CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 29 maggio 2021

IL RACCONTO DELLA DOMENICA, ovvero: VECCHIO E NUOVO TESTAMENTO (24)

 










Precedenti capitoli:


Sempre di Domenica...


& Paganini (27-05...)


Prosegue con...:


Vecchio & Nuovo Testamento (25)








Questo articolo propone alcune riflessioni sulla nascita del senso moderno della famiglia, ispirate dalle clausole pie dei testamenti e dalle tombe.

 

Ma, prima di tutto di quale famiglia si tratta?

 

Non si tratta né della famiglia patriarcale, estesa a vari nuclei familiari o a parecchie generazioni, e che forse è esistita solo in casi eccezionali, né della famiglia dei nostri tempi, ridotta ai genitori e ai figli ancora dipendenti.

 

Una favola di La Fontaine (libro quarto, 22) descrive assai bene quel che s’intendeva per famiglia verso il 1660, quando fu composta.




L’allodola ha fatto il nido in un campo di grano, un po’ tardi nella stagione, e spia il giorno della mietitura per sloggiare senza strepito. Incarica i suoi piccoli di ascoltar bene i discorsi del padrone del campo, quando fa il giro della proprietà con suo figlio:

 

Le possesseur du champ vient avecque son fils. Les blés sont murs, dit-il, allez chez nos amis Les prier que, chacun apportant sa faucille, Nous vienne aider demain dès la pointe du jour.

 

Il gruppo degli amici è il primo ad essere invitato. Ma è troppo lontano e troppo indifferente: L’aube du jour arrive et d’amis point du tout. Il padrone ha capito di non poter contare sugli amici. Eppure a quei tempi l’amicizia aveva un’importanza maggiore che nei nostri, e nei testamenti si dimostrava agli amici una considerazione pari a quella dovuta ai parenti.




Un testatore del 1646 prega sua moglie e i suoi figli di sentire [per la tomba e il funerale] il parere e il consiglio in tutto l’affare dei Signori [illeggibile], suoi buoni amici, e questi prega umilmente, così come gli hanno fatto l’onore di amarlo da vivo, che dopo la sua morte vogliano conservare quest’affetto verso i suoi... 

 

La negligenza degli amici era colpa grave e poco comune. Il padrone deve passar oltre:

 

Mon fils, allez chez nos parents Les prier de la meme chose. 

 

È chiaro che questi parenti non abitano insieme al padrone e a suo figlio (andate dai nostri parenti), ma possono essere molto vicini per sangue o matrimonio.

 

Si capisce così lo spavento degli uccellini: i suoi parenti, ha detto.




Ma neanche i parenti arrivano.

 

Allora il padrone deve trarre la morale, e dice al figlio che l’accompagna sempre:

 

Il n’est meilleur ami ni parent que soi-mème Retenez bien cela, mon fils. Et savez-vous Ce qu’il faut faire? Il faut qu’avec notre famille Nous prenions dès demain chacun notre faucille...

 

Il testo è chiaro.

 

La famiglia, in questo caso, esclude i parenti che vivono altrove, ma comprende tutti quelli che abitano sotto lo stesso tetto, figli e servi compresi che dipendono dallo stesso padrone: «la nostra famiglia.

 

Il padrone della famiglia è anche il padrone del campo.




Per molto tempo non si sono distinte le nozioni oggi ben separate, di paternità e di proprietà, di famiglia e di patrimonio. La Fontaine, nel Diciassettesimo secolo, faceva la stessa confusione di san Girolamo nel Quarto. Questi traduceva con pater familias la parola greca oikodespotes, letteralmente padrone di casa. Il pater familias della Vulgata non è necessariamente un padre di famiglia, nel senso attuale, ma un proprietario di uomini e di beni: il padrone del campo. Se ne può concludere che un povero non poteva essere pater familias.

 

Nella prima metà del Diciottesimo secolo, lo stile e il tono dei testamenti sono cambiati, e anche la loro funzione: questo cambiamento è in rapporto con il senso della famiglia.




Fino ai primi del Diciottesimo secolo, questa funzione era la stessa che era sempre stata dal Medioevo: religiosa. Lo scopo del testamento era di costringere l’uomo a pensare alla morte mentre era ancora in tempo. Senza dubbio nel Diciassettesimo secolo, il testamento non era più registrato dai parroci, non era più considerato proprio come un sufficiente passaporto per il cielo, e non si estrometteva più dalla terra consacrata chi era morto intestato, come fosse scomunicato.

 

Ma, se il testamento non era più un atto quasi sacramentale, restava pur sempre un atto religioso in cui il testatore esprimeva, per mezzo di formule più spontanee di quanto si creda, la sua fede, la sua fiducia nell’intercessione della Corte celeste, e disponeva di quel che ancora gli era più caro: il suo corpo e la sua anima.




La parte più lunga del testo è sempre ad pias causas: la professione di fede, la confessione dei peccati e la riparazione dei torti, l’elezione della sepoltura e, infine, le numerose disposizioni a favore dell’anima: messe, preghiere, che cominciavano fin dall’agonia ed erano celebrate a date fisse, in perpetuo. Si resta colpiti dalla minuzia dei particolari: il testatore non lasciava nulla né al caso né all’affetto dei suoi.

 

Sembra che non abbia più fiducia in nessuno.

 

Certo il suo letto d’ammalato era circondato da parenti, da amici spirituali e carnali. La camera di un moribondo era un luogo pubblico. Ma parenti e amici diventavano estranei al dramma che vi si stava svolgendo, e che neppure vedevano; questo dramma metteva il moribondo alle prese col divino Giudice, gli accusatori diabolici, i santi patroni.

 

Era completamente solo.




 Soltanto a lui spettava provvedere alle garanzie per la salvezza della sua anima, riceverne la formale assicurazione, secondo le clausole di quel contratto di salvezza spirituale che era il testamento. Può contare solo su di esso, deve imporre le sue volontà agli eredi, moglie o figli, monastero o fabbrica. Con durezza da leguleio, tipica di ogni uomo dell’ancien régime, non risparmia nessun dettaglio: né un grammo di cera né un De profundis. Prescrive che i lasciti pii e la loro destinazione siano affissi in chiesa su un materiale non deperibile, pietra o ottone, per scongiurare l’oblio delle future generazioni. Di rado il testatore si rimette alla discrezione di un coniuge, di un amico, e, quando lo fa, è piuttosto per volontà di umiliazione e di semplicità che per assoluta fiducia.

 

Così la famiglia non partecipa alle disposizioni prese dal testatore per il riposo della sua anima e la scelta della sepoltura. Si arriva addirittura a chiedersi se assisteva sempre al servizio funebre e ai funerali. Il lutto costringeva la vedova a restarsene in casa. Perché il testatore deve, in certi casi, esigere la presenza dei suoi figli, come se non fosse una cosa ovvia?




Ad ogni modo, la famiglia è assente, se non dalle cerimonie funebri, almeno dalle clausole religiose del testamento (salvo la scelta della sepoltura, come si vedrà più avanti).

 

Che cosa avviene nel Diciottesimo secolo?

 

La famiglia, in apparenza, non è diventata molto più presente, ma il suo silenzio ha un diverso significato, perché la funzione e lo scopo del testamento sono mutati, e la famiglia si è sostituita al testamento per l’adempimento dei voti pii.

 

Si nota, infatti, che le clausole religiose vengono sbrigate in poche frasi convenzionali, quando non scompaiono del tutto. Il testamento diventa semplicemente quel che è rimasto fino ai nostri giorni, un atto di diritto privato, per la ripartizione dei beni del defunto.

 

Come spiegare questo cambiamento?




Si pensa subito al progresso dell’indifferenza religiosa nell’età dei lumi. Ma sappiamo che la pratica religiosa non era allora meno diffusa che nel Diciassettesimo secolo, e probabilmente lo era di più che nel Quindicesimo o Sedicesimo secolo. Le fondazioni religiose, in effetti, restavano importanti. D’altra parte esistono, soprattutto nella Francia meridionale, segni indiscutibili della fedeltà del Diciottesimo secolo alle devozioni della morte: quasi ogni chiesa ha una cappella della buona morte o delle anime del purgatorio, e in quest’epoca sorge una nuova iconografia del purgatorio. Non si può dunque spiegare la scomparsa delle clausole pie del testamento con un’anacronistica laicizzazione del sentimento religioso.

 

È il rapporto fra l’uomo e la sua famiglia che è cambiato: l’uomo che sente la morte ormai vicina non è più solo di fronte al suo destino. I parenti, la famiglia, che un tempo erano tenuti al margine della scena finale, accompagnano il morente fino alla sua ultima dimora e, da parte sua, il morente accetta di dividere con loro il momento che una volta riservava a Dio o a se stesso. Senza dubbio si è verificato allora un mutamento dell’escatologia comune, un attenuarsi della paura del Giudizio e dell’Inferno, o dell’Aldilà, ma soprattutto è intervenuto, sia nel devoto sia nel miscredente, un mutamento del sentimento familiare.




Il morente non ha più lo stesso atteggiamento di diffidenza verso i suoi parenti: non ha più bisogno di garanzie legali, di testimoni, di notai, per assicurarsi il rispetto delle sue ultime volontà, almeno quelle riguardanti il suo corpo e la sua anima (per il patrimonio, le vecchie precauzioni sono sempre legittime!). Bastava che le sue volontà fossero state espresse oralmente, perché impegnassero i cari sopravvissuti. Un’affettuosa fiducia era subentrata alla diffidenza. Nella vecchia società, il moribondo affermava al tempo stesso la sua indipendenza nei riguardi della famiglia e la dipendenza della famiglia da lui. Dal Diciassettesimo secolo in poi, il morente si è abbandonato, anima e corpo, alla sua famiglia. La scomparsa delle clausole sentimentali e spirituali dal testamento è il segno del consenso del malato o del morente a tirarsi da parte e ad esser preso a carico dalla famiglia.

 

Abbiamo detto che nella vecchia società, fino al Diciottesimo secolo, l’uomo si trovava solo di fronte all’approssimarsi, o anche all’idea, della morte. O, per meglio dire, la sua anima si trovava sola. Durante il primo millennio, non si concepiva la morte come una separazione dell’anima dal corpo, ma come un sonno misterioso dell’essere indivisibile. Per questo era importante soprattutto scegliere un luogo sicuro per attendervi in pace il giorno della resurrezione.




A partire dal Dodicesimo secolo, si credette che, al momento della morte, l’anima abbandonasse il corpo, e che subisse immediatamente un giudizio individuale, senza attendere la fine dei tempi: la solitudine dell’uomo davanti alla morte è lo spazio in cui questi prende coscienza della sua individualità, e le clausole pie del testamento sono i mezzi per salvare questa individualità dalla distruzione temporale e conservarla nell’al di là. Le nuove disposizioni concernenti il riposo dell’anima si aggiungevano alla tradizionale preoccupazione della scelta della sepoltura. Dò la mia anima a Dio, lascio il mio corpo alla chiesa degli Agostiniani e nella sepoltura dei miei, scrive, nel 1648, nel suo testamento, un consigliere al parlamento di Tolosa.


(Prosegue...)









giovedì 27 maggio 2021

PAGANINI il maestro non si ripete, ovvero: GLI ORFEI (8)

 










Precedenti capitoli:


Con i quattro Elementi profanati... (6-7/1)


Prosegue con...:


L'Armonia del mondo: Frammenti (9)








& il capitolo quasi completo, ovvero,


un Re leggermente più alto...








Ci sono alcuni nomi, la semplice menzione o il pensiero che evocano personalità distinte; tali sono Handel, Bach, Beethoven, Wagner; ma nessuno ha la straordinaria individualità di quella di Paganini.

 

Sebbene siano in vita pochi coloro che hanno visto quell’uomo, e sebbene i suoi ritratti non si incontrino comunemente, il nome di Paganini richiama subito un’immagine: strana, inquietante, demoniaca; riporta la debole eco di spettacoli da tempo perduti nei corridoi del tempo; ed eccita l’immaginazione in un modo del tutto unico. Gli ultimi anni hanno assistito alla comparsa di un numero senza precedenti di meravigliosi giovani violinisti, i cui successi culminano nella meravigliosa esecuzione del ragazzo Franz von Vecsey.




Queste manifestazioni sono quasi sufficienti per indurre a credere nella teoria o nella dottrina della reincarnazione, e per far pensare che il grande genovese sia di nuovo in carne e ossa.

 

Anche questi violinisti suonano tutti la musica di Paganini; sembrano vantarsene, e così anche il pubblico per molte persone serie e degne è solo trappola per topi. Questo rinnovato interesse per Paganini e la sua musica sembra rendere il presente un momento appropriato per riaffermare il caso dell’uomo e dell’artista, nonostante la vasta letteratura già associata al suo nome.

 

L’artista è il figlio della sua età.




Che età era quella che ha prodotto Paganini?

 

Pochi anni prima che lui nascesse, venne al mondo uno che doveva ‘ambientare’ L’Europa in fiamme. L’età è l’era della rivoluzione. I troni vacillarono; gli eserciti devastarono il continente e l’Italia divenne un mero appannaggio dell’Impero francese. Lo sconvolgimento politico è stato accompagnato da una rivoluzione nell’arte. Sorse la scuola romantica di musica e Beethoven, Schubert, Berlioz, Chopin, Schumann, Liszt e Wagner furono i risultati psichici del tumulto in cui fu gettato il mondo.

 

In un mondo del genere, già sentendo i tremori premonitori della grande Rivoluzione, nacque a Genova, il 27 ottobre 1782, Nicolò Paganini.




I genovesi - parsimoniosi e industriosi - non avevano a quel tempo un carattere morale molto buono; ma allora forse non erano soli in questo senso. Poche informazioni sono disponibili sulla famiglia di Paganini. Il padre, Antonio Paganini, teneva una piccola bottega nei pressi del porto; è descritto come un uomo dal carattere straordinariamente avaro, duro e brutale, ma che possiede la qualità salvifica dell’amore per la musica e mostra una certa abilità nell’arte; il suo strumento era il mandolino, anche se Laphaléque dice che era un violinista.

 

La madre deve essere stata di un carattere amabile, da quel poco che è stato registrato di lei. La famiglia era composta da due figli e due figlie. Del figlio maggiore, si fa menzione una sola volta; delle figlie, sembra che non si sappia nulla. Il piccolo Nicolò deve aver dato prova di talento musicale molto presto, ma prima di essere messo ai suoi studi fu attaccato dal morbillo, e questo così gravemente che rimase per un’intera giornata in uno stato di catalessi.




Fu dato per morto ed era avvolto in un sudario, e solo un leggero movimento all’ultimo, che mostrava sintomi di vita, lo salvò dall’orrore di una sepoltura prematura.

 

Si era appena ripreso quando suo padre iniziò le lezioni di violino.

 

L’evidente predisposizione del bambino per l’arte eccitava l’avarizia del padre, che trovava pochi margini di gratificazione nelle sue piccole imprese.

 

Nel 1793 Paganini fece il suo debutto nel grande Teatro di Genova (Carlo Felice). Era all’undicesimo anno, e la sua fama doveva essere notevole, l’occasione fu di una certa importanza, essendo il concerto di beneficenza di due cantanti di fama, Luigi Marchesi e Teresa Bertinotti. Marchesi era secondo solo a Pacchierotti tra i soprani maschi dell’epoca, e cantò al King’s Theatre, di Londra, durante la stagione del 1788; nelle ‘Reminiscenze musicali’ del Conte di Mount Edgcumbe è lodato come il più brillante cantante dei suoi tempi.




È stato un grande complimento al talento del giovane Nicolò che questi cantanti richiedessero il suo aiuto. Inoltre, promisero di cantare per lui quando avrebbe dovuto dare un concerto. Entrambe le opere si svolsero regolarmente e il ragazzo-artista di ciascuna interpretò una serie di variazioni della propria composizione su La Carmagnole; un’aria allora molto in voga. Quella vecchia melodia adoperata al servizio della Rivoluzione francese, fu opportunamente associata al giovane artista, egli stesso rivoluzionario.

 

Il suo successo fu fenomenale!

 

Non è necessario entrare nei dettagli riguardanti tutti i tour di Paganini. Sembra che sia stato nel 1810 che scrisse la Sonata di Napoleone, e la eseguì in pubblico in un concerto da lui tenuto a Parma, il 18 agosto 1811. La sua fama si stava diffondendo oltre il suo paese, e Schilling afferma che dal 1812 i giornali musicali tedeschi gli prestarono molta attenzione.




Era a Milano nel 1813 e lì il suo successo fu più grande che mai. Per quella città sembrava avere una predilezione, perché vi rimase, salvo un breve soggiorno a Genova, fino all’autunno del 1814. A quel tempo non era affatto un recluso, visitò il teatro, La Scala, e assistette a un’esibizione del balletto di Vigano, Il Noce di Benevento, di cui Süssmayer scrisse le musiche; e da una certa scena prese il tema delle sue variazioni note come Le Streghe.

 

Nell’ottobre 1814 Paganini andò a Bologna e lì incontrò per la prima volta Rossini. Rossini, nove anni più giovane di Paganini, aveva già prodotto una dozzina di opere, due a Milano quell’anno. Per favore del tribunale Rossini era appena scampato alla coscrizione ed era corso via a Bologna.

 

L’incontro di questi due artisti fu importante per entrambi.




Nel 1820 Paganini tornò a Milano, dove fondò una Società di Dilettanti, Gli Orfei, e ne diresse i concerti per un periodo; ma le abitudini vagabonde che aveva acquisito rendevano fastidiosa una vita stabile, e presto fu di nuovo in viaggio. L’inverno lo trovò di nuovo a Roma, dove doveva essere rimasto di tanto in tanto per un altro anno; perché era lì nel dicembre 1821, quando Rossini stava per produrre la sua opera, Matilda di Sabran, all’apertura della stagione del carnevale. Il giorno dell’ultima prova il direttore d’orchestra si ammala e Rossini dispera di rimpiazzarlo. Paganini, sentito il dilemma del suo amico si offrì di dirigere le prove e la prima rappresentazione - la sua esperienza operistica a Lucca non va dimenticata – un’offerta che Rossini accettò con gratitudine.

 

Senza un attimo di preparazione, Paganini si mise al lavoro per creare con un’orchestra ‘inesperta’: era al Teatro d’Apollone — le intenzioni del compositore e il modo in cui dovrebbero essere interpretate. Non avendo tempo per la spiegazione verbale, fece tutto con l’esempio, suonando la prima parte di violino un’ottava più alta di quella scritta, e facendosi sentire al di sopra del suono concertato.




 In un colpo d’occhio penetrò il significato di ogni movimento e lavorò così tanto sugli esecutori che gli obbedirono come per incantesimo. Bastò questa singola prova per realizzare un’esibizione ineccepibile, con l’orchestra in una vera e propria metamorfosi, tra lo stupore di tutti, Rossini compreso.

 

Mai, si dice, la banda degli Apollo suonò con così tanto spirito!

 

Paganini arrivò a Vienna, il 16 marzo 1828, e tenne il suo primo concerto nella Redouten-Saal il 29 dello stesso mese, creando un clamore di cui non si era mai assistito. Va tenuto presente che Paganini non era più un giovane dall’aspetto romantico capace di muovere i sentimenti di giovani donne sentimentali o isteriche. Aveva quarantasei anni e il suo viso portava i segni della sofferenza; portava i suoi lunghi capelli in boccoli che gli cadevano sulle spalle, ma fisicamente era un rottame. Eppure nessun artista giovanile di oggi ha fatto un debutto più sensazionale di quello di Paganini nella capitale austriaca nel 1828. Per ripetere il racconto spesso citato di Schilling:




Al primo colpo di arco del suo Guarnerius, si potrebbe quasi dire al primo passo che fece nella sala, la sua reputazione è già stata decisa in Germania. Acceso come da un lampo elettrico, improvvisamente brillò e scintillò come un’apparizione miracolosa nel dominio dell’arte nell’arte.

 

Da Praga, Paganini andò a Berlino, dove rimase quattro mesi. Fu accolto con il massimo entusiasmo e la sera del suo primo concerto esclamò:

 

Ho ritrovato il mio pubblico viennese.

 

Ovunque Paganini rimase per un certo periodo di tempo, divenne improvvisamente di moda imparare a suonare il violino; nei bei membri delle famiglie aristocratiche erano tra i più desiderosi di diventare allievi dell’uomo famoso.




Paganini fece fortuna a Berlino. I critici erano divisi nelle opinioni sui suoi meriti; ma Rellstab, che Schumann una volta chiamò Il miserabile critico berlinese, fu favorevolmente impressionato.

 

Ad Amburgo lo stesso anno Heine lo ascoltò, e la sua vivida e straordinaria nota dell’artista deve essere citata brevemente. Credo, disse Heine, che solo un uomo sia riuscito a mettere su carta la vera fisionomia di Paganini: un pittore sordo, di nome Lyser, che in una frenesia piena di genio ha, con pochi colpi di pennello, colpito così bene la tempra del grande violinista che si rimane allo stesso tempo divertiti e terrorizzati dalla verità del disegno tracciato.

 

Il diavolo ha guidato la mia mano, mi disse il pittore sordo, ridacchiando misteriosamente e facendo un cenno con la testa con una bonaria ironia nel modo in cui generalmente accompagnava le sue battute geniali... in concerto, e il pubblico amante dell’arte era accorso lì così presto e in tale numero che solo appena riuscii a ottenere un piccolo posto nell’orchestra. Poi, prosegue, descrivendo il pubblico e l’ingresso di Paganini che un uomo condusse nell’arena al momento della morte, come un gladiatore morente, per deliziare il pubblico con le sue convulsioni?




O è uno risorto dalla morte, un vampiro con un violino, che, se non il sangue dai nostri cuori, ad ogni modo succhia l’oro dalle nostre tasche?

 

Domande del genere ci passarono per la mente mentre Paganini eseguiva i suoi strani archi e motivi, ma tutti quei pensieri furono immediatamente arrestati quando il meraviglioso maestro si mise il violino sotto il mento e iniziò a suonare.

 

Quanto a me, tu già conosci la mia seconda vista musicale, il mio dono di vedere ad ogni tono una figura equivalente al suono, e così Paganini ad ogni colpo di arco portava davanti ai miei occhi forme e situazioni visibili; mi raccontava con melodiosi geroglifici ogni genere di favole brillanti; lui, per così dire, faceva suonare davanti a me una lanterna magica le sue buffonate colorate, essendo lui stesso l’attore principale...

 

Un ardore santo, ineffabile aleggiava nei suoni, che spesso tremavano, appena udibili, in misteriosi sussurri sull’acqua, poi si gonfiò di nuovo con una dolcezza tremante, come quella di una tromba, note udite al chiaro di luna, e poi finalmente riversate in un giubileo sfrenato, come se mille bardi avessero suonato le loro arpe e alzato la voce in un canto di vittoria...








 

venerdì 21 maggio 2021

I QUATTRO ELEMENTI [profanati dall'uomo] (6)

 










Precedenti capitoli:


Empedocle: Frammenti [1/5]


Prosegue con...:


Profanati dall'uomo (7)


& una predica....







& ancora... 29 anni dopo...









All’inizio degli anni 2000, è emerso un nuovo campo di ricerca sulla scienza del clima che ha iniziato a esplorare l’impronta digitale umana su condizioni meteorologiche estreme, come inondazioni, ondate di calore, siccità e tempeste.

 

Conosciuto come attribuzione di eventi estremi, il campo ha acquisito slancio, non solo nel mondo della scienza, ma anche nei media e nell’immaginario pubblico. Questi studi hanno il potere di collegare il concetto apparentemente astratto di cambiamento climatico con esperienze personali e tangibili del tempo.

 

Gli scienziati hanno pubblicato più di 350 studi peer-reviewed che esaminano gli estremi meteorologici in tutto il mondo, da ondate caldo in Svezia e la siccità in Sud Africa alle inondazioni in Bangladesh e agli uragani nei Caraibi. Il risultato è una crescente evidenza che l’attività umana sta aumentando il rischio di alcuni tipi di condizioni meteorologiche estreme, in particolare quelle legate al caldo.




Per tenere traccia di come si stanno accumulando le prove su questo argomento in rapido movimento, Carbon Brief ha mappato, al meglio delle nostre conoscenze, tutti gli studi sull’attribuzione di condizioni meteorologiche estreme pubblicati fino ad oggi.

 

L’analisi di Carbon Brief rivela:




- Il 70% dei 405 eventi meteorologici estremi e tendenze inclusi nella mappa sono risultati più probabili o più gravi a causa dei cambiamenti climatici causati dall’uomo.

 

- Il 9% degli eventi o delle tendenze estreme sono stati resi meno probabili o meno gravi dai cambiamenti climatici, il che significa che il 79% di tutti gli eventi ha subito un impatto umano. Il restante 21% degli eventi e delle tendenze non ha mostrato alcuna influenza umana distinguibile o è stato inconcludente.

 

- Dei 122 studi di attribuzione che hanno esaminato il caldo estremo in tutto il mondo, il 92% ha scoperto che il cambiamento climatico ha reso l’evento o la tendenza più probabile o più grave.

 

- Per gli 81 studi che hanno esaminato le precipitazioni o le inondazioni, il 58% ha riscontrato che l’attività umana aveva reso l’evento più probabile o più grave. Per i 69 eventi di siccità studiati, è del 65%.




 Pubblicato per la prima volta nel luglio 2017, questo articolo è il quarto aggiornamento annuale per incorporare nuovi studi. L’obiettivo è che funga da tracker per il campo in evoluzione dell’attribuzione di eventi estremi.

 

Gli eventi e le tendenze mostrati sulla mappa sono coperti da 357 articoli scientifici individuali o studi rapidi. Laddove un singolo studio copre più eventi o luoghi, questi sono stati separati.

 

Combinando le prove degli ultimi 20 anni, la letteratura è fortemente dominata da studi su caldo estremo (33%), piogge o inondazioni (20%) e siccità (17%). Insieme, questi costituiscono più di due terzi di tutti gli studi pubblicati (70%). L’elenco completo è disponibile in questo foglio di Google.

 

Tali studi mostrano che gli ‘studi di attribuzione’ stanno considerando sempre più gli impatti degli estremi, piuttosto che concentrarsi esclusivamente sull’evento meteorologico.




 Uno dei primi di questi studi di ‘attribuzione dell'impatto’ è stato pubblicato nel 2016. Si stima che 506 delle 735 vittime a Parigi durante l’ondata di caldo europea del 2003 fossero dovute al fatto che il cambiamento climatico aveva reso il caldo più intenso di quanto avrebbe fatto altrimenti stato. Lo stesso valeva per 64 dei 315 morti a Londra, afferma lo studio. Gli impatti sulla salute sono diventati sempre più al centro degli studi di attribuzione.

 

Allo stesso modo, la ricerca si è anche ramificata nel calcolo dei costi economici associati al contributo umano agli eventi estremi. Ad esempio, uno studio del 2020 ha stimato che circa 67 miliardi di dollari dei danni causati dall'uragano Harvey nel 2017 sono attribuibili all'influenza umana sul clima.




Questo spostamento verso gli impatti è piuttosto significativo, afferma il prof Peter Stott, che guida il team di monitoraggio e attribuzione del clima presso il Met Office Hadley Center ed è co-editore dei rapporti BAMS sin dall’inizio del 2012.

 

Dice a Carbon Brief:

 

“Gli impatti sono difficili da fare perché devi stabilire un legame significativo tra la meteorologia e l’impatto in questione. In qualità di editori, abbiamo cercato di incoraggiare più studi sugli impatti perché sono gli impatti piuttosto che la meteorologia di per sé che tende a motivare questi tipi di studio - e se abbiamo solo l'attribuzione sull'evento meteorologico, allora abbiamo solo un indiretto collegamento all'impatto rilevante”.




Infine, la ricerca sull’attribuzione ha anche identificato il segnale dell’influenza umana in indicatori generali del cambiamento climatico, come l’aumento della temperatura media o l’innalzamento del livello del mare. Recenti ricerche sono state persino in grado di rilevare l’impronta digitale del cambiamento climatico da un singolo giorno nel record globale osservato dall’inizio del 2012 e dal 1999 sulla base di un anno di dati.

 

Degli studi effettuati gli scienziati hanno scoperto che il cambiamento climatico causato dall’uomo ha alterato la probabilità o la gravità di un evento meteorologico estremo nel 79% dei casi studiati (il 70% reso più grave o probabile e il 9% meno).

 

Nella prima edizione di Carbon Brief di questa analisi nel 2017, il 68% degli eventi determinato da un impatto umano (con il 63% reso più grave o probabile e il 6% in meno).




 Esistono diversi modi per eseguire un’analisi di attribuzione. Uno dei più comuni è quello di prendere osservazioni e/o simulazioni di modelli climatici di un evento estremo nel clima attuale e confrontarle con modelli idealizzati di quell’evento in un mondo senza riscaldamento globale causato dall’uomo. La differenza tra le simulazioni di cambiamento climatico con e senza indica come è cambiata la probabilità o la gravità di quell’evento estremo.

 

Si noti che gli eventi sono classificati qui come aventi un impatto umano se si scopre che il cambiamento climatico ha influenzato almeno un aspetto di quell’evento. Ad esempio, uno studio sulla siccità dell’Africa orientale del 2011 ha rilevato che il cambiamento climatico ha contribuito al fallimento delle piogge lunghe all’inizio del 2011, ma che la mancanza di piogge brevi alla fine del 2010 era dovuta al fenomeno climatico La Niña. Questo evento è, quindi, designato come avente un impatto umano.

(Prosegue...)