della vita quotidiana, in cui il
barbiere, il prete, la domestica e la nipote vivono semplicemente, dandolo per
scontato senza problemi. Come avviene che Don Chisciotte possa conferire l’accento
di realtà al suo sotto-universo fantastico, se questo si scontra con la realtà
preminente in cui non ci sono castelli e armate e giganti, ma solo osterie,
greggi di pecore e mulini a vento? Come è possibile che il mondo privato di Don
Chisciotte non sia un mondo solipsistico, ma che ci siano altre menti
all’interno di questo mondo, e non solamente come oggetti dell’esperienza di
Don Chisciotte, ma come menti che condividono con lui, almeno fino a un certo punto, la credenza
nella realtà, attuale o potenziale, di questo mondo?
In effetti, né il sotto-universo della follia di Don Chisciotte né l’ovvia realtà dei sensi, come la chiama William James, in cui noi come Sancho Panza viviamo la nostra esistenza di tutti i giorni sono in verità così monolitici come appaiono. Entrambi contengono delle enclavi di esperienza che trascendono sia il sotto-universo dato per scontato da Don Chisciotte sia quello di Sancho Panza, e implicano riferimenti ad altre sfere di realtà che non sono compatibili con essi.
Ci sono rumori notturni enigmatici e inquietanti, ci sono la morte e il sogno, la visione e l’arte, la profezia e la scienza. Come fa Don Chisciotte, e come facciamo noi Sanchi Panza, a riuscire a conservare la fede nella realtà del delimitato sotto-universo che scegliamo come casa-madre, nonostante le diverse irruzioni di esperienze che lo trascendono?
Questo sotto-universo è caratterizzato da peculiari modificazioni delle categorie basilari del pensiero, cioè di quelle che riguardano lo spazio, il tempo e la causalità. Il regno di Micomicona’ in Etiopia, l’Impero di Trebisonda sono concetti geografici ben determinati; la seconda regione dell’aria, dove hanno origine il gelo e la neve, e la terza regione del fuoco, dove nascono i lampi ed i tuoni sono stabiliti dalla fisica celeste.
E tutti
questi posti possono essere raggiunti con facilità: il saggio, mago o
negromante che bada agli affari del cavaliere, e di certo ogni cavaliere, se lo
è davvero, ha un compagno del genere, lo piglia dal letto e il giorno dopo sarà
mille miglia lontano; oppure gli manda un carro di fuoco o un ippogrifo o
Clavilegno, il cavallo di legno, o una barca incantata. Altrimenti sarebbe
impossibile a un cavaliere combattere con un drago nelle montagne dell’Armenia
ed essere salvato all’ultimo minuto dall’amico che fino a un momento prima
stava in Inghilterra.
Don Chisciotte passa quattro notti nella grotta di Montesinos, sebbene quelli che lo aspettano fuori dicano che sia stato via poco più di un’ora, un problema simile a quello che ai nostri giorni ha analizzato Bergson, nella sua discussione sul concetto di tempo nella teoria della relatività di Einstein.
Tutto ciò è
dovuto al lavoro dei maghi, quelli amici e quelli nemici, che nel
sotto-universo donchisciottesco sostengono il ruolo delle cause e dei motivi.
La loro attività è la categoria di base con cui Don Chisciotte interpreta il
mondo. La loro funzione è quella di tradurre l’ordine del regno della fantasia
in quello dell’esperienza di senso comune: per esempio di trasformare i reali
giganti attaccati da Don Chisciotte in fantasmi di mulini a vento.
I maghi, come veniamo a sapere, possono trasformare ogni cosa, mutare le forme naturali. Ma, in senso stretto, quello che trasformano è lo schema di interpretazione che prevale in un sotto-universo nello schema di interpretazione che è valido in un altro. Entrambi gli schemi si riferiscono agli stessi dati di fatto, che diventano, nei termini del sottouniverso privato di Don Chisciotte, il miracoloso elmo di Mambrino, e, nei termini dell’evidente realtà della vita quotidiana di Sancho, una comune bacinella da barbiere.
Così, la
funzione dei maghi è quella di garantire la coesistenza e la compatibilità
reciproca di sotto-universi di significato differenti ma riguardanti gli stessi
dati di fatto, e di assicurare il mantenimento dell’accento di realtà posto su
ciascuno di questi sotto-universi. Una volta che il lavoro dei maghi è
riconosciuto come elemento costitutivo del mondo, nulla rimane inspiegato,
paradossale o contraddittorio.
Ma per Don Chisciotte l’esistenza dei maghi è molto più di una semplice ipotesi. Si tratta di fatti storici provati da tutti i sacri testi che trattano della cavalleria. Ovviamente, questi fatti non sono verificabili con i mezzi ordinari della percezione sensoriale. Infatti i maghi non si fanno vedere, ed è chiaro che l’assioma dell’incantesimo, ciò che rende possibile la riconciliazione tra il sotto-universo della fantasia e la realtà ordinaria, non può essere assoggettato a sistemi di verifica che hanno origine in uno di questi sotto-universi.
La nostra
epoca illuminata non è sicuramente disposta ad accettare l’azione di
incantatori invisibili come principio di spiegazione dei fatti e degli
avvenimenti all’interno della struttura causale del mondo. Certo, riconosciamo
l’esistenza di virus invisibili, quella dei neutroni o quella dell’“Es” di cui
parla la psicoanalisi come origine di fenomeni suscettibili di osservazione. Ma
chi oserebbe paragonare queste scoperte dei nostri scienziati con l’attività dei
maghi di cui parla il folle Don Chisciotte?
Eppure, nella teoria di quest’ultimo, l’attività dei suoi occulti incantatori ha un grande vantaggio su quella dei principi esplicativi delle scienze moderne: i maghi hanno i loro buoni motivi per agire come agiscono, e questi motivi sono comprensibili per noi esseri umani. Qualche mago getta un maleficio perché sa, grazie alla sua arte, che Don Chisciotte in futuro sconfiggerà in duello uno dei suoi cavalieri preferiti, e che a quel punto egli non potrà più impedire o rovesciare quel che il Cielo avrà decretato.
Ma
interferiscono anche i maghi buoni: il saggio che è al fianco di Don Chisciotte
mostra una rara preveggenza nel far sì che l’elmo di Mambrino, un oggetto di
immenso valore, appaia alla gente comune una normale bacinella da barba,
proteggendo così il suo possessore da tutti quelli ne potrebbero capire il vero
significato. E succede anche, come nella miracolosa avventura della barca
incantata, ad esempio, che due maghi potenti si scontrino, in modo da frustrare
l’uno i disegni dell’altro.
Qui abbiamo tutti gli elementi della teologia dei Greci al tempo di Omero: l’invidia degli dei, i loro interventi in favore dei protetti, la loro lotta per il potere, la loro sottomissione all’inevitabile fato. Certamente, se introduciamo i maghi nella catena delle cause e degli effetti non siamo in grado di risolvere il dubbio cartesiano riguardo al fatto se il mondo sia governato da un genio malefico o da Dio. Ma siamo sicuri che tutto quello che accade ha la sua ragione, una ragione che si rifà alle motivazioni dei maghi. Verrebbe voglia di parlare di una dialettica non-hegeliana, così come si parla di una geometria non-euclidea.
(A. Schutz)
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