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Nell'Anima collettiva (2)
Prosegue in:
Alle origini del moderno ambientalismo (4) &
Ghiaccio eschimese (5)
Marc Augé ha affermato che nei segni della Storia non troviamo la
nostra genesi, ma la nostra differenza: il che significa, anche, che i luoghi
‘differenziati’, con una propria identità oltre che pesaggistica (ma anche per
il sottoscritto che scrive facendo tesoro delle proprie come altrui esperienze
ed ideali umani - paesaggi e Natura -
meditare e mediare se medesima Primo Pensiero perseguitato Intelletto…), sono luoghi della
Memoria.
Sulla base di queste considerazioni, la percezione di Michel Serres a
favore di una terra ‘diversa da tutti i luoghi sino a quel momento censiti o
nominati’, cioè la Terra universa – e non pluriversa – dell’astrazione geometrica,
quale utopico antidoto alla violenza del differente e dell’escludente, appare
una delle tante teatralizzazioni neo-cartesiane chiamate a disinnescare anche
nel pensiero la drammaticità della questione. Come se l’elemento locale di per
sé si riducesse ad una piazzaforte (‘il qui produce la guerra ingiusta e
inutile, combattuta dall’esser-ci, soldato, o meglio, luogotenente, inchiodato
alla catena di vendette e riparazioni, per mantenersi al proprio posto’),
scontando così il peccato della sua limitazione.
Ma il tema della de-limitazione non può essere ridotto all’espulzione
dell’esistente dal tracciato del limen
o del templum: quadrato di Terra
svuotato, ‘invenzione di uno spazio locale vuoto’ in cui, secondo Serres, la
separazione dello spazio sacro da quello profano costituisce l’archetipo di
ogni altra pratica di delimitazione, dall’agricoltura al sacrificio alla
guerra: in realtà questa operazione di ‘sbiancamento’, di tabula rasa, che il filosofo francese presuppone nella sua finzione
teorica, assomiglia troppo al gesto cartesiano dell’espulsione del disordine
naturale dalla costruzione di un universo puramente logico-geometrico, per non
far sorgere qualche sospetto.
Se è qui inutile soffermarsi sulla capziosità delle argomentazioni di
Serres, e sulla fondamentale confusione che nel suo testo regna fra spazio
quantitativo e variamente misurabile e spazio qualitativo, come anche sul
presupposto – tutto moderno! – che la simbolicità dello spazio escluda la
calcolabilità geometrica e viceversa, occorre nondimeno ribadire che non è
certo attraverso la semplice apertura (o ri-apertura) dello spazio geometrico,
‘letteralmente senza limite, propriamente immateriale, spirituale’, che si può
sperare di diffondere ‘la giustizia e la pace’. L’equivalenza dei posti da cui
ci si ripromette la fine dei conflitti non può essere pensata come l’astratta
dignità di una pensabilità geometrica, né come il semplice assorbimento del
locale nel globale: bensì con la ricchezza geografica in cui la
differenziazione, comunque accaduta, è salvaguardata nel riconoscimento
della sua inestirpabile identità locale, di Memoria. Il che non esclude in
nessun modo la consapevolezza del globale, dell’interconnessione sistematica di
tutti gli aspetti della Terra come anche della ‘globalizzazione’ accaduta a
livello economico e culturale: anzi, è proprio dalla percezione globale che si
muove qualsiasi discorso ecologista degno di questo nome, ossia che pensi la
Terra come il nostro oikos, il luogo
del nostro comune abitare, così come ogni posizione che rivendichi di non
schiacciare il locale e il singolare sotto l’assolutizzazione dell’universale.
Quel che, in negativo, un simile discorso consente di rilevare, è come
l’assolutizzazione di un unico modello, a produrre la violenza dell’estirpazione
e dell’eliminazione: è l’universale pensato senza il singolare che
diventa sbiancamento e tabula rasa, eliminazione violenza e
molto altro ancora (parenti - aggiunge il sottoscritto - di antichi e non certo
in disuso per medesimi evoluti fini e principi di una persecuzione e relativa inquisizione
con relativa sottrazione della Memoria e con essa di ogni Verità storica ad uso
di una realtà come successivamente leggeremo materiale nei suoi invariati e
‘secolari’ intenti…)...
Se invece si pensa ad un universale-singolare, è possibile
vedere come il limes, il confine, sia
de-limitazione, ma come crinale di una coappartenenza, l’incontro di due bordi,
la possibilità che figure diverse siano visibili e riconoscibili, che si diano
le figure e i colori di una tipologia e geometria variabile, e dunque limen, soglia, ingresso, comunicazione.
Da un’eccessiva semplificazione della questione del confine possono
proficuamente mettere in guardia sia la ricerca geografica che quella
filosofica: se il limite è fondatore della differenza, differenza e limite sono
essenziali, perché laddove la differenza fa difetto, è la violenza che
minaccia. Il limite non è dunque ciò che è proiettato dal tracciato, di qui
a là arbitrariamente, ma è il prodotto di una relazione. Poiché regola, il
limite assolve alle funzioni di articolazione, unione e/o disgiunzione, oggetto
di una possibile teoria ‘limologica’.
Una comprensione articolata e adeguata topologicamente e
geograficamente del concetto di frontiera può farcela intendere come il
tracciato di una linea ‘mediante la quale e sulla quale si devono simultaneamente operare la divisione e il
paesaggio’, che obbedisce ‘alla logica generela di ogni limite, in cui il
limitante e il limitato non smettono di passare l’uno nell’altro’.
E’ in particolare Nancy, nel suo pensiero geofilosofico, a sottolineare
con forza come un soggetto che non si esponesse all’altro non potrebbe nemmeno
assumere una figura, né venire in presenza. La logica della singolarità non è
una logica dell’esclusione, ma della condivisione:
“Non c’è singolare che molteplice, come indica bene il latino, che
conosce il termine ‘singuli’ solo al plurale: ‘uno per uno’, il singolare non
ha senso che numeroso, staccato, con-diviso”.
Giacché l’azzeramento delle singole identità e delle singole
singolarità è stata la vicenda della modernità, non certo ancora terminata,
rivendicare l’universalità indeterminata dello spazio astratto suona come
un’irrisione della sedimentazione storica e della Natura di Memoria dei luoghi.
La nostra civiltà, con la logica del progresso e dell’accrescimento dei
beni economici, ha scelto l’espansione, l’innovazione inarrestabile,
l’incremento dei consumi, ma per farlo è stato ed è necessario un modello di
pensiero che non riconosca limite alcuno alla propria potenza (o assoluta
demenza): né il limite trascendente del divino, né quello, ecologico e fisico,
della Natura quale dimensione intelligente (e pensante) del vivente. E dunque
nemmeno la finitezza intrinseca della Terra e delle sue risorse ha costruito
un’evidenza sufficiente ad orientare diversamente o a frenare la corsa,
occidentale, ed ormai planetaria, alla distruzione accompagnata alla
conseguente violenza irreversibile.
Ma se il ‘progresso’ non ha potuto arrestarsi nemmeno di fronte ai
molteplici annunci della propria imminente fine per esaurimento delle materie
prime e sovvertimento dell’equilibrio ecologico, nemmeno si è lasciato
intralciare da tradizioni o culture o consuetudini diverse…(anzi si è ben
organizzato e adoperato affinché tali singolarità siano soppresse confuse
bandite nel cerchio confuso di un’approssimata e nuova mitologia alla parabola
di una più confacente dottrina… al limite di un’odierna ed incompiuta filosofia
che forse con l’intera geografia poco e nulla condivide eccetto una vaga ed
approssimato ‘piano-regolatore’ ove deformare e circoscrivere ogni Natura
prigioniera dell’odierno vivere… così malmente costruito e edificato…).
(L. Bonesio; accompagnata dalle composizioni grafiche di: Aksam Gunesi)
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