Precedenti capitoli:
Considerazioni filosofiche (16)
Sull'amiko (nemico) amerikano e l'amato russo villano (15/1)
Prosegue nell'affare...
...Del petrolio (18/1)
& Progetti separatisti... (19)
& What shall it profit (?) (20)
Perché è stato ucciso Matteotti
‘La
faccenda mi sembra davvero grave. Ma che si sono messi in testa di pubblicare?
Dobbiamo stare attenti, perché questa storia potrebbe danneggiarci!’
È il
17 novembre 1941 quando il premier britannico Winston Churchill, allarmato,
ordina ai membri del suo governo e agli agenti dei servizi segreti di Sua
Maestà di stendere una coltre di silenzio sul caso Matteotti, il delitto
politico avvenuto diciassette anni prima a Roma. Italia e Regno Unito sono in
guerra da quasi un anno e mezzo. Si combatte in Libia. E le carte compromettenti
che Churchill teme che vengano allo scoperto sono quelle rinvenute pochi mesi
prima, nel marzo del 1941, nell’abitazione di uno dei sicari del deputato
socialista assassinato.
Si
tratta di Amerigo Dumini, il quale
dal 1934 lavora in Cirenaica per i servizi italiani, e probabilmente non solo per
loro.
Con
quei documenti si potrebbe assestare un colpo decisivo a Benito Mussolini e al
suo regime, ma Churchill interviene inopinatamente per mettere tutto a tacere.
Perché?
Un
favore personale al duce, suo grande amico, con il quale ha intrattenuto una
fitta corrispondenza fino allo scoppio della guerra?
O paura
che emergano anche responsabilità inglesi?
Torniamo
indietro di diciassette anni e riprendiamo dall’inizio il filo di questa storia.
Il 10
giugno 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti viene sequestrato da un
commando di squadristi, caricato su un’automobile, pestato a sangue,
accoltellato e infine abbandonato, ormai privo di vita, in un bosco a venticinque
chilometri da Roma, nella macchia della Quartarella, dove viene ritrovato più
di due mesi dopo, il 16 agosto.
La
notizia suscita una tale ondata di emozione e sdegno, in Italia e all’estero,
da scuotere le stesse fondamenta su cui si sta formando il regime fascista. Il
delitto è maturato in un crescendo di tensione politica e violenza. Il 6 aprile
di quell’anno si sono svolte le nuove elezioni politiche, indette con
l’obiettivo di rafforzare il governo presieduto da Mussolini. Lo schieramento
liberal-fascista, appoggiato da monarchia, Confindustria, gerarchie militari e
Vaticano, ha trionfato con quasi il 70 per cento dei voti contro il 30 per
cento ottenuto dalle opposizioni di sinistra, che si sono presentate divise.
Grazie
alla legge elettorale maggioritaria, la destra ha conquistato in parlamento 374
seggi su 535.
La
vigilia è stata caratterizzata da numerose aggressioni nei confronti di
esponenti della sinistra. Durante lo scrutinio, molti sono stati anche gli
episodi di brogli.
Il 30
maggio Matteotti ha tenuto alla Camera un durissimo discorso contro Mussolini, chiedendo
l’annullamento delle elezioni. E ha annunciato un secondo intervento, ancora
più duro, per l’11 giugno. Ma lo hanno assassinato proprio il giorno prima, il
10.
Qualcuno
sapeva che avrebbe detto cose molto imbarazzanti per il governo e ha ordinato
che gli venisse tappata la bocca.
Per
sempre.
Quando
è stato rapito, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, aveva con sé una borsa
colma di documenti. Sparita insieme a lui. La chiave per decifrare il caso
Matteotti è proprio in quel discorso mai pronunciato. Che cosa avrebbe potuto
dire di tanto sconvolgente, il deputato socialista, da indurre qualcuno a
ordinarne l’assassinio? Intorno al delitto e al suo movente, per molti decenni
si sono accavallate diverse ricostruzioni e chiavi di lettura. Non si è mai
giunti a una completa verità giudiziaria. Le inchieste della magistratura – ben
tre nell’arco di un quarto di secolo (l’ultima risale al 1947) – individuano
gli esecutori materiali: Amerigo Dumini e i suoi complici Albino Volpi,
Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Tutti e cinque sono legati
al Partito fascista e dipendono da Emilio De Bono (uno dei quadrumviri della
marcia su Roma del 28 ottobre 1922), all’epoca del delitto capo della Pubblica
sicurezza e della Milizia volontaria. Fanno parte di una sorta di squadrone
della morte che chiamano ‘Ceka’, come la famigerata polizia politica sovietica
(Čeka) specializzata in operazioni ‘sporche’.
Ma da
chi viene impartito l’ordine di eliminare Matteotti?
Da
Mussolini o da altri esponenti del regime?
E
l’input è solo interno o qualche segnale viene lanciato anche da ambienti
stranieri?
Insomma,
quali oscure trame si celano dietro l’assassinio del più prestigioso e temuto
esponente dell’opposizione?
L’opinione
pubblica individua immediatamente in Mussolini il mandante del delitto. Anche
perché diversi giornali sostengono la tesi di una sua responsabilità diretta.
Una testata con più determinazione delle altre, il ‘Corriere della Sera’, e un
suo cronista con più convinzione di tutti: si chiama Carlo Silvestri e
all’epoca del delitto è vicino ai socialisti di Filippo Turati, ma in seguito,
durante la Repubblica sociale, diventerà uno dei più ferventi sostenitori del
duce e addirittura suo amico personale. Dopo la guerra, ammetterà di aver ingigantito le
sue accuse contro Mussolini per fini di ‘convenienza politica’. Il comportamento di
Mussolini non è proprio lineare. In un primo momento, con il cadavere di
Matteotti ancora caldo, respinge sdegnosamente ogni accusa. Qualche mese dopo,
il 3 gennaio 1925, in un famoso discorso pronunciato alla Camera, si assume
l’intera responsabilità ‘politica, morale, storica’ di tutto quanto è accaduto
prima e dopo le elezioni, del clima di intimidazione che le ha precedute e
degli episodi di violenza che ne sono seguiti. Un discorso che preannuncia le ‘leggi
fascistissime’ che di lì a poco porteranno al consolidamento del regime.
Successivamente,
però, in diverse occasioni torna a proclamare la propria innocenza.
Intervenendo di nuovo alla Camera a un anno esatto dall’assassinio, il 13
giugno 1925, dichiara: ‘Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a
qualcosa di diabolico contro di me poteva effettuare questo delitto che ci
percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione’. E poi, confidandosi con
la sorella Edvige: ‘È una bufera che mi hanno scaraventato contro proprio
quelli che avrebbero dovuto evitarla’. Insomma, un ‘cadavere gettato davanti ai miei
piedi per farmi inciampare’, secondo le parole attribuite a Mussolini dal più
autorevole storico del fascismo, Renzo De Felice.
Ma
chi avrebbe dovuto evitare che il duce fosse investito da quella bufera?
Il riferimento
è ad alcuni dei suoi stessi collaboratori, e fra i più stretti: il capo della
sicurezza De Bono, il sottosegretario agli Interni Aldo Finzi e altri due alti gerarchi,
Giovanni Marinelli e Cesare Rossi. Tutti e quattro legati da una comune
appartenenza alla massoneria, quel filo invisibile che, sin dai tempi del Risorgimento,
annoda gran parte delle relazioni segrete tra Roma e Londra. Molti credono
all’innocenza di Mussolini. Persino alcuni dei più influenti e prestigiosi
esponenti liberali dell’epoca. Personaggi come Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi
e Benedetto Croce. Proprio quest’ultimo, nel giugno del 1926, presenta al
Senato un ordine del giorno a favore del duce. E dopo la scontata approvazione,
dichiara entusiasta che si è trattato di un voto ‘prudente e patriottico’.
Guglielmo
Salotti, allievo e collaboratore di De Felice, racconta che Nicola Bombacci, ex
dirigente socialista che nel 1931 si avvicina al fascismo, aveva indagato a
lungo sul delitto Matteotti, per giungere a questa conclusione: ‘Purtroppo gli
imputati non sono qui. Magari, dopo essere stati manutengoli dei tedeschi,
saranno oggi al servizio degli inglesi o meglio ancora degli americani’.
Le
tangenti che Matteotti voleva denunciare
Mussolini
e gli uomini a lui più vicini scaricano dunque la responsabilità del delitto
sugli ambienti massonici che collegano il regime ai britannici. Ma quali legami
possono mai esserci tra il delitto Matteotti e la Gran Bretagna?
Il 22
aprile 1924, meno di due mesi prima di essere assassinato, il deputato socialista
arriva segretamente in Inghilterra. La sua permanenza a Londra, protetta dal
più stretto riserbo, dura quattro giorni, durante i quali ha numerosi incontri
con esponenti del Partito laburista, all’epoca al governo, e dirigenti sindacali.
Il 26 aprile lascia il Regno Unito e sbarca in Francia, da dove poi rientra in
Italia. Nonostante la segretezza del viaggio, uno dei suoi futuri esecutori,
Albino Volpi, lo ha pedinato per tutto il tempo della sua permanenza in territorio
francese. E Mussolini ha inviato un telegramma all’ambasciata italiana a Londra
per avere informazioni sui suoi movimenti in terra inglese: quando è stato a
Londra e quanto è durato il suo soggiorno, quali contatti ha avuto e perché, se
ha incontrato anche membri del governo britannico ed esponenti di altre
nazionalità.
A
confermare il legame tra il delitto Matteotti e la Gran Bretagna arrivano oggi
i risultati di lunghe ricerche condotte da due studiosi molto diversi tra loro ma
che, seguendo lo stesso filo, sono giunti a un’identica conclusione. Il primo è
lo storico Mauro Canali, docente all’Università di Camerino, che ha scavato negli
archivi inglesi e americani. Il secondo è Benito Li Vigni, amico personale e stretto
collaboratore di Enrico Mattei all’Eni, nonché per un lungo periodo responsabile
dei servizi d’informazione dell’ente petrolifero italiano.
Secondo
entrambi il legame sarebbe costituito dal petrolio, l’oro nero che nei primi decenni
del Novecento stava diventando sempre più una risorsa strategica per i processi
di industrializzazione delle grandi potenze, per la riconversione della loro forza militare e
per i loro interessi geopolitici. Una risorsa preziosissima, per la quale gli
stati erano (e sono ancora oggi) disposti a qualsiasi cosa.
È
proprio in questo contesto che si situerebbe il delitto Matteotti: la guerra
del petrolio combattuta fra Italia e Gran Bretagna, senza esclusione di colpi e
attraverso l’uso di quinte colonne politiche, militari, diplomatiche e giornalistiche.
A Londra Matteotti affronta con i laburisti un argomento molto imbarazzante per
il regime. Questi lo mettono infatti al corrente delle tangenti che Arnaldo
Mussolini, fratello del duce, e alcuni membri di Casa Savoia, hanno intascato
per stipulare una convenzione tra il governo italiano e una società petrolifera
americana, la Sinclair Oil. Non solo: Matteotti riceve anche documenti
che provano quei maneggi. Ed è questo lo scandalo che il deputato socialista
avrebbe voluto denunciare alla Camera l’11 giugno 1924, se il giorno prima non
lo avessero fatto sparire insieme alle prove che aveva raccolto.
L’accordo
segreto con gli americani colpiva gli interessi inglesi
Sullo
sfondo del primo tra i grandi delitti politici italiani del Novecento ci sarebbero
dunque i conflitti per il petrolio. Una guerra combattuta anche sul territorio
italiano, in primo luogo tra i due colossi energetici dell’epoca: l’americana
Standard Oil, privata, e la britannica Anglo-Persian Oil Company (Apoc),
di proprietà statale. La prima ha iniziato la sua scalata al mercato italiano
sin dalla fine dell’Ottocento, conquistando di fatto una posizione di monopolio
dei prodotti raffinati distribuiti nel nostro paese: all’epoca dell’assassinio
Matteotti, controlla una quota dell’80 per cento. Una supremazia dovuta al
fatto che gli inglesi non possiedono una raffineria nell’area mediterranea e
non sono in grado di trattare il petrolio che hanno cominciato a estrarre in
Medio Oriente, cosicché la loro presenza sul mercato italiano ed europeo è
fortemente penalizzata. Ma, proprio in quel periodo, il governo inglese decide
di muovere all’attacco del gigante Usa. Alla fine del 1923, grazie a un accordo
con l’Italia, la Apoc rileva una vecchia raffineria austriaca in disuso, a Trieste,
a due passi dai depositi della Standard Oil. E nel gennaio del 1924 apre una
filiale italiana, la British Petroleum (Bp), una società con capitale misto angloitaliano
intorno alla quale si aggregano anche quegli interessi politico finanziari del
fascismo più vicini a Londra che a Washington.
L’accordo
tra la Apoc e il governo italiano nasconde almeno altre due insidie per la
compagnia americana. La prima è nella clausola, inserita su esplicita richiesta
di Roma, secondo la quale gli inglesi possono impegnarsi nell’esplorazione del
sottosuolo nazionale e nell’eventuale sfruttamento dei giacimenti che venissero
scoperti. La seconda insidia risiede in un’altra clausola che consente alla
Bp la costruzione in tempi brevi di uno stabilimento in Italia per la
raffinazione e la distribuzione anche sul nostro territorio del petrolio estratto
in Iraq e in Persia. La raffineria di Trieste, una volta a regime, consentirà alla
Gran Bretagna di conquistare un indubbio
vantaggio logistico rispetto agli americani. Perché il greggio Usa, per
giungere da New York al porto di Messina, dove si concentra l’intero traffico
del petrolio della Standard Oil prima di essere distribuito sul mercato
italiano ed europeo, deve compiere un tragitto di 4200 miglia.
Agli
inglesi, invece, basterà percorrerne mille per portare il loro prodotto dal
Medio Oriente e dai pozzi che controllano nel Mar Nero sino alla raffineria di
Trieste. Gli americani reagiscono con prontezza, firmando una convenzione con
il governo di Roma che avrebbe spalancato il nostro mercato a un’altra società statunitense,
la Sinclair Oil appunto, ‘cugina’ della Standard. ‘I padroni della Sinclair e i
loro compari sono pronti a fare qualsiasi cosa pur di colpire gli interessi
specifici inglesi, come ottenere concessioni o fare accordi di questo genere’
telegrafa al proprio governo l’ambasciata britannica di Washington.
Per i
britannici l’accordo della Sinclair Oil con il governo italiano punta a ledere
i loro interessi. Attraverso il colloquio con il deputato socialista, essi intendono
quindi attirare l’attenzione dell’opposizione italiana sulle manovre che la
loro concorrente d’oltreoceano sta conducendo in combutta con il regime. Che proprio i
documenti ricevuti a Londra da Matteotti siano il movente del suo assassinio,
lo ipotizzano del resto non solo la stampa italiana, ma anche quella britannica
e americana subito dopo la scoperta del cadavere del leader socialista.
‘Si
vuole che l’onorevole Matteotti dovesse pronunziare alla Camera – in sede di
discussione sull’esercizio provvisorio – un discorso di critica alla convenzione
Sinclair’ scrive il ‘Nuovo Paese’, il giornale diretto da Carlo Bazzi. La preoccupazione
negli ambienti politici romani è confermata anche da un’informativa datata 14
giugno 1924 (quattro giorni dopo il sequestro del deputato, ma in un momento in
cui non si sa ancora della sua morte), secondo la quale sarebbero ‘sulla bocca
di tutti le constatazioni che l’onorevole Matteotti possedesse documenti su cui
avrebbe parlato alla Camera e che si riferivano a prove contro il Finzi sugli
affari compiuti per i petroli, per le case da gioco, e altro’.
Adesso
si può capire cosa è successo
Ma torniamo al punto: scoperti gli esecutori materiali e accertati i loro legami con esponenti del regime, restano da individuare i mandanti del delitto. L’implicazione del fratello del duce, di altri esponenti fascisti e della casa reale nell’affare Sinclair farebbe pensare che sia stato direttamente Mussolini a impartire l’ordine di eliminare Matteotti. Ma Mussolini, come abbiamo visto, pur attribuendosi la responsabilità politica e morale di quanto è accaduto, respinge con decisione i sospetti di chi gli addossa la colpa dell’omicidio, scaricandoli di fatto su alcuni gerarchi legati alla massoneria inglese...
Ma torniamo al punto: scoperti gli esecutori materiali e accertati i loro legami con esponenti del regime, restano da individuare i mandanti del delitto. L’implicazione del fratello del duce, di altri esponenti fascisti e della casa reale nell’affare Sinclair farebbe pensare che sia stato direttamente Mussolini a impartire l’ordine di eliminare Matteotti. Ma Mussolini, come abbiamo visto, pur attribuendosi la responsabilità politica e morale di quanto è accaduto, respinge con decisione i sospetti di chi gli addossa la colpa dell’omicidio, scaricandoli di fatto su alcuni gerarchi legati alla massoneria inglese...
(Prosegue...)