Precedenti capitoli:
Prosegue con...:
La... vista... (29)
Gli strumenti ampliano la sfera delle nostre azioni e delle nostre facoltà percettive in quanto essi prolungano il nostro corpo. Quest’osservazione si fonda sull’esperienza diretta; ciononostante, in essa si celano difficoltà notevoli.
E, in effetti, com’è possibile che il nostro corpo si prolunghi in ciò che per la sua stessa struttura non è il nostro corpo?
Come può qualcosa di
morto proseguire ciò che è vivo e, di conseguenza, entrare in qualche modo a
far parte della sua integrità vitale?
La
lingua greca ci indica la via per rispondere a questa domanda, poiché essa
designa con una sola parola, (“organo”), sia gli strumenti e gli utensili, sia
le varie parti del corpo. Ma la spiegazione di questa coincidenza, nonché la
risposta agli interrogativi di cui sopra, saranno offerti dal termine
Organoprojektion, proposto nel 1877 da Ernst Kapp nella sua Filosofia della
tecnica e successivamente utilizzato da Paul Carus, Carl du Prel, e infine, in
Russia, da M.M. Filippov e da qualcun altro ancora.
L’essenza del pensiero di Kapp risiede nel confronto tra i prodotti artificiali della tecnica e gli organi che si generano naturalmente.
L’oggetto
creato dalla tecnica è un pezzo staccato dal corpo vivente o, per essere più
precisi, dal principio vitale che dà forma al corpo.
Il
corpo vivente – intendendo questa parola nell’accezione testé rivista –
costituisce l’archetipo di qualsiasi tecnica. [l’uomo è la misura di tutte le
cose], diremo con le antiche parole di Protagora, conferendo però a questa
sentenza un significato non soggettivo, psicologico, bensì oggettivo, fisico e
metafisico.
Gli
strumenti vengono fabbricati sul modello degli organi, poiché la medesima
anima, il medesimo principio creativo disceso nell’istinto genera
inconsciamente il corpo e i suoi organi, mentre a livello dell’intelletto dà
origine alla tecnica e ai suoi strumenti.
Ma anche qui, nelle sue fasi fondamentali, quest’attività costruttiva scivola al di sotto della coscienza; quest’ultima ne può cogliere soltanto i processi secondari. Si può dire che i progetti originari degli organi del corpo e degli strumenti tecnici siano i medesimi e che i laboratori in cui essi vengono creati siano contenuti nella stessa anima. Ma la realizzazione di tali progetti segue due alvei ben distinti, sebbene l’unità originaria del disegno sia preservata anche nelle due diverse direzioni.
L’azione
diretta dell’istinto (ciò che Ernst Haeckel chiama la “fantasia creativa del
protoplasma”), se frenata nel suo spontaneo manifestarsi, origina un artificio
apparente, una forma fittizia di impulso creativo. Questa forma è per l’appunto
la forma di quest’azione trattenuta; pertanto, nel momento in cui la forma
perviene a incarnazione calandosi nella materia, tale materia, sebbene esterna
rispetto al corpo vivente, risulta tuttavia ritagliata sul modello, sui
contorni, per così dire, di quell’azione (o di quell’azione-organo) frenata.
S’è appena detto: azione-organo, poiché è impossibile pensare l’organo al di
fuori della sua funzione. Ogni parte del corpo costituisce infatti un’unità
indivisibile con la propria azione.
‘L’occhio funziona finché è simile a una camera oscura’, – scriveva Gustav Fechner nel [1855?], – e così pure i bronchi finché assomigliano a un flauto, il cuore a una pompa, il corpo con tutti i suoi processi chimici a una stufa accesa, la pelle in grado di produrre umidità a un refrigeratore’.
L’osservazione
di Fechner non è nuova; tutti coloro i quali hanno parlato del carattere
funzionale della struttura del corpo umano hanno riportato con maggiore o
minore precisione gli stessi paragoni, poiché l’idea di accostare tra di loro
organi e strumenti era presente ab ovo nelle riflessioni teleologiche più
generali e, seppur espressa in forma poco chiara, costituiva il nocciolo stesso
della dimostrazione teleologica dell’esistenza di Dio.
‘Dio, sorgente di ogni bene’, – esclamava nel 1200 Maimonide in una delle sue opere – ‘hai creato il corpo umano con infinita saggezza. Vi hai fuso miriadi innumerevoli di forze che, senza sosta, operano come una pari quantità di strumenti per sostenere e conservare in tutta la sua totalità questo meraviglioso involucro e l’anima immortale dell’uomo’.
E
di simili testimonianze se ne potrebbero raccogliere a bizzeffe; una certa
generalità nel confronto ne caratterizza la stragrande maggioranza.
Ma
nella storia della riflessione teleologica l’idea di raffrontare strumenti e
organi si precisa poco a poco, stabilendo specificamente quali utensili in
particolare ricordino i vari organi.
Così, per esempio, Jacques-Bénigne Bossuet riporta più o meno gli stessi paragoni, ma con un notevole grado di precisione, così da far emergere con chiarezza l’affinità di singoli organi del corpo con determinati strumenti o congegni.
‘Di
tutte le opere della natura’, – scrive Bossuet – ‘quella in cui essa ha
raggiunto i suoi scopi nella maniera più soddisfacente è senza dubbio l’uomo’.
Chi
si metta a indagare l’uomo vedrà che si tratta del risultato di una volontà
superiore, qualcosa che poteva essere concepito e realizzato solamente con
grande saggezza. E se questa saggezza si manifesta nel suo complesso, essa non
risulta tuttavia minore in ogni singola parte.
Nel
corpo umano tutto appare disposto con arte sorprendente.
Gli occhi hanno i loro umori e il loro cristallino. La rifrazione dei raggi della luce avviene qui con maggior perizia rispetto ai vetri più finemente levigati. Negli occhi vi è anche la pupilla, che ora si contrae, ora si dilata. Tutto il bulbo oculare ora si allunga, ora si appiattisce sull’asse visivo per adattarsi alla distanza, proprio come succede nei cannocchiali.
Tutte
le macchine del corpo umano sono semplici. La loro attività viene sempre e
comunque facilitata e la loro struttura è talmente affidabile da far sembrare
primitiva qualsiasi altra macchina. Studiando attentamente ogni parte, possiamo
individuare tessuti di ogni genere. Non esiste nulla di più perfetto di questi
tessuti […] Nessun bulino, nessun tornio, nessun pennello possono neppure
lontanamente aspirare a quella delicatezza con cui la natura ha levigato e
tornito i suoi manufatti.
La
pupilla si dilata e si contrae nel modo più opportuno per consentirci di vedere
chiaramente. L’occhio si tende o si accorcia a seconda che si debba guardare
lontano o vicino.
Le similitudini testé citate tra organi e strumenti meccanici sono esatte nella misura in cui sottolineano l’esistenza di affinità; tuttavia esse soffrono di un vizio caratteristico di tutto il XVIII secolo in generale: il deismo e il meccanicismo che ne deriva.
Ovvero,
da un punto di vista logico e metafisico, si pensa prima il congegno tecnico
(immutabile e conforme a funzioni preordinate) e poi l’organismo, concepito
come qualcosa di secondario, realizzato sull’esempio dei vari congegni.
Il
modello di un organo agisce in virtù della coesione esterna delle sue parti e
l’organo corrispondente ne imita il funzionamento, essendo di per sé nulla di
più di un meccanismo, sia pur assemblato dalla mano del Meccanico più sapiente;
non a caso nel XVIII secolo si amava
così tanto paragonare il Creatore dell’universo a un orologiaio.
Ma il pregio di un meccanismo sta nel suo carattere automatico; quanti meno interventi esterni esso richiede, dal punto di vista della creazione ulteriore, una volta pronto, tanto più esso in quanto meccanismo è perfetto.
Per
questo motivo il XVIII secolo
scorgeva negli automatismi introdotti nel mondo al momento stesso della
creazione (nonché nella sua possibilità di seguire ritmi scanditi da leggi
meccaniche) la divina superiorità dell’universo sui meccanismi fabbricati
dall’uomo, che abbisognavano di interventi e riparazioni da parte di un nuovo
creatore, dell’artigiano.
Tuttavia,
il tipo di perfezione qui contemplato era pur sempre quello del meccanismo nel
vero senso della parola, sempre trasparente allo sguardo del meccanico. Perciò,
l’apologetica di quel tempo può essere esemplificata dalla frase seguente: ‘Il
mondo è bello – esattamente come le nostre macchine – e dunque è stato creato
da un Essere razionale’.
Ma non è difficile accorgersi di come in questo autocompiacimento si celi quella forma di autodeificazione della ragione umana che costituisce l’essenza della visione della vita nell’era moderna e che troverà la propria compiuta espressione nel kantismo.
Il XIX secolo, durante il
quale ha avuto inizio una brusca svolta verso la concezione medioevale del
mondo, ha scoperto, oltre alle sfere pur sempre spirituali del subconscio e del
sovraconscio, anche l’organismo. Fu allora che si comprese che quel che
chiamiamo meccanico non è che una
rozza schematizzazione della vita, la creazione di un modello talvolta utile
dal punto di vista pratico, ma che finisce tuttavia col congelare la vita se lo
prendiamo per qualcosa di più di uno schema convenzionale.
Se intendiamo infatti comprendere la realtà, non dovremo dedurre l’organismo e i suoi organi dal meccanismo, bensì, al contrario, converrà scorgere in quest’ultimo un riflesso, un calco, l’ombra di una componente dell’organismo. Possiamo affermare che il meccanismo altro non è che un abbozzo dell’organismo, uno schizzo esteriore, una sagoma, ma internamente vuota, quando invece ciò che conta nell’organismo è proprio la sua struttura raffinata, la sua istologia o, per così dire, la sua ultra-istologia.
Allora
diventa comprensibile la conclusione: ‘I prodotti della tecnica come, ad
esempio, il cannocchiale, il pianoforte, l’organo sono imperfette
organoproiezioni dell’occhio, dell’orecchio, della gola’, mentre l’occhio,
l’orecchio e la gola costituiscono i loro prototipi organici.
Da
un punto di vista ottico, la proiezione dell’occhio è rappresentata dalla
camera oscura, inventata da Giambattista Della Porta nel 1560. E dal momento
che lo scienziato arabo Alhazen aveva descritto la struttura dell’occhio già
nell’anno […] e che Christoph Scheiner nella sua opera Oculus stampata nel 1619 ne aveva completato la teoria fisica e
che, in generale, fu il XVI secolo a
conoscere le discussioni più infiammate sulla visione e, in particolare, sulla
prospettiva, occorre pertanto ritenere che l’invenzione di Della Porta non
fosse certo passata inosservata in quel quadro di diffuso interesse per
l’occhio. Interesse che, di conseguenza, potrebbe essere inteso come uno dei
moventi principali alla fabbricazione della camera oscura.
L’origine della fotografia proviene dunque dall’occhio. Ma la cosa più sorprendente è che anche l’evoluzione successiva della tecnica fotografica (e di quella tipografica a lei connessa) segue principi palesemente presenti nella visione. Mi riferisco alla percezione dei colori. L’occhio non solo è in grado di frazionare la superficie luminosa estensivamente, ma anche di scomporre i suoi elementi qualitativamente in base a tre colori fondamentali, corrispondenti ai tre tipi di terminazioni nervose che percepiscono i colori all’interno della retina (se vogliamo prestar fede alla teoria di Young-Helmholtz).
Nella
storia dell’arte questa facoltà dell’occhio ha condotto, mediante un’imitazione
consapevole, al pointillisme. Per
quanto riguarda le applicazioni tecniche, su questo stesso principio si basarono
prima la fotografia a colori di Joly (ottenuta grazie a un reticolo di linee
parallele a tre colori alternati) e poi la fotografia a colori dei Lumière26,
fondata su lastre cosparse di una miscela tricolore di granuli d’amido e
successivamente entrata nell’uso comune*.
[ *Ed io a lui:
Privilegiando nella volontà tradotta dell’artista una ‘luce’ con la quale miriamo un aspetto della stessa nella totalità dell’Opera compiuta da quando nato il pittogranma di cui futura parola, riducendo però la vastità della prospettiva evidenziata ad una tecnica figlia del suo e nostro tempo. L’evoluzione detta non scorre al....