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Nel luglio
2016, non molto tempo dopo il referendum sulla Brexit, Donald Trump disse:
‘Putin non
ha intenzione di entrare in Ucraina, potete segnarvelo’.
…L’invasione
russa era cominciata più di due anni prima, nel febbraio 2014, subito dopo che
i cecchini avevano assassinato dei cittadini ucraini sul Maidan.
Fu grazie a
questa serie di eventi che Trump riuscì a procurarsi un manager per la sua
campagna elettorale. Janukovy fuggì in Russia, ma il suo consigliere Paul Manafort
continuò a lavorare per un partito ucraino filorusso per tutto il 2015. Il suo
nuovo datore di lavoro, Blocco Opposizione, era esattamente la parte del
sistema politico ucraino che voleva fare affari con la Russia mentre questa invadeva
l’Ucraina.
Era la transizione
perfetta per il nuovo incarico di Manafort. Nel 2016, si trasferì a New York e
prese in mano la gestione della campagna di Trump. Nel 2014, Trump sapeva che i
russi avevano invaso l’Ucraina. Sotto la guida di Manafort, proclamò
l’innocenza della Russia. Lyndon LaRouche e Ron Paul seguirono la stessa linea:
la Russia non aveva fatto niente di male, ed erano europei e americani che bisognava
incolpare dell’invasione, che forse c’era stata e forse no. Scrivendo su ‘The
Nation’ nell’estate e nell’autunno del 2016, Cohen difese Trump e Manafort, sognando
che un giorno Trump e Putin potessero unirsi per rifare l’ordine mondiale...
…Le fonti
aperte mettevano in luce le interazioni fuori dall’ordinario fra i consiglieri
di Trump e la Federazione Russa…
Non era un segreto
che Paul Manafort, che si unì alla campagna di Trump nel marzo del 2016 e la
guidò da giugno fino a tutto agosto, aveva profonde connessioni di vecchia data
con l’Europa dell’Est. Come manager della campagna di Trump, Manafort non
riceveva nessuno stipendio da un uomo che sosteneva di essere un miliardario,
cosa che risultava alquanto insolita. Magari agiva solo per senso civico. O,
forse, si aspettava che il vero pagamento arrivasse da qualche altra parte.
Tra il 2006
e il 2009, Manafort aveva lavorato per l’oligarca russo Oleg Deripaska con il
compito di ammorbidire gli Stati Uniti di fronte all’influenza politica russa. Manafort
promise al Cremlino ‘un modello che potrebbe giovare molto al governo Putin’ e,
si dice, Deripaska lo pagò ventisei milioni di dollari. Dopo un progetto di investimento
congiunto, Manafort si ritrovò in debito con Deripaska di circa 18,9 milioni di
dollari.
Nel 2016,
mentre Manafort stava lavorando come manager della campagna di Trump, questo
debito era – a quanto pare – una sua fonte di preoccupazione: scrisse per offrire
a Deripaska dei ‘briefing privati’ sulla campagna, e cercò di mettere a frutto
la propria influenza per farsi condonare il debito dall’oligarca russo, nella
speranza di ‘mettere tutto a posto’.
È interessante
notare come l’avvocato di Trump, Marc Kasowitz, rappresentasse anche Deripaska.
A parte il suo precedente lavoro per indebolire gli Stati Uniti per conto della
Russia, Manafort aveva anche esperienza nel far nominare presidenti i candidati
preferiti dai russi.
Nel 2005,
Deripaska lo raccomandò all’oligarca ucraino Rinat Achmetov, che era un sostenitore
di Viktor Janukovy . Nella sua attività in Ucraina tra il 2005 e il 2015,
Manafort usò quella stessa ‘strategia del Sud’ che i repubblicani avevano
sviluppato negli Stati Uniti negli anni Ottanta: dire a una parte della
popolazione che la sua identità è a rischio e, quindi, tentare di trasformare
ogni elezione in un referendum sulla cultura. Negli Stati Uniti il destinatario
di questo messaggio erano i bianchi del Sud, mentre in Ucraina era la comunità
russofona, ma l’appello era lo stesso.
Nel 2010, Manafort
riuscì a far eleggere Janukovy alla presidenza, anche se in seguito ci
sarebbero state una rivoluzione e l’invasione russa. Dopo aver portato le
tattiche americane nell’Europa dell’Est, Manafort portò le tattiche dell’Europa
dell’Est negli Stati Uniti. Come manager della campagna di Trump, supervisionò l’importazione
della fiction politica in stile russo. Fu durante il suo incarico che Trump
dichiarò a una televisione che la Russia non avrebbe invaso l’Ucraina (due anni
dopo che l’aveva fatto); e fu sempre sotto lo sguardo di Manafort che Trump
chiese pubblicamente alla Russia di trovare e pubblicare le email di Hillary
Clinton.
Manafort dovette
dimettersi dal suo incarico dopo che emerse che aveva ricevuto in nero da
Janukovy 12,7 milioni di dollari in contanti. Fino all’ultimo, Manafort mostrò
il tocco di un vero tecnologo della politica russo, non tanto negando i fatti
quanto cambiando l’argomento e trasformandolo in una spettacolare finzione. Il
giorno in cui venne a galla la storia dei suoi pagamenti in nero, il 14 agosto
2016, Manafort aiutò la Russia a divulgare una storia del tutto inventata su un
attacco condotto dai terroristi islamici contro una base della NATO in Turchia.
Manafort
venne rimpiazzato come manager della campagna dal produttore cinematografico e ideologo
di destra Steve Bannon, la cui qualifica consisteva nell’aver fatto entrare i
suprematisti bianchi nel mainstream del dibattito americano.
Come
direttore del Breitbart News Network, Bannon aveva fatto conoscere i loro nomi
al grande pubblico. I principali esponenti del razzismo americano erano unanimi
nella loro ammirazione per Trump e Putin. Matthew Heimbach, un difensore dell’invasione
russa dell’Ucraina, parlò di Putin come del ‘leader delle forze anti-globaliste
di tutto il mondo’, e della Russia come del ‘più potente alleato’ della supremazia
bianca e come di un ‘asse per i nazionalisti’. Heimbach era talmente entusiasta
di Trump che, durante un comizio di quest’ultimo a Louisville, nel marzo del
2016, spinse via con violenza un contestatore (al processo, la sua difesa
sostenne che aveva agito su istruzioni di Trump).
Bannon sosteneva
di essere un nazionalista economico e, pertanto, un difensore del popolo;
tuttavia, doveva la sua carriera e la sua impresa mediatica a un clan
oligarchico americano, i Mercer, e guidò una campagna per portare un altro clan
oligarchico, i Trump, alla Casa Bianca (collaborando con un uomo che aveva
aiutato ad aprire gli Stati Uniti a contributi elettorali illimitati in una causa
legale sponsorizzata da un terzo clan oligarchico americano, i Koch).
L’ideologia
di estrema destra di Bannon agevolava l’oligarchia americana, come idee simili
avevano fatto nella Federazione Russa. Bannon era una versione molto meno
sofisticata ed erudita di Vladislav Surkov; mancava di strumenti intellettuali
adeguati e veniva battuto con facilità nei confronti. Portando avanti il gioco della
Russia a un livello terra-terra, si assicurò che la Russia vincesse. Al pari
degli ideologi russi che vedevano il richiamo ai fatti come una tecnologia
nemica, Bannon parlava dei giornalisti come del ‘partito di opposizione’. Non negava
la verità delle affermazioni fatte contro la campagna di Trump; non smentì, per
esempio, che Donald Trump avesse atteggiamenti sessuali predatori. Ciò che
faceva, invece, era rappresentare i giornalisti che mettevano in luce i fatti
rilevanti come dei nemici della nazione.
I film di
Bannon erano semplicistici e privi di interesse in confronto alla letteratura
di Surkov o alla filosofia di Il’in, ma l’idea di base era la stessa: una
politica dell’eternità nella quale la nazione innocente si ritrova sempre sotto
attacco.
Come i suoi
amici russi più brillanti, Bannon si dedicò alla riabilitazione di fascisti
dimenticati, nel suo caso Julius Evola. Come Surkov, puntava a seminare confusione
e oscurità, anche se i suoi riferimenti erano un po’ più banali:
‘L’oscurità
è una buona cosa. Dick Cheney. Darth Vader. Satana. Questo è potere’.
Bannon era
convinto che ‘Putin sostiene le istituzioni tradizionali’; di fatto, però, la
presunta difesa russa della tradizione era un attacco agli Stati sovrani
dell’Europa e alla sovranità degli Stati Uniti d’America. La campagna
presidenziale guidata da Bannon rappresentava a sua volta un attacco russo
contro la sovranità americana. Bannon se ne rese conto in seguito: quando
apprese di un incontro tra i vertici della campagna di Trump e i russi avvenuto
nella Trump Tower nel giugno del 2016, lo definì come un ‘tradimento’ e qualcosa
di ‘non patriottico’. In fin dei conti, però, Bannon era d’accordo con Putin
nel ritenere che il governo federale degli Stati Uniti (e l’Unione Europea, da
lui definita ‘un protettorato dall’importanza ingigantita’) dovesse essere distrutto.
Per
l’intera durata della campagna, a prescindere dal fatto che a capo ci fossero
formalmente Manafort oppure Bannon, Trump fece affidamento su suo genero, l’imprenditore
immobiliare Jared Kushner. A differenza di Manafort, che aveva una storia, e di
Bannon, che aveva un’ideologia, gli unici collegamenti di Kushner con la Russia
erano il denaro e l’ambizione. Il modo più facile per seguire questi
collegamenti consiste nel prender nota dei suoi silenzi. Dopo la vittoria di
suo suocero alle elezioni, Kushner dimenticò di menzionare che la sua società,
la Cadre, aveva ricevuto un pesante investimento da parte di un russo le cui
compagnie avevano incanalato miliardi di dollari su Facebook e 191 milioni di
dollari su Twitter per conto dello Stato russo.
Vale anche la
pena di notare che la Deutsche Bank, che aveva riciclato miliardi per gli
oligarchi russi e che era l’unica banca ancora disposta a prestare soldi al
suocero di Kushner, concesse a quest’ultimo un prestito di 285 milioni di
dollari solo poche settimane prima delle elezioni presidenziali. Dopo che suo
suocero era stato eletto presidente, e dopo aver ottenuto un’ampia gamma di responsabilità
alla Casa Bianca, Kushner dovette fare domanda per un nullaosta di sicurezza.
Nella sua documentazione, non menzionò nessun contatto con funzionari russi. Di
fatto, però, nel giugno del 2016 aveva preso parte a un incontro alla Trump
Tower, assieme a Manafort e Donald Trump Jr., durante il quale Mosca aveva
offerto alla campagna di Trump dei documenti come parte (per citare le parole
del loro intermediario) dell’appoggio della Russia e del governo russo a Trump….
(T. Snyder,
La paura & la Ragione)
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