CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

domenica 15 marzo 2015

SILENZIO BIANCO




















Prosegue in:

Silenzio Bianco (2)

Precedenti capitoli:

l'uomo peloso (1/4)














- Carmen non dura più di un paio di giorni.
Mason sputò un pezzo di ghiaccio guardando con tristezza la povera bestia, poi
mise la zampa in bocca e riprese a mordicchiare il ghiaccio incastrato crudelmen-
te tra le dita.
- Non ho mai visto un cane con un nome altisonante che valesse un fico secco,
disse terminando l'operazione e spingendo la bestia da un lato.
- Si sfanno e muoiono sotto il peso della responsabilità. Ti è mai capitato di ave-
re grane da uno con un nome decente come Cassiar,  Siwash o Husky? Nossi-
gnore! Guarda Shookum, qua, è......
Oplà! Lo sparuto animale fece un balzo, e i suoi denti bianchi mancarono per un
pelo la gola di Mason.
- Ah sì, eh?
Un violento colpo assestato in mezzo alle orecchie con l'estremità della frusta
mandò l'animale disteso sulla neve, tutto tremolante, una bava gialla alla bocca.
- Dicevo, guarda Shookum, qua, lui sì che è un duro. Scommetto che si mangia
Carmen nel giro di una settimana.
- Io, invece scommetto un'altra cosa,
replicò Malemute Kid rivoltando il pane ghiacciato, posato davanti al fuoco a
scongelarsi.




- Ci mangeremo Shookum prima della fine del viaggio. Che ne dici Ruth?
La giovane indiana sistemò la caffetteria sopra un pezzo di ghiaccio, volse lo
sguardo da Malemute Kid a suo marito, poi ai cani, ma preferì non rispondere.
Era talmente ovvio, che una risposta non era necessaria: trecento chilometri di
terreno vergine davanti, con sei giorni scarsi di provviste per loro e niente per
i cani, non lasciavano alternative.
I due uomini e la donna si strinsero intorno al fuoco e dettero inizio al magro
pasto. I cani erano rimasti attaccati alla slitta, poiché si trattava di una sosta
nel corso della giornata, e guardavano con invidia ogni boccone.
- Non avremo più pranzi dopo questo di oggi,
disse Malemute Kid.
- E dobbiamo sorvegliare bene i cani, stanno diventando cattivi. Non ci metto-
no molto, se gli capita l'occasione, a fare fuori uno di noi.
- E dire che sono stato presidente a Epsworth e ho insegnato nella scuola do-
menicale.
Pronunciata questa frase del tutto irrilevante, Mason cadde in sognante con-
templazione dei suoi mocassini fumanti, ma fu risvegliato da Ruth che gli sta-
va riempendo la tazza.




- Grazie a Dio abbiamo tonnellate di tè! L'ho visto crescere, giù in Tennessee!
Che cosa non darei per avere adesso una bella torta calda di granturco! Non
ti preoccupare, Ruth: non digiunerai ancora per molto, né porterai a lungo i
mocassini.
A queste parole il volto della donna si rischiarò e gli occhi le brillarono per il
suo signore bianco, il primo uomo bianco che avesse conosciuto e il primo
uomo che avesse visto trattare una donna come qualcosa di meglio di un sem-
plice animale o di una bestia da soma.
- Sì, Ruth,
proseguì il marito, ricorrendo allo speciale linguaggio approssimativo che usa-
va con lei;
- aspetta che arriviamo al 'Fuori'. Prenderemo la canoa dell'Uomo Bianco e
attraverseremo l'Acqua Salata. Sì, l'acqua cattiva, acqua agitata, grandi mon-
tagne ballano su e giù tutto il tempo. E tanto grandi, lontane lontane: si viag-
gia dieci sonni, venti sonni, quaranta sonni,
enumerò i giorni sulle dita,
- tutto il tempo acqua, acqua cattiva. Poi si arriva al grande villaggio, tanta
gente quante le zanzare dell'estate prossima. Wigwams alte, oh! dieci, venti
pini, Hi-yu-Skookum.




Gli mancarono le parole, lanciò un'occhiata implorante a Malamute Kid, fati-
cosamente, col linguaggio dei segni pose uno sull'altro i venti pini. Malamute
Kid sorrise con gaio cinismo; ma gli occhi di Ruth erano spalancati di mera-
viglia e di piacere; credeva quasi che stesse scherzando, e una tale condi-
scenza rallegrava il cuore della povera donna.
- E poi si entra in una... in una scatola, e op! si sale;
lanciò in aria una tazza vuota per illustrare il concetto e, riafferrandola con
destrezza, continuò:
- E poi, paf, giù di nuovo. Oh, i grandi stregoni! Tu vai a Fort Yukon, io va-
do ad Arctic City - venticinque sonni - grande filo, tutto il tempo - io pren-
do il filo - dico 'pronto, Ruth, come stai?' e tu dici, 'sei tu il mio buon marito?'
e io dico 'sì', e tu dici, 'non posso fare buon pane, non c'è più lievito' e allo-
ra io dico 'guarda nella dispensa, sotto il pavimento; ciao'. Tu guardi e tro-
vi un mucchio di lievito. Tutto il tempo tu Fort Yukon, io Arctic City. Oh, i
grandi stregoni!
Ruth sorrise così ingenuamente alla storia fiabesca che i due uomini scoppia-
rono a ridere. Una lite fra i cani pose fine alle meraviglie del 'Fuori', e quando
i combattenti ringhiosi furono separati lei aveva già legato le slitte e tutto
era pronto per il viaggio.




- Forza! Baldy! Avanti, Mush!
Mason lavorava abilmente di frusta e, mentre i cani mugolavano a testa bassa
nei finimenti, mise in moto con una spinta la slitta di testa. Ruth seguiva con
la seconda muta lasciando alla retroguardia Malemute Kid che l'aveva aiutata
a partire.
Era un omone robusto, capace di far stramazzare un bue con un sol colpo,
ma non aveva il coraggio di frustare i poveri cani.... era indulgente con essi
come raramente è un guidatore di slitte; quasi piangeva assieme a loro la mi-
sera situazione.
- Andiamo, forza, mie povere bestie dalle zampe dolenti!
mormorò, dopo moltissimi tentativi di avviare il carico.
Ma la sua pazienza fu alla fine ricompensata, e, pur guaendo di dolore, i cani
si affrettarono verso i loro compagni.
Non più conversazione; la durezza della pista non permetterà un tale diversivo.
E di tutte le fatiche più estenuanti, quella delle piste nelle terre del Nord è la
peggiore. Beato colui che può superare una giornata di viaggio, sia pure su una
 pista già battuta, al solo prezzo del silenzio.




E tra le fatiche che spezzano la forza di un uomo, quella di aprirsi una pista
è la peggiore. A ogni passo la grande racchetta sprofonda finché la neve è
al livello delle ginocchia. La racchetta va poi tirata su, ancora più su, dritta;
la deviazione di un paio di centimetri può causare un disastro; la racchetta
va tirata su fino a sfiorare la superficie, poi portata in avanti e affondata di
nuovo, dopodiché l'altro piede può avanzare di mezzo metro.
Chi prova questo esercizio per la prima volta, seppure riesce a non acca-
vallare le racchette e a non cadere disteso sulla pista, rinuncerà esausto do-
po cento metri.
Uno che riesce a non intralciare l'avanzata dei cani per una giornata intera
ha ben diritto di infilarsi nel suo sacco a pelo con la coscienza a posto e
un orgoglio difficilmente immaginabile; e chi viaggia per venti sonni sulla
Lunga Pista è un uomo che gli Dèi possono invidiare.




Il pomeriggio passava e sotto l'incubo del Silenzio Bianco i taciti viaggia-
tori si piegavano alla loro fatica. La Natura ha molti espedienti per con-
vincere l'uomo dei suoi limiti - l'incessante scorrere delle correnti, la fu-
ria dei temporali, il sussulto del terremoto, il lungo rullio dell'artiglieria -
ma il più tremendo, il più sconvolgente è la passività del Silenzio Bianco.
Ogni movimento cessa: il cielo è limpido, l'aria tersa, il più lieve bisbiglio
sembra sacrilegio, e l'uomo diventa timido, terrorizzato al suono della
propria voce. Unica particella di vita in movimento attraverso le spettra-
li distese di un mondo morto, egli trema di fronte alla sua audacia, capi-
sce di essere un verme, e nulla più.
Inusitati pensieri si affacciano alla mente non chiamati, e il mistero di
tutto il Creato lotta per esprimersi. La paura della morte, di Dio, dell'-
Universo lo assale - la speranza della Resurrezione e della Vita, l'ane-
lito all'immortalità, il vano sforzo dell'essenza imprigionata - è allora,
se mai, che l'uomo cammina solo....con Dio....
Sì, solo e con Dio......

(Prosegue......)

















  

venerdì 13 marzo 2015

L'UOMO PELOSO (3)












































Precedenti capitoli:

L'uomo peloso  (2) &

Prosegue in:

L'uomo peloso (4) &











La natura: ciao 'Bellezza'....














... Lo spinse in un canale senza sbocco, nel letto di un torrente, dove
uno sbarramento di tronchi bloccava il cammino....
Il lupo fece una piroetta, roteando sulle zampe posteriori, come Joe
e gli altri cani eschimesi quand'erano in trappola, ringhiando e rizzan-
do il pelo, sbattendo i denti in una continua e rapida successione di
morsi.
Buck non attaccò, gli girò bensì attorno, con una serie di mosse ami-
chevoli; il lupo era sospettoso e spaurito, giacché era tre volte meno
grosso di Buck, e la sua testa raggiungeva a malapena la spalla dell'-
altro.




Cogliendo il momento favorevole, saettò via e la caccia riprese...
Più e più volte venne stretto in un angolo, e la scena si ripeté identi-
ca; e, ciò, nonostante il lupo fosse in cattive condizioni, altrimenti del
resto Buck non l'avrebbe raggiunto tanto facilmente. Correva sin quan-
do il capo di Buck non era all'altezza del suo fianco; allora, braccato,
piroettava su se stesso a fronteggiarlo, finché, alla prima occasione,
non fuggiva di nuovo.
... Ma, in ultimo, la costanza di Buck venne premiata...
Accorgendosi che l'altro non aveva intenzione di fargli del male, il lu-
po prese ad annusargli il naso. Allora essi divennero amici, e scherza-
rono tra di loro, in quel modo nervoso e un po' timido con cui le fiere
nasconondono la propria ferocia.




Dopo qualche tempo, il lupo partì al piccolo trotto, così da mostrare
chiaramente che si stava dirigendo verso un luogo preciso. Fece com-
prendere a Buck che doveva seguirlo, ed essi corsero l'uno accanto al-
l'altro attraverso un grigio crepuscolo, risalendo il letto del torrente, si-
no alla gola da cui l'acqua scaturiva, e attraverso il brullo spartiacque
dove erano le sue sorgenti.
Sul pendio opposto allo spartiacque, scesero in una zona pianeggiante,
dove si vedevano molti spazi boscosi e molti torrenti, e attraverso que-
sti spazi corsero senza fermarsi per ore e ore, mentre il sole saliva più
alto e la giornata diveniva calda.




Buck provava una gioia sfrenata....
Sapeva che, finalmente, stava rispondendo al richiamo, mentre correva
fianco a fianco con quel suo fratello dei boschi, certamente verso un luo-
go da cui il richiamo proveniva...
In rapida successione, tornavano nella sua mente antiche memorie, e
questo lo agitavano come un tempo l'avevano agitato quelle realtà di cui
le memorie eran l'ombra.
Aveva già fatto ciò che stava facendo, da qualche parte, in quell'altro mon-
do che ricordava confusamente; e adesso stava facendo la stessa cosa,
correndo libero negli spazi aperti, con sotto i piedi la terra intatta, e il va-
sto cielo sopra di sé.




Sostarono a bere presso un corso d'acqua, e, fermandosi, Buck pensò
a John Thornton. Si sedette. Il lupo ripartì verso il luogo da cui certamen-
te proveniva il richiamo, indi tornò indietro verso di lui, annusandogli il na-
so e facendo mosse come d'incoraggiamento. Ma Buck si voltò e prese len-
tamente la strada del ritorno. Per quasi un'ora, quel suo fratello selvaggio
corse al suo fianco, mugolando piano. Quindi si accovacciò, puntò il naso
in alto e ululò.
Era un ululato triste, e, mentre Buck continuava la sua strada senza sosta,
lo sentiva affievolirsi sempre più, finché non si spense in distanza....

(Prosegue....)














giovedì 12 marzo 2015

L' UOMO PELOSO





































Prosegue in:

l'uomo peloso (2)

Precedente capitolo:

Alcatraz Island (6)














Di nuovo tornò la primavera e, al termine di tanto vagabondare,
essi trovarono, non la Capanna Sperduta, ma un giacimento di
superficie, in una larga vallata dove l'oro luccicava sul fondo del
setaccio come biondo burro.
Ogni giorno di lavoro fruttava loro migliaia di dollari in polvere
pura e pepite, e i tre uomini (di provincia) lavoravano tutti i
giorno. L'oro veniva messo in sacchetti di pelle d'alce da 50
libbre l'uno, e ammucchiato come legna, fuori dalla baracca di
tronchi d'abete.




Gli uomini faticavano come titani, mentre i giorni passavano via
in fretta come un sogno, a mano a mano che accumulavano il lo-
ro tesoro.
Per i cani non v'era niente da fare, tranne trasportare di tanto in
tanto la selvaggina che Thornton uccideva; così, Buck passava
lunghe ore meditando accanto al fuoco.
La visione di quell'uomo peloso con le gambe corte, gli tornava
nella mente con maggiore frequenza, ora che non aveva quasi
nulla da fare; e, spesso, sbattendo gli occhi accanto al fuoco,
Buck vagava con lui in quell'altro mondo di cui aveva memoria.




Il tratto fondamentale di quest'altro mondo pareva essere la
paura. Quando osservava l'uomo peloso dormire accanto al
fuoco, con la testa tra le ginocchia e le mani sopra la testa,
Buck vedeva che il suo sonno era inquieto: aveva continui
sussulti, e di continuo si svegliava, scrutando nel buio con
spavento, gettando altra legna sul fuoco. O, se accadeva
che camminassero in riva al mare, dove l'uomo peloso rac-
coglieva molluschi che mangiava appena raccolti, sempre
quell'uomo volgeva gli occhi dappertutto in cerca di peri-
coli nascosti, con le gambe pronte a una fuga precipitosa,
al loro apparire.




Attraverso la foresta, scivolavano senza alcun rumore, Buck
alle calcagna dell'uomo peloso, tesi e vigili entrambi, con o-
recchie tese e irrequiete, e narici palpitanti, giacché l'uomo
aveva un udito e odorato acuti quanto quelli di Buck.
L'uomo peloso riusciva a saltare sugli alberi, assieme, talvol-
ta alla sua donna pelosa, e lassù, procedeva veloce come sul
terreno, dondolandosi con le braccia da un ramo all'altro.....
con degli strani 'utensili' sulle mani; gli alberi distanti ad una
dozzina di piedi, lasciandosi andare e aggrappandosi, senza
mai cadere né perdere la presa.




In effetti, pareva altrettanto a suo agio sui rami che al
suolo.
Sicuramente pensò Buck è proprio quello il suo ambiente
naturale; e Buck ricordava notti di veglia trascorse tra gli
alberi, su cui era appollaiato l'uomo peloso, strettamente
aggrappato ai rami, sempre con il suo utensile da caccia.
E, molto simile alle visioni dell'uomo peloso, era il richia-
mo che echeggiava ancora nella profondità più recondita
della foresta.
Ciò, lo riempiva d'una grande inquietudine, e di strani de-
sideri. Gli faceva provare una vaga, languida contentezza,
ed egli s'accorgeva di avere smanie selvagge e stati d'agi-
tazione, senza sapere perché.




Certe volte inseguiva quel richiamo dentro la foresta, cer-
candolo come se fosse una cosa tangibile, abbaiando som-
messamente, oppure con tono di sfida, secondo il suo sta-
to d'animo.
Ficcava il naso nel freddo muschio del legno, o nel terric-
cio dove crescevano alte erbe, e sbuffava di gioia ai gras-
si odori della terra; oppure si acquattava, per ore e ore,
come se stesse nascosto, dietro tronchi crollati pieni di
funghi, con occhi e orecchie spalancati, a cogliere tutto
ciò che si muoveva e risuonava attorno a lui.
Giacendo a quel modo, forse egli sperava di sorprende-
re quel richiamo che non riusciva a capire. Ma non sape-
va perché facesse tutte queste cose; era costretto a far-
le, e non rifletteva sulle proprie azioni.




Venne colto, nel cuore della notte, da impulsi irresistibili.
Talvolto l'uomo peloso, con il suo utensile, si accorgeva
di ciò.
Era crucciato nell'accampamento, sonnecchiando pigra-
mente nel calore del giorno, quando d'improvviso la sua
testa si alzava, e le orecchie si drizzavano in attento a-
scolto; e allora balzava in piedi, e si precipitava via, e
avanti dritto per ore, attraverso le navate della foresta
e spazi aperti costellati di ...fiori....

(Prosegue....)














martedì 10 marzo 2015

A UN'AMICA AMERICANA (non c'è vita notturna qui...)







































Prosegue in:

La forza della Poesia (2)













Ti scrivo questa lettera in una pensione inglese di buon gusto, tetra, biliosa, della vomitevole…., situata, come sai benissimo, accidenti, sul puzzolente, azzurro, ribollente, fottuto Golfo Persico.
Dio li fulmini, ansimo tra vodka con seltz, tutto il petrolio greggio e crudele, tutta la benzina che esista sotto il cielo maledetto, tutto il bitume, e i bunker e le cisterne, gli oleodotti e le raffinerie, i pozzi e le torri di trivellazione, i pozzi a eruzione spontanea e i super frazionatori, e pozzo-el-Araba e così via.
Oggi mi hanno portato a visitare un nuovo grande pozzo sibilante sormontato da una nera torre, appena eretta al centro della raffineria. E’ costato otto milioni di sterline. E lo chiamano Cat-Cracker.




Abadan è abitata quasi completamente da inglesi (sono tutti inglesi talvolta vestiti di nero talvolta di bianco, ma tutti indistintamente inglesi…) – o così sembra. Vi sono migliaia di giovani inglesi negli alloggi per scapoli, tutti silenziosamente in subbuglio.
Molti perdono le staffe nella calura del loro sesso incarnato e del sole e vengono rimandati, latranti, in Inghilterra. Immediatamente, il loro posto è preso da nuove reclute: giovani cuccioli bene educati, con baffetti biondi e pipe di radica, che, nella pregnante estate, ben presto invecchiano, vanno in giro con la barba lunga, fumano a catena umide sigarette penzolanti, si ubriacano di arac, si agitano tremanti per tutta la notte insonne nei tremanti e agitati alloggi per scapoli, vanno ad aprire sentendo bussare tre volte alla porta a mezzanotte, vedono dinanzi a loro, nella calda notte illuminata dalla luna, fanciulle persiane del bazar, dalle labra umide, le quali chiedono, come vuole la costumanza, un bicchier d’acqua, le invitano ad entrare, arrossiscono, balbettano, brancicano, sono perduti.




Anche questi uomini vecchi-giovani vengono rispediti in patria, pieni zeppi di vergogna e di penicillina. E i più prudenti rimangono, alcolizzati, striduli, cacciati, ricordando l’allegra meravigliosa Londra dalla pelle così bianca e così ben disposta.
Ho visto campi petroliferi sulle montagne la settimana scorsa. Di notte il baccano dei geologi frustrati era più forte dell’ululare degli sciacalli fuori dalla mia tenda. Completamente dannati, i disonorevoli, esperti sciacalli pieni di auto compatimento strillavano e gemevano negli abissi del loro rimorso e delle fetide pattumiere.
‘Rosemary’, ‘Jennifer’, ‘Margery’, gridavano i quasi-maschi insonni nel loro quasi-sonno. E le iene ridevano molto vigorosamente nelle profondità delle loro scure gole malate.
O culla della cultura persiana, sempre-verde, con giardini, con cipressi, cinematofragata, decorata da cisterne di petrolio, attraversata da viali, odorosa di incenso e di ascella, cullami dolcemente prima dell’ora derelitta di andare a letto in albergo, sono affetto dalla nostalgia della gotta. Gli alluci mi pulsano come cetrioli dolenti nel bar che sa di arac.




O città di Haffiz, e di Sad’i e della signora Wiltshire, la moglie del Console (che quando ubriaca si fustiga a forza di bastonate il corpo rivestito di marmo…), solleticami fino a quando il mio alluce-pallone non si spenga, solleticami il ventre ed il membro con la sottoveste sado-maso di sottana nera guardaroba delle buone occasioni perdute…
Un paese solitario…
E’ così la Persia ferita, moschea e cecità, fontane e capanne di fango, Cadillac e piaghe purulente, melograni e Cat-Cracker. La birra nei bar degli alberghi costa dieci scellini alla bottiglia, importata da infime ditte tedesche; il whisky una sterlina al sorso (contrabbando delle stesse…).
… Non esiste vita notturna…
… Shiraz dorme alle nove….




Poi, nell’oscurità tintinnano le campanelle del cammello sommessamente; gli sciacalli confessano la loro indegnità di vivere con una furia ignobile di ululati di sirena ed esprimono la loro vile gratitudine dall’alito di fogna alla notte che ne cela i musi abominevoli; cani affetti da insonnia folleggiano nei villaggi di montagna; il viceministro dell’istruzione egiziano, che ha la camera d’albergo adiacente alla mia, ebbramente cavalca una magra segretaria pelosa, diplomata geometra dell’edilizia pubblica.
Dervisci supplicano sotto il mio letto; vi sono lupi non lontani che ululano contro le vetrine dei bazar!
Non esiste vita notturna qui: la luna fa quello che fa, gli insetti nocivi persistono, i cammelli salpano, i cani sfidano, le rane gioiscono, i leopardi delle nevi passano, gli stambecchi fanno quello che fanno, i mufloni sono peculiari, le gazzelle solitarie, gli asini cristiani, gli orsi sugli alti monti abbracciano altri universi e sbranano le gazzelle, le tigri guardano e tacciono e corrono verso il deserto per l’economia del nuovo giorno…
Non esiste vita notturna qui….

(Dylan Thomas, Ritratto del poeta attraverso le lettere; Fotografie di C. Jacrot)

(Prosegue...)


















sabato 7 marzo 2015

AMMAZZARE IL TEMPO (finalismo & meccanicismo) (16)
















Precedente capitolo:

Ammazzare il Tempo (la vita nel suo progredire) (14/15)

Prosegue in:

Ammazzare il Tempo (finalismo & meccanicismo) (17)













La finalità, dice dunque Bergson, ‘assimila il lavoro della natura a quello di un operaio che procede, anch’egli, per assemplaggio di parti in vista della realizzazione del modello’.
A cui aggiunge che anche il meccanicismo, a suo modo, lo fa, la qual cosa è forse possibile, ma il finalismo di Aristotele non lo fa.  E’ vero che il concetto di causa finale è stato ispirato ad Aristotele dall’esempio dell’attività artistica, artigianale o operaia, ma non è vero che il meccanicismo debba rimproverare al finalismo il suo carattere antropomorfico.
Abbiamo insistito su questo punto parlando di Aristotele: è l’arte che imita la natura e non il contrario. Ciò che colpisce Aristotele nel raffrontarle, è proprio il fatto che, a differenza dell’arte, la natura non calcola, non riflette, non sceglie. Ecco perché, quando nulla interviene a disturbarla, essa non sbaglia.
Ed è anche la ragione per cui, mossa dall’interno verso un fine che essa ignora ma che resta in sé, la natura non fa nulla invano.
Essa non fa né prototipi né prove, ma riesce al primo colpo o fallisce definitivamente. Niente a che vedere col lavoro umano artigianale, guidato dall’intelligenza, perché ciò che lo caratterizza è la possibilità di sbagliarsi.




La natura non lavora ‘come l’operaio, assemblando delle parti’ ma producendo dei corpi unici la cui esistenza implica quella di ciò che chiamiamo le loro parti.
Essa non fa piante o animali con degli organi, ma fa degli organi producendo animali e piante. E vuole le parti in relazione alla sua volontà del tutto; come il Dio di Tommaso d’Aquino, la natura non vuole questo in vista di quello, ma vuole che questo sia in vista di quello.
E’ significativo che il pensiero senta lo stesso bisogno di sfuggire all’antropomorfismo parlando della natura e parlando di Dio.
Aristotele ha spesso insistito sul fatto che l’uomo lavori in vista di fini intenzionali con dei materiali presi a prestito dalla natura, mentre la natura produce essa stessa i suoi materiali. 
L’uomo si è fabbricato delle ali per volare, non è stato capace di farsi spuntare ali come quelle degli uccelli, ed è del resto la ragione per cui, munito di ali fabbricate, egli vola così male.
L’uomo non ha scoperto il segreto per costruirsi delle abitazioni naturali, simili alle scaglie dorsali e ventrali delle tartarughe, ma ha progressivamente imparato a costruirne; questo è tutto ciò che dice Aristotele.




Se la natura facesse spuntare delle case, la sua opera sarebbe simile a quella degli architetti, ma la natura non è un architetto e il suo lavoro non assomiglia a quello di un architetto; la sua opera è una creazione naturale e essa stessa non è che un agente analogo all’intelligenza che dirige le operazioni dell’uomo verso i fini che essa concepisce.
L’importanza attribuita da Aristotele al fatto che la natura e l’arte procedono entrambe per gradi, che implicano l’esistenza di un fine, giustifica sicuramente in parte il rimprovero che Bergson gli muove di sostenere una nozione antropomorfica del finalismo.
Non si potrà negare che Aristotele abbia concepito l’una per analogia con l’altra, ma è questa l’occasione per ribadire che l’uomo fa parte della natura, di cui rappresenta questo caso unico, di una natura che si conosce direttamente dal di dentro, cioè attraverso l’uomo che è natura.




Tutto avviene come se, nel produrre l’uomo dotato di ragione, la natura continuasse, sotto forma di produzione artigianale il lavoro ch’essa svolgeva fino allora fisiologicamente. E’ cattivo antropomorfismo ragionare come se le due finalità operassero nello stesso modo, come se la natura creasse un occhio nello stesso modo in cui un ottico costruisce un telescopio, ma è forse antropomorfismo legittimo pensare che due serie di operazioni di struttura analoga, e conducenti a risultati comparabili, siano in ultima analisi della stessa natura.
L’artigiano umano continua l’oerazione della natura, e talvolta la completa, attraverso mezzi completamente diversi (ed, aggiungo io, per gradi procedurali differenziati…).
Lo stesso Bergson non era del resto forse così lontano dal finalismo di Aristotele come pensava…..

(E. Gilson, Biofilosofia da Aristotele a Darwin e ritorno....)

(Prosegue....)