CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

venerdì 8 settembre 2017

L'UNIVERSALE SINGOLARE (3)


















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Ghiaccio eschimese (5)













Marc Augé ha affermato che nei segni della Storia non troviamo la nostra genesi, ma la nostra differenza: il che significa, anche, che i luoghi ‘differenziati’, con una propria identità oltre che pesaggistica (ma anche per il sottoscritto che scrive facendo tesoro delle proprie come altrui esperienze ed ideali umani - paesaggi e Natura -  meditare e mediare se medesima Primo Pensiero  perseguitato Intelletto…), sono luoghi della Memoria.




Sulla base di queste considerazioni, la percezione di Michel Serres a favore di una terra ‘diversa da tutti i luoghi sino a quel momento censiti o nominati’, cioè la Terra universa – e non pluriversa – dell’astrazione geometrica, quale utopico antidoto alla violenza del differente e dell’escludente, appare una delle tante teatralizzazioni neo-cartesiane chiamate a disinnescare anche nel pensiero la drammaticità della questione. Come se l’elemento locale di per sé si riducesse ad una piazzaforte (‘il qui produce la guerra ingiusta e inutile, combattuta dall’esser-ci, soldato, o meglio, luogotenente, inchiodato alla catena di vendette e riparazioni, per mantenersi al proprio posto’), scontando così il peccato della sua limitazione.




Ma il tema della de-limitazione non può essere ridotto all’espulzione dell’esistente dal tracciato del limen o del templum: quadrato di Terra svuotato, ‘invenzione di uno spazio locale vuoto’ in cui, secondo Serres, la separazione dello spazio sacro da quello profano costituisce l’archetipo di ogni altra pratica di delimitazione, dall’agricoltura al sacrificio alla guerra: in realtà questa operazione di ‘sbiancamento’, di tabula rasa, che il filosofo francese presuppone nella sua finzione teorica, assomiglia troppo al gesto cartesiano dell’espulsione del disordine naturale dalla costruzione di un universo puramente logico-geometrico, per non far sorgere qualche sospetto.




Se è qui inutile soffermarsi sulla capziosità delle argomentazioni di Serres, e sulla fondamentale confusione che nel suo testo regna fra spazio quantitativo e variamente misurabile e spazio qualitativo, come anche sul presupposto – tutto moderno! – che la simbolicità dello spazio escluda la calcolabilità geometrica e viceversa, occorre nondimeno ribadire che non è certo attraverso la semplice apertura (o ri-apertura) dello spazio geometrico, ‘letteralmente senza limite, propriamente immateriale, spirituale’, che si può sperare di diffondere ‘la giustizia e la pace’. L’equivalenza dei posti da cui ci si ripromette la fine dei conflitti non può essere pensata come l’astratta dignità di una pensabilità geometrica, né come il semplice assorbimento del locale nel globale: bensì con la ricchezza geografica in cui la differenziazione, comunque accaduta, è salvaguardata nel riconoscimento della sua inestirpabile identità locale, di Memoria. Il che non esclude in nessun modo la consapevolezza del globale, dell’interconnessione sistematica di tutti gli aspetti della Terra come anche della ‘globalizzazione’ accaduta a livello economico e culturale: anzi, è proprio dalla percezione globale che si muove qualsiasi discorso ecologista degno di questo nome, ossia che pensi la Terra come il nostro oikos, il luogo del nostro comune abitare, così come ogni posizione che rivendichi di non schiacciare il locale e il singolare sotto l’assolutizzazione dell’universale.




Quel che, in negativo, un simile discorso consente di rilevare, è come l’assolutizzazione di un unico modello, a produrre la violenza dell’estirpazione e dell’eliminazione: è l’universale pensato senza il singolare che diventa sbiancamento e tabula rasa, eliminazione violenza e molto altro ancora (parenti - aggiunge il sottoscritto - di antichi e non certo in disuso per medesimi evoluti fini e principi  di una persecuzione e relativa inquisizione con relativa sottrazione della Memoria e con essa di ogni Verità storica ad uso di una realtà come successivamente leggeremo materiale nei suoi invariati e ‘secolari’ intenti…)...




Se invece si pensa ad un universale-singolare, è possibile vedere come il limes, il confine, sia de-limitazione, ma come crinale di una coappartenenza, l’incontro di due bordi, la possibilità che figure diverse siano visibili e riconoscibili, che si diano le figure e i colori di una tipologia e geometria variabile, e dunque limen, soglia, ingresso, comunicazione.
Da un’eccessiva semplificazione della questione del confine possono proficuamente mettere in guardia sia la ricerca geografica che quella filosofica: se il limite è fondatore della differenza, differenza e limite sono essenziali, perché laddove la differenza fa difetto, è la violenza che minaccia. Il limite non è dunque ciò che è proiettato dal tracciato, di qui a là arbitrariamente, ma è il prodotto di una relazione. Poiché regola, il limite assolve alle funzioni di articolazione, unione e/o disgiunzione, oggetto di una possibile teoria ‘limologica’.




Una comprensione articolata e adeguata topologicamente e geograficamente del concetto di frontiera può farcela intendere come il tracciato di una linea ‘mediante la quale e sulla quale si devono  simultaneamente operare la divisione e il paesaggio’, che obbedisce ‘alla logica generela di ogni limite, in cui il limitante e il limitato non smettono di passare l’uno nell’altro’. 
E’ in particolare Nancy, nel suo pensiero geofilosofico, a sottolineare con forza come un soggetto che non si esponesse all’altro non potrebbe nemmeno assumere una figura, né venire in presenza. La logica della singolarità non è una logica dell’esclusione, ma della condivisione:

“Non c’è singolare che molteplice, come indica bene il latino, che conosce il termine ‘singuli’ solo al plurale: ‘uno per uno’, il singolare non ha senso che numeroso, staccato, con-diviso”.




Giacché l’azzeramento delle singole identità e delle singole singolarità è stata la vicenda della modernità, non certo ancora terminata, rivendicare l’universalità indeterminata dello spazio astratto suona come un’irrisione della sedimentazione storica e della Natura di Memoria dei luoghi. 
La nostra civiltà, con la logica del progresso e dell’accrescimento dei beni economici, ha scelto l’espansione, l’innovazione inarrestabile, l’incremento dei consumi, ma per farlo è stato ed è necessario un modello di pensiero che non riconosca limite alcuno alla propria potenza (o assoluta demenza): né il limite trascendente del divino, né quello, ecologico e fisico, della Natura quale dimensione intelligente (e pensante) del vivente. E dunque nemmeno la finitezza intrinseca della Terra e delle sue risorse ha costruito un’evidenza sufficiente ad orientare diversamente o a frenare la corsa, occidentale, ed ormai planetaria, alla distruzione accompagnata alla conseguente violenza irreversibile.




Ma se il ‘progresso’ non ha potuto arrestarsi nemmeno di fronte ai molteplici annunci della propria imminente fine per esaurimento delle materie prime e sovvertimento dell’equilibrio ecologico, nemmeno si è lasciato intralciare da tradizioni o culture o consuetudini diverse…(anzi si è ben organizzato e adoperato affinché tali singolarità siano soppresse confuse bandite nel cerchio confuso di un’approssimata e nuova mitologia alla parabola di una più confacente dottrina… al limite di un’odierna ed incompiuta filosofia che forse con l’intera geografia poco e nulla condivide eccetto una vaga ed approssimato ‘piano-regolatore’ ove deformare e circoscrivere ogni Natura prigioniera dell’odierno vivere… così malmente costruito e edificato…).
(L. Bonesio; accompagnata dalle composizioni grafiche di: Aksam Gunesi)

















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