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Circa i loro artifizi (19/1)
Prosegue...:
Muta! ancora... (21)
Ovunque, regna e impera, la presunta
civiltà umana sottratta al Superiore ingegno di Madre Natura, immutato Genio
nel conferire al Paesaggio la dignità di cui sprovvisto l’umano, e di cui solo
l’infinita secolare bellezza sarà violata dall’approssimazione derivata ma non
certo compresa, - di cosa è o debba essere l’uomo -; colto nel proprio
paesaggio storico, rispetto a ciò che orna la congiunta Poesia da cui per
sempre e irrimediabilmente disgiunto.
Un irreversibile tramonto degli
oracoli.
Lo abbiamo già detto!
Ma a ciò conferiamo spessore storico
e differenza fra l’uomo, e ciò che orna il suo paesaggio nel contesto evolutivo
di come ammiriamo l’uno e l’altro, provando piacere o disgusto.
Dipende dalla prospettiva?
Dipende dal confine!?
Non saprei rispondere, dacché moti
infiniti attraversano entrambe le derive, e nella contesa ammiriamo le cime
congiunte alle selve confessare la disgrazia umana appena attraversata e da
attraversare ancora.
In ogni luogo ove dimora la corrotta
falsa umana ragione scissa dall’Infinita Natura pregata, giacché l’ammirarla
non più condizione sufficiente a rinnovarne il dèmone, sottomesso ai diavoli
inferi di questa ed ogni Terra.
L’uomo sprovvisto d’ogni dignità qual esempio d’un paesaggio riflesso e simmetrico alla sua Storia, proiettata all’ombra della Natura ove dimora.
Sicché, se pur ci riesce esprimere
giudizio terreno ma non certo divino, in cosa composta la bassa corrotta natura
dell’uomo, ci confondiamo in ugual medesimo panorama, ove tratto l’odierno, per ammirarlo come il differenziarlo, rispetto al dio contemplato, da una
diversa prospettiva simmetrica alla Natura pregata.
Fuggiamo l’umano, s’‘intenda’, per
chi detiene il monopolio - o il morbo - della presunta Coscienza accompagnata
dalla dotta Conoscenza, come il Paesaggio
da lui creato, avvertiamo una nausea insopportabile per ogni sua strofa,
scritta nel ‘verso’ in cui l’animale incapace di conservarne o consumarne ugual
banchetto.
Quando li osserva, nell’istinto della corsa che tal orrido Paesaggio ispira, ne prova disgusto, così anch’io che a lui mi ispiro, per ogni grado rinato alla materia, osservando la Natura in cui immerso cotal beneficio in sua difesa, provo estremo orrore misto a disgusto per tal banchetto offerto al celebrato distinto onore di ugual medesima Storia.
Possiamo distinguere le Stagioni del
Tempo dato, asimmetriche ed avverse alla Natura del Dio; possono contarle come
numerarle, come il contarne i caduti in ugual medesima fossa. Ed ad ogni
Stagione cantarne la Memoria!
Nella differenza della diversa
Stagione della Natura, la quale sarà per sempre pregata per ogni nascita in sua
difesa al solo scopo di rinnovarla. Potranno contare e calcolare (se vogliono e
possono) le appassite foglie d’Autunno, come gli stessi fiori - ove il frutto
crescerà più maturo - agli allori dell’Infinito Tempo sottratto ai falsi
principi della Storia.
Potranno, dicevo, anche numerare e contare i caduti, morti e uccisi, per ignobile umano destino dovuto alle Stagioni d’un diverso calcolato Tempo involuto, non avendo pregato e compreso nessun Dio.
Potranno raccoglierne i frutti
proibiti, forse anche rubarli nonché seminarli, non avendo compreso come si
coltiva questa ed ogni Terra calpestata.
Potranno, di certo, contare e
numerare confini e Stagioni, con la sola certezza di rinascere santi diavoli
per ogni crosta di Terra divorata!
Volgendo lo sguardo alla stessa immonda ipocrisia per ogni banchetto consumato con insaziabile appetito al di sotto della bestia da cui nutrito ed in perenne offesa della stessa, conferiamo specifica appartenenza nella dovuta futura selezione, offrendo il degrado da cui la differenza nella mancata portata della degna umana evoluzione sin qui calcolata.
(Giuliano)
Ci volle la collinetta di Giby perché capissi che cosa significa esattamente Paesaggio e Memoria. A tutta prima, dal finestrino della vetusta Mercedes in corsa, parve priva di interesse, una semplice collinetta cespugliosa in cima alla quale era stata piantata una croce di fortuna: ennesimo feticcio cattolico in un luogo ancora percorso dai venti della devozione religiosa. Pure, qualcosa pretendeva la mia attenzione, mi rendeva inquieto, chiedeva maggiore considerazione.
Invertimmo
la marcia.
Avevamo
attraversato l’angolo nordorientale della Polonia, terra dove le frontiere
avanzano e regrediscono secondo i bruschi dettami della Storia. I medesimi campi
di frumento e di segale che ondeggiavano molli alla brezza erano stati di volta
in volta lituani, tedeschi, russi, polacchi. Via via che l’auto divorava i
chilometri tra l’antica stazione fluviale di Augustow e la cittadina medievale
di Sejny, sembrava di procedere a ritroso nel tempo.
Cavalli
erano aggiogati agli aratri.
I medesimi cavalli - bai e sauri massicci, pesanti, alti al garrese - tiravano carrette cariche di bambini bruniti dal sole lungo carrarecce e sentieri segnati di solchi. L’aria sapeva di bestiame. Il vasto cielo bianco della sera incipiente non era turbato dal rombo dei jet né punteggiato di tralicci. Accanto ai comignoli di terracotta le cicogne facevano la guardia ai nidi giganteschi, disordinate cittadelle di rami e stecchi. Di tanto in tanto una coppia, compagni a vita, si lanciava in rumorose liti domestiche, i becchi rosati sciabolanti l’uno contro l’altro.
In
fondo, dal lato di levante, la cupa muraglia della più antica foresta d’Europa
si levava compatta sull’orizzonte.
Ero
venuto in Polonia per vedere quella foresta. Che cosa esattamente mi aspettassi
non sapevo. È opinione comune che lo storico debba raggiungere il passato
sempre e soltanto attraverso fonti scritte, tutt’al più tramite immagini, cose
felicemente rinchiuse sotto la campana di vetro della convenzione accademica:
guardare e non toccare.
Ma uno dei miei più amati maestri, grande provocatore intellettuale e penna di eccentrico coraggio, aveva sempre insistito sulla necessità di sperimentare di persona il senso del luogo, di usare l’archivio dei piedi.
Mi
occupavo di mito e memoria del paesaggio e la puszcza, la Foresta che si stende lungo tutto il confine con la
Russia Bianca e la Lituania, era il regno natio di scrittori del presente, come
Czeslaw Milosz e Tadeusz Konwicki, e
del passato, come Adam Mickiewicz.
Una generazione dopo l’altra, quegli autori avevano creato il mito consolatorio
di un territorio silvestre che sarebbe sopravvissuto incontaminato, qualunque
disastro si fosse abbattuto sullo stato polacco. E con uno scarto logico che
solo i conoscitori della storia polacca possono apprezzare, quella patria
eterna era cantata in lingua polacca come Lituania.
Lituania patria mia! tu sei come la
salute; ad apprezzarti interamente solo apprende colui che ti ha perduta.
L’identità incerta è preda della storia.
Era corso sangue sotto il verde. Lo sapevo; c’erano tombe nelle profonde radure tra querce e abeti. Campi, foreste e fiumi avevano conosciuto guerra e terrore, giubilo e disperazione: morte e resurrezione; re lituani e cavalieri teutonici, partigiani ed ebrei : la Gestapo nazista e l’NKVD di Stalin. È una terra abitata da spettri, dove ancora oggi si rinvengono tra le felci del sottobosco bottoni di giubbe appartenute a sei generazioni di soldati caduti.
La
Polonia postcomunista è piena di luoghi come questo: storie crude, dolorose,
strappate a decenni di silenzio ufficiale e ancora imperfettamente recuperate;
segnali affissi o riportati alla luce di recente.
Ma
la vera sorpresa ci attendeva sulla cima della collinetta: oltre la croce il
terreno digradava rapido rivelando un vasto paesaggio di inaspettata bellezza.
Una frangia di giovani alberi luminosi segnava la linea dell’orizzonte; dietro,
come giganti che tengano per mano bambini, sorgeva la falange nero-verde della Foresta.
A metà via il nastro argenteo di un fiume, uno dei tanti corsi d’acqua e laghi che
si riversano nel Niemen, serpeggiava tra canneti palustri e campi di grano. Qua
e là le finestre di un’isolata casa colonica in legno brillavano alla luce del
tramonto sulla riva di quieti stagni dove oziavano le oche.
‘Ecco a voi’, pareva di sentire Mickiewicz declamare nel suo miglior piglio retorico, ‘la Lituania’. Perché era questo, non v’è dubbio. il paesaggio che il poeta aveva in mente nell’esilio parigino.
Trasporta
intanto l’anima mia desiderosa a quei silvestri colli a quei verdi prati che si
stendono ampi lungo l’azzurro Niemen,
a quei campi che le messi variamente colorano, che il frumento indora, che
inargenta la segala.
Ciò
che in quel momento riempiva il mio campo visivo formava un riquadro di
finestra o un dipinto, uno spazio rettangolare, insomma, costituito da un
panorama stratificato in senso orizzontale. Ecco la patria per cui era morta la
gente di Giby e a cui, in forma di
collinetta della rimembranza. Ora si trovava aggiunta.
La
memoria aveva assunto la forma del paesaggio.
La
metafora si era fatta realtà.
L’assenza
era diventata presenza.
Prominenze erbose di tal fatta, ovvero i tumuli furono i primi segni lasciati dall’uomo nel paesaggio europeo. Custoditi da quei sepolcri, i corpi dei morti degni di venerazione sarebbero tornati alla terra che li aveva generati, lasciando lo spirito libero di volare verso altre dimore. La Lituania fu l’ultima regione pagana ad essere convertita al cristianesimo non prima del XIV secolo.
Il 19 novembre 1830 scoppiò a
Varsavia la rivoluzione, in tipico stile polacco.
Un
gruppo di insorti irruppe nel Palazzo del Belvedere con il
proposito di assassinare il reggente, nonché fratello dello zar, granduca
Costantino. Un secondo gruppo tentò di prendere d’assalto i quartieri militari russi
nel parco Lazienki. Entrambe le azioni fallirono, ma l’arsenale cittadino fornì
una quantità di armi sufficiente perché Varsavia cacciasse i russi in un’esplosione
di rabbia patriottica. Gran parte del paese seguì l’esempio e, come solitamente
avviene in circostanze simili, la durezza della reazione (a Mosca) e la
passione rivoluzionaria (in Polonia) fecero fallire ogni tentativo di mediazione.
Nel gennaio 1831 lo zar venne formalmente deposto dal trono di Polonia, bravata cui fecero seguito nove mesi di lotta disperata contro un esercito russo in implacabile aumento. Dopo alcune vittorie iniziali, la battaglia di Ostrolenka mise in ginocchio il grosso delle forze polacche e il laccio si strinse attorno a Varsavia. Ridotti allo stremo, gli ultimi ribelli comandati dal gamba-di-legno generale Sowinski si ritirarono nel cimitero di Wola, dove perirono ammucchiati, letteralmente, sulle tombe dei loro antenati.
La
partita perduta ebbe un costo terribile.
Il
Regno di Polonia istituito dal Congresso di Vienna cessò di esistere anche come
protettorato russo. Nella feroce repressione che seguì, centinaia di persone
furono condannate a morte. Migliaia di nobili delle antiche casate polacche e
lituane furono spogliati di ogni proprietà e spediti in esilio nella remota
Siberia, a marce forzate di inaudita crudeltà.
Nella
regione della Podlasia i partigiani cercarono rifugio nel profondo delle
foreste; tra loro c’era anche Emilie Plater, una combattente i cui antenati
erano stati funzionari dell’amministrazione forestale.
Ma nella campagna aperta, tra i campi di segale prossimi alla maturazione i corpi pendevano dalle forche dilaniati da stormi di corvi.
(S. Shama)
Quando
scoppiò la rivolta di novembre, il poeta Adam
Mickiewicz si trovava a Roma, dove stava componendo i versi Alla madre
polacca:
Vinto, per monumento funerario gli resterà il legno disseccato del capestro, per tutta gloria qualche pianto di donna e i lunghi colloqui notturni dei suoi compatrioti.
Il Tribuno e Taddeo si sono già avviati
verso
il bosco,
e
di chiacchiere non sembrano appagati.
Agli
ultimi confini del cielo giunge il sole,
con
luce meno forte ma più ampia che di giorno.
Rosso
come la faccia florida del fattore
che,
dopo aver concluso nei campi il suo lavoro,
torna
al riposo.
Il
disco radioso va a posarsi
in
cima alle conifere, e già un velo nebbioso,
invadendo
le cime degli alberi e le fronde,
cinge
il bosco, lo lega, lo fonde, e pini e abeti
anneriscono
a guisa di un vasto caseggiato
il
cui tetto dal sole rosso pare incendiato.
Poi
sprofonda.
Tra
i rami solo ancora un bagliore,
come
un cero che langue tra fessure d’imposta,
e
muore.
In
quel momento le falci risonanti
tra
le messi e i rastrelli trascinati nel prato
si
chetano, si fermano: così il Giudice vuole,
il
lavoro finisce al tramontar del sole.
Il
Signore sa quanto bisogna lavorare:
quando
dal cielo scende il sole, Suo cultore,
anche
l’agricoltore deve lasciare il campo.
Così
suol dire il Giudice, e il suo amministratore,
onest’uomo,
quel motto segue come il Vangelo:
non
aspetta che i carri di grano siano pieni,
li
manda nel granaio ancorché mezzi vuoti:
del
peso così lieve si rallegrano i bovi.
Il 12 gennaio 1833 Mickiewicz scriveva all’amico Stefan Garczyński:
Sto abbastanza bene, forse un po’
troppo preso dalle cose dell’emigrazione che mi divorano il tempo e spesso mi
guastano l’umore. Scrivo lentamente il poema idillico; due canti lunghi sono quasi pronti.
Il 21 aprile scriveva a Odyniec:
Ora sono ritornato al poema
campestre, il mio bimbo più coccolato, quando lo scrivo mi sembra di essere in Lituania.
Ritorniamo
al giudizio più positivo sul valore di Messer
Taddeo, l’elemento pittorico della Natura, gli sfondi
magistrali, paesaggi superiori a quelli di Ruisdael. In realtà le descrizioni
della Natura, che occupano una parte consistente del poema, hanno un peso e un
ruolo ben più importante della funzione di vividissimo scenario, di intervallo
lirico alla trama o di cornice, con le albe e i tramonti, alle vicende della
giornata.
La Natura costituisce piuttosto un coro, un commento, un’imitazione, il pendant antropomorfico e animista delle azioni, degli stati d’animo, delle passioni dei personaggi.
Il bosco lituano è pervaso da un’animazione amorosa mentre il Conte si dilunga sulle bellezze naturali della Natura: il viburno abbraccia stretto il biancospino, il rovo sfiora il lampone con le labbra nere, gli alberi congiungono le foglie con i cespugli, tutti danzanti intorno ai novelli sposi carpine e betulla, ma sempre sotto l’occhio vigile dei saggi anziani, il faggio, il pioppo, il rovere ingobbito da cinque secoli che…
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