CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

giovedì 28 settembre 2017

L'ERETICO VIAGGIO (6)









































Precedenti capitoli:

Ghiaccio Eschimese (5) &
















L'Eretico Viaggio &


Mi par scontato per codesti Tempi immutati:











relativo e giusto (per chi diritto e buon gusto disconosce): INDICE


Prosegue in:










La Navigazione (7)














I viaggiatori del tempo passato, sino circa al limitare del secolo scorso, in altro modo ragguagliarono intorno alle cose da essi vedute, perché in altro modo viaggiavano….




Un viaggio in paese ‘Straniero’ era una faccenda grave, un episodio importante della vita: non viaggiava ognuno cui ne venisse l’estro. Il muoversi costava, in primo luogo, assai più di adesso, ed era più disagevole: ‘passaporti e dogane’ raffreddavano l’entusiasmo di chi voleva mettersi il capo fuori di casa sua. Ma appunto perché i viaggi erano costosi, lunghi e difficili, e con molti più pericoli che ai di’ nostri, che imprendeva un viaggio si provvedeva più largamente non di moneta soltanto, ma anche di ‘Dottrina’.




Prima di avventurarsi ad un Viaggio, era necessario tanto pensarci su (or dunque ..anche voi meditate miei sfortunati amici), che vi era anche il modo e il tempo di studiare abbastanza seriamente, e certamente più che ora non soglia farsi, ‘la storia almeno e la geografia de’ luoghi volevansi visitare, e di prender notizia de’ costumi del luogo’.




Oggi si fa presto a risolversi ed a partire: né il VIAGGIO è determinato soltanto dal desiderio di acquistar esperienza di paesi ignoti, ma da mille svariate cagioni, ed anche dalla noia; ed in un momento, portati dal vapore, si è lontani cento miglia dal punto di partenza: le montagne non si passano più affannosamente in slitta, sfidando il freddo e il vento, ma se ne traversano le viscere comodamente sdraiati; i fiumi non fanno ostacolo, perché i ponti sospesi sostituiscono le barche.




Altro che il lento andare a dorso di mulo de’ nostri bisnonni, e il farsi strascicare, come i nostri nonni e i padri, da magri cavalli!

…Ma, allora, appunto perché si andava a quel modo, l’occhio posava a suo agio sulle cose circostanti, e si raccoglieva più ampia messe di svariati ragguagli: si dimorava più o meno a lungo in villaggi e in città di second’ordine, si conoscevano più addentro luoghi, uomini e costumi, laddove oggi si passano stazioni a tutto vapore, per fermarsi solo nelle città più popolose e civili. Ogni cosa umana ha il suo bene e il suo male: e Dio ci guardi dal disconoscere i progressi fatti anche in quest’importante particolare del modo di muoversi: speriamo anzi anche noi che un giorno o l’altro abbia a trovarsi la maniera di viaggiare con sicurezza su per aria!




Ma torniamo a dire che, generalmente parlando, le relazioni scritte ne’ tempi andati quando si viaggiava in altro modo, e appunto per codesta ragione, hanno un valore di documento storico, che per lo più si cerca invano nelle odierne. Certo non è inutile né spiacevole saper quali impressioni o sensazioni abbia provato un arguto intelletto o un animo sensibile dinanzi ai grandi spettacoli della natura o d’arte, e come il suo pensiero, prendendo di là le mosse, sia andato liberamente vagando pe’ campi della fantasia, e tanto più se ciò sia esposto con arte di scrittore; ma si converrà anche non esser né inutile né spiacevole il saper precisamente da quei vecchi come ai loro tempi le cose si mostravano in sé, proprio in sé, oggettivamente.




Per la storia ciò ha qualche valore, e meglio poi se la virtù osservatrice del viaggiatore non si volgeva soltanto agli aspetti naturali e alle meraviglie artistiche, ma anche alle istituzioni ed ai costumi: se si fermava su quei fenomeni spontanei e costanti della vita di un popolo, che sono meno avvertiti la dove si producono, e che perciò meglio può vedere e apprezzare quegli al quale non sono familiari e consueti.




…“Codesto nuovo viaggiatore”… scrisse la relazione del suo viaggio per gli amici, non pel pubblico; e la gettò giù senza lenocinio, anzi senz’arte di scrittore, in quell’italiano slavato e snervato, bastardo e infranciosato, ch’era comune allora alle persone anche colte. Era uom d’arme e di corte; e munito di buone commendatizie e portando un nome storico (Giuliano qual vi appare…), ricevé dovunque cortesi accoglienze dagli uomini al potere (…s’intende negli intervalli fra una caccia e l’altra a codesto viaggiatore riservata…) e si fece presentare ai sovrani de’ paesi che percorreva (che incontreremo all’occhio numerosi nel loro dire e pensare …).




Per studi fatti e per pratica di uomini era imbevuto delle idee de’ suoi tempi che volevano i LUMI, ma venienti di su, e l’indipendenza da’ chierici. Guardava perciò le cose con occhio di filosofo filantropo del secolo decimottavo (l’orologi son guasti per questo scalcinato castello, per questa scalcinata dimora, per questa vecchia chiesa), rallegrandosi ove vedesse ben essere nelle popolazioni, lavoro fecondo nei campi e nelle officine, ordine e forza nello Stato (quando questo non lo braccava mi par chiaro e sottointeso in questo dire in questo parlare in questo nuovo VIAGGIARE…)….




(& siate pur certi codesto viaggiare dallo Spirito comandato continuerà pur ogni mare & male avverso... accompagnato dal retto Pensiero e Dio... & l'Anima per ogni mio ed altrui Tomo edificato rinascerà dal rogo della Stagione ciclica all'apparente [nuovo] Secolo... apostrofare Infinito Tempo... e con lui ogni vero Principio perso... BUONA LETTURA...)


















venerdì 8 settembre 2017

L'UNIVERSALE SINGOLARE (3)


















Precedenti capitoli:













Nell'Anima collettiva (2)


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Alle origini del moderno ambientalismo (4)  &
















Ghiaccio eschimese (5)













Marc Augé ha affermato che nei segni della Storia non troviamo la nostra genesi, ma la nostra differenza: il che significa, anche, che i luoghi ‘differenziati’, con una propria identità oltre che pesaggistica (ma anche per il sottoscritto che scrive facendo tesoro delle proprie come altrui esperienze ed ideali umani - paesaggi e Natura -  meditare e mediare se medesima Primo Pensiero  perseguitato Intelletto…), sono luoghi della Memoria.




Sulla base di queste considerazioni, la percezione di Michel Serres a favore di una terra ‘diversa da tutti i luoghi sino a quel momento censiti o nominati’, cioè la Terra universa – e non pluriversa – dell’astrazione geometrica, quale utopico antidoto alla violenza del differente e dell’escludente, appare una delle tante teatralizzazioni neo-cartesiane chiamate a disinnescare anche nel pensiero la drammaticità della questione. Come se l’elemento locale di per sé si riducesse ad una piazzaforte (‘il qui produce la guerra ingiusta e inutile, combattuta dall’esser-ci, soldato, o meglio, luogotenente, inchiodato alla catena di vendette e riparazioni, per mantenersi al proprio posto’), scontando così il peccato della sua limitazione.




Ma il tema della de-limitazione non può essere ridotto all’espulzione dell’esistente dal tracciato del limen o del templum: quadrato di Terra svuotato, ‘invenzione di uno spazio locale vuoto’ in cui, secondo Serres, la separazione dello spazio sacro da quello profano costituisce l’archetipo di ogni altra pratica di delimitazione, dall’agricoltura al sacrificio alla guerra: in realtà questa operazione di ‘sbiancamento’, di tabula rasa, che il filosofo francese presuppone nella sua finzione teorica, assomiglia troppo al gesto cartesiano dell’espulsione del disordine naturale dalla costruzione di un universo puramente logico-geometrico, per non far sorgere qualche sospetto.




Se è qui inutile soffermarsi sulla capziosità delle argomentazioni di Serres, e sulla fondamentale confusione che nel suo testo regna fra spazio quantitativo e variamente misurabile e spazio qualitativo, come anche sul presupposto – tutto moderno! – che la simbolicità dello spazio escluda la calcolabilità geometrica e viceversa, occorre nondimeno ribadire che non è certo attraverso la semplice apertura (o ri-apertura) dello spazio geometrico, ‘letteralmente senza limite, propriamente immateriale, spirituale’, che si può sperare di diffondere ‘la giustizia e la pace’. L’equivalenza dei posti da cui ci si ripromette la fine dei conflitti non può essere pensata come l’astratta dignità di una pensabilità geometrica, né come il semplice assorbimento del locale nel globale: bensì con la ricchezza geografica in cui la differenziazione, comunque accaduta, è salvaguardata nel riconoscimento della sua inestirpabile identità locale, di Memoria. Il che non esclude in nessun modo la consapevolezza del globale, dell’interconnessione sistematica di tutti gli aspetti della Terra come anche della ‘globalizzazione’ accaduta a livello economico e culturale: anzi, è proprio dalla percezione globale che si muove qualsiasi discorso ecologista degno di questo nome, ossia che pensi la Terra come il nostro oikos, il luogo del nostro comune abitare, così come ogni posizione che rivendichi di non schiacciare il locale e il singolare sotto l’assolutizzazione dell’universale.




Quel che, in negativo, un simile discorso consente di rilevare, è come l’assolutizzazione di un unico modello, a produrre la violenza dell’estirpazione e dell’eliminazione: è l’universale pensato senza il singolare che diventa sbiancamento e tabula rasa, eliminazione violenza e molto altro ancora (parenti - aggiunge il sottoscritto - di antichi e non certo in disuso per medesimi evoluti fini e principi  di una persecuzione e relativa inquisizione con relativa sottrazione della Memoria e con essa di ogni Verità storica ad uso di una realtà come successivamente leggeremo materiale nei suoi invariati e ‘secolari’ intenti…)...




Se invece si pensa ad un universale-singolare, è possibile vedere come il limes, il confine, sia de-limitazione, ma come crinale di una coappartenenza, l’incontro di due bordi, la possibilità che figure diverse siano visibili e riconoscibili, che si diano le figure e i colori di una tipologia e geometria variabile, e dunque limen, soglia, ingresso, comunicazione.
Da un’eccessiva semplificazione della questione del confine possono proficuamente mettere in guardia sia la ricerca geografica che quella filosofica: se il limite è fondatore della differenza, differenza e limite sono essenziali, perché laddove la differenza fa difetto, è la violenza che minaccia. Il limite non è dunque ciò che è proiettato dal tracciato, di qui a là arbitrariamente, ma è il prodotto di una relazione. Poiché regola, il limite assolve alle funzioni di articolazione, unione e/o disgiunzione, oggetto di una possibile teoria ‘limologica’.




Una comprensione articolata e adeguata topologicamente e geograficamente del concetto di frontiera può farcela intendere come il tracciato di una linea ‘mediante la quale e sulla quale si devono  simultaneamente operare la divisione e il paesaggio’, che obbedisce ‘alla logica generela di ogni limite, in cui il limitante e il limitato non smettono di passare l’uno nell’altro’. 
E’ in particolare Nancy, nel suo pensiero geofilosofico, a sottolineare con forza come un soggetto che non si esponesse all’altro non potrebbe nemmeno assumere una figura, né venire in presenza. La logica della singolarità non è una logica dell’esclusione, ma della condivisione:

“Non c’è singolare che molteplice, come indica bene il latino, che conosce il termine ‘singuli’ solo al plurale: ‘uno per uno’, il singolare non ha senso che numeroso, staccato, con-diviso”.




Giacché l’azzeramento delle singole identità e delle singole singolarità è stata la vicenda della modernità, non certo ancora terminata, rivendicare l’universalità indeterminata dello spazio astratto suona come un’irrisione della sedimentazione storica e della Natura di Memoria dei luoghi. 
La nostra civiltà, con la logica del progresso e dell’accrescimento dei beni economici, ha scelto l’espansione, l’innovazione inarrestabile, l’incremento dei consumi, ma per farlo è stato ed è necessario un modello di pensiero che non riconosca limite alcuno alla propria potenza (o assoluta demenza): né il limite trascendente del divino, né quello, ecologico e fisico, della Natura quale dimensione intelligente (e pensante) del vivente. E dunque nemmeno la finitezza intrinseca della Terra e delle sue risorse ha costruito un’evidenza sufficiente ad orientare diversamente o a frenare la corsa, occidentale, ed ormai planetaria, alla distruzione accompagnata alla conseguente violenza irreversibile.




Ma se il ‘progresso’ non ha potuto arrestarsi nemmeno di fronte ai molteplici annunci della propria imminente fine per esaurimento delle materie prime e sovvertimento dell’equilibrio ecologico, nemmeno si è lasciato intralciare da tradizioni o culture o consuetudini diverse…(anzi si è ben organizzato e adoperato affinché tali singolarità siano soppresse confuse bandite nel cerchio confuso di un’approssimata e nuova mitologia alla parabola di una più confacente dottrina… al limite di un’odierna ed incompiuta filosofia che forse con l’intera geografia poco e nulla condivide eccetto una vaga ed approssimato ‘piano-regolatore’ ove deformare e circoscrivere ogni Natura prigioniera dell’odierno vivere… così malmente costruito e edificato…).
(L. Bonesio; accompagnata dalle composizioni grafiche di: Aksam Gunesi)

















lunedì 4 settembre 2017

COSCIENZA E VITA (1)










































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Nell'Anima collettiva (2)













…La coscienza non è la corrente dell’esperire vitale, ma nasce nella misura in cui quest’ultimo è trafitto dal lampo della comprensione.
Prendiamo in considerazione, per accertarci di ciò anche empiricamente, le forme in cui si manifesta la vita o, quanto meno, la vita organica.

Prendiamo ad esempio le piante!

In nessuna epoca e in nessun popolo si è mai dubitato del fatto che esse siano viventi; il pensiero autentico ha in comune con quello arcaico la tendenza a scorgere la pienezza della vita, ancor più che nell’irrequietezza dell’animale, proprio nella lussureggiante vegetazione del bosco primordiale, ed il culto degli alberi diffuso quasi dappertutto nella preistoria ha proprio in ciò le sue radici.
Nessuno, a meno che non sia già pienamente incorso nell’errore sopra esaminato, attribuirà perciò una coscienza alla pianta, ritenendola capace di avere comprensione tanto del raggio di sole quanto perfino del proprio esperire vitale della luce. E questo ci porta subito ad un punto ulteriore, in cui conoscenza e vita sono nettamente separate.

Le componenti della vita, nelle piante come negli animali, sono – come noto – le cellule.
La vita appartiene sempre al corpo cellulare; ma, in quanto tale, si sottrae interamente alla coscienza. In ciascuno di noi, senza dubbio la vita delle cellule risale ininterrottamente – attraverso milioni di morti e di nascite di caduchi individui – fino ai primi giorni agglomerati di protoplasma del ‘brodo primordiale’; i nostri ricordi coscienti, invece, non conservano neppure più la vita embrionale del corpo nel ventre materno, per non parlare delle esperienze vitali dei nostri progenitori. Mentre la vita in noi è soltanto la parte anteriore ogni volta istantanea di una corrente incessantemente fluente, che risale senza interruzione fino all’epoca in cui si formò la roccia scistosa cristallina, la coscienza si vede invece limitata alla durata esistenziale del singolo essere umano, e in confronto a quella diventa letteralmente un nulla.

E’ possibile che, nonostante ciò, vita e coscienza siano state confuse?

Intanto, non occorre guardare all’esterno, per trovare conferma del fatto che la coscienza assomiglia soltanto al lampeggiare che continuamente si accende sulle acque della vita, illuminando di volta in volta un raggio limitato, ma lasciando gli orizzonti lontani nella loro oscurità inafferrabile alla coscienza; quotidianamente, infatti, ne abbiamo coscienza da noi stessi.

Se la moderna scienza dell’Anima, che si presume tale, ha dovuto lasciare in parte allo pseudo sapere del cosiddetto ‘occultismo’, in parte allo pseudo sapere della medicina l’intero ambito del ‘dono profetico’, dal presentimento, dal sogno, dall’istinto, fino al sentimento della lontananza, alla chiaroveggenza e alla percezione sonnambolica - riuniti dal molto più illuminato Romanticismo nel concetto di ‘polo notturno della coscienza’ -, ciò è allora l’espressione non di una mera mancanza, bensì di una mezza paralisi del pensiero che ha la sua origine nel disconoscimento intellettualistico della vita…

La vita non è percepita, bensì sentita con oscura intensità… E a noi basta riflettere soltanto su questo sentimento, per accorgerci della realtà della vita con una certezza, oltre la quale nulla può essere più certo.
Se giudichiamo, pensiamo o vogliamo, oppure desideriamo, sogniamo, fantastichiamo, è l’unica medesima corrente del sentimento elementare della vita a sostenere e pervadere tutto ciò, ed essa non può essere paragonata a niente, ricondotta a nulla, né concepita né analizzata, e certo neppure mai ‘compresa’.
E poiché noi stessi, vivendo, sentiamo la vita, allora incontriamo la vita anche nell’immagine del mondo. Detto in breve: viviamo la nostra vita e in essa la vita universale…
(L. Bonesio, L’uomo e la Terra)







Esplicito cotal dire….


Sono stato eretico predicatore alpinista scienziato geologo geografo storico.
Ho combattuto guerre… mi hanno ucciso!
Mi hanno messo su una croce.
Ho discusso di resurrezione.
Ho avuto delle visioni e ho cercato di interpretarle.
Ma prima di esse sono stato sciamano.
E ancor prima… miriade diverse di forme viventi.
Ho pregato come un buddista sotto un albero.
Ho pianto come un druido all’ombra di esso.
 Poi ne ho studiato forma consistenza ed utilità.
Dalla bellezza dei rami e delle foglie ho compreso e studiato la loro funzione.  
Ho iniziato a respirare l’aria che mi ero guadagnato e grazie ad essa restituito in quieta specie di parlare.  
Sono divenuto acqua e ho scavato letti che ora percorro in cerca della memoria.  
Ho visto grotte ne conservo ricordi e disegni che vi ho tracciato. Sono stato cacciatore…, un tempo…  
Mentre adesso istintivamente guardo al suolo in cerca di qualcosa, una Vela mi insegna e fiuta il passato divenuto presente.
Mi hanno braccato… avverto l’odore della paura.  
Mi hanno ucciso.  
Piango me stesso sulle poche ceneri di un fuoco acceso di fretta.  
Mi hanno imprigionato… ancora vedo il maestoso castello in cui una volta ero signore.
La congiura di nuovo padrona.  
Ho fatto miracoli.  
Poi ho studiato i segreti della vita.
Più miracolosa ancora.
Ho incontrato gente diversa ma con caratteristiche comuni.
Ho parlato loro di filosofia e quando questa non bastava sono salito nello spazio profondo per spiegare la vita ancora prima della vita.
Ho perso forma peso e gravità. 
Mi sono dissolto in un gas scomposto.  Mentre la forza del calore divampava.
Perché urlavo contro il Tempo… questo maleficio questo diavolo che mi ha legato in questo luogo.  
Sono andato oltre la sua dimensione e qualche delatore mi ha denunciato… mentre pregavo la verità… una verità senza Tempo.
 Poi sono scomparso nel nulla di un punto e forma contratta alla materia.
Mentre gridavo all’orrore.
Sono morto tante volte… e poi rinato nella gioia di una natura che non mi disconosce.  
Ma è vero… con l’orrore negli occhi nella voce nel pensiero…
(G. Lazzari, l’Eretico Viaggio)

(Prosegue...)