CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 28 aprile 2012

IL SUPERUOMO (che fu e sarà)














Prosegue in il super-uomo nel west:


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Il superuomo è la figura che nell'evo moderno si viene profilando nella misura
dell'odio alla Cristianità (ed ad ogni forma spirituale di approccio alla vita dif-
ferente al Cristianesimo...).
E' anche il polo opposto all'altra idea, anch'essa non cristiana, dell'umanità
come consorzio di uguali, contraria al peccato originale e anche alla conce-
zione d'un paradiso dove la grazia non piova d'un modo.


























Superuomo e Uguale sono in Occidente una coppia indissolubile: la solida-
rietà occulta delle due idee nemiche, superumanità e uguaglianza, e pari alla
furia dei loro conflitti visibili; suscitano e scontano le colpe l'uno dell'altra.
Coppia satanica, se mai ve ne fu, bene la effigia la Coppia archetipica di
Blake, bene la ricordano quei ritmi atroci:


Quando l'infante nasce maschio
A una vecchia decrepita è dato,
Lei l'inchioda a una roccia,
Le urla ne raccoglie in tazze d'oro.


Di ferree spine il capo gli cinge,
Gli fora le mani e i piedi,
Via ne taglia dal fianco il cuore,
Per infondergli gelo e calore.


Con le dita ciascun nervo gli conta,
Come calcola l'avaro i suoi ori;
Vive dei suoi urli e dei suoi pianti,
E in giovane si muta quando cresce.


Finché egli diventa un sanguinoso ragazzo
Ed ella diventa una vergine radiosa;
Allora, infrante le manette, egli sorge 
E, per trarne piacere, in ceppi la lega.

Così il fatto che il Superuomo e la sua grigia ombra, la sua femmineità,
l'Uguale, si alternino nella reciproca persecuzione, lunga prevedibilmente
quanto la dialettica dell'Illuminismo, di cui questo è un quadro vivente fra
i principali.


























Ma il superuomo si può anche definire di là dalla sua nascita storica e dalla
sua immanente contrapposizione al santo. Ce n'è una definizione alternativa,
metastorica: il superuomo moderno è colui che pretende di trarre vita, esal-
tata di tono e irrobustita di nerbo, dalla distruzione d'ogni casta spirituale,
d'ogni vocazione autonoma e specifica: quella al sacerdozio o quella alla ten-
zone o quella infine all'opera produttiva e amorosa, la triade dei primordi e
d'ogni possibile umanità che si voglia platonica.



























Il superuomo pretende di unificare tutt'e tre in un unico, supremo destino, e
non a caso sarà un destino di distruzione e rovina. Il guerriero cacciatore,
dominatore di sé e ricco d'imperio, protegge e regge il coltivatore artigiano,
devoto alle forze della feracità (anima ideale); fra i due media il conoscitore
dei cieli e dei tempi, il vate sacerdote.
Così l'atmosfera corsa dei venti sovrasta la terra fertile e su entrambe s'inar-
ca la volta di pura luce; così il rosso sta al verde e a questi il bianco o il ce-
leste.
Il superuomo vorrebbe spezzare l'armonia dei diversi in un selvaggio uniso-
no.
Ma c'è di più.



















A queste tre forme archetipiche dell'esistenza alla Triade, si accompagna il
Quattro, che come casta è quella nera, che sta ai margini, l'Ordine dei fabbri,
maledetti signori del fuoco, gli azzoppati.
Il superuomo moderno è ben colui che riduce a unità la triade e la quaterni-
tà, in un certo senso è la vittoria disastrosa del quarto escluso. Perciò i
congegni, che sono incudine, martello e mantice dilatati e complicati, sono
il suo emblema; non a caso è così fatale la sua menomazione o storpiatura
o ferita fabbrile.


























Egli non rinuncia sacerdotalmente al corpo, alla voluttà della terra; non di-
fende come il guerriero una madreterra e un culto; non si china come il buon
coltivatore alla virtù temperante e all'ascesi sacerdotale. Eppure vorrebbe
carpire i doni di tutt'e tre, vorrebbe essere monaco-sacerdote, guerriero
e operaio, e dei tre non è nessuno, vorrebbe infine imporre su tutto il mar-
chio del fabbro, gloriarsi del carico di esecrazione e di potenza della casta
sinistra.
Superuomo è colui che non ha destino per aver voluto usurpare tutti i des-
tini insieme; vuole la contraddizione, vuol essere di chiaro colore e di tinta
fosca. Ecco perché mai si distingue dalla sua livida ombra, l'Uguale, il
senza casta e senza fato.
Si metta alla prova questa definizione, si vedrà come semplicemente si a-
datti ai casi che le lettere e i tempi hanno proposto.
Il superuomo è fatale che riemerga.
(E. Zolla, Uscite dal mondo)












  

mercoledì 25 aprile 2012

25 APRILE: IN ATTESA DEL SECONDO FRONTE














Precedenti capitoli:

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La nostra prima immagine della Francia, dal guardacoste americano adibito al
trasporto di truppe con cui stavamo attraversando la Manica, fu illuminata da-
gli scoppi delle granate antiaeree che esplodevano nella notte sulla Normandia.
Era da poco passata l'una del giorno 'D', e i paracadutisti in quel momento sta-
vano cominciando a toccare terra, mentre i loro aerei venivano investiti da una
pioggia di granate incandescenti e di proiettili grossi come uova.
Un aereo cadde, poi ne cadde un'altro, poi un altro ancora: dalla nostra nave
si potevano vedere benissimo, e i soldati se ne stavano ritti in piedi nel buio,
scuri in volti e addolorati.































Il guardia coste gettò l'ancora a una ventina di chilometri da terra, e all'alba,
dopo un terrificante bombardamento navale e aereo delle spiagge, ci trasferim-
mo sui mezzi da sbarco, che sprofondavano nel ventre delle onde e poi veni-
vano lanciati due o tre metri in alto sulle creste dei flutti.
Dovevamo saltare da una scaletta sdrucciolevole alla copertura di un bocca-
porto, sporco di grasso: era un salto da calcolare con estrema cura.
A destra e a sinistra, davanti e dietro a noi, si ripeteva a perdita d'occhio la
stessa scena: una quantità crescente di navi stracolme di uomini e di materiali
attendevano pazientemente di essere scaricate.





















Il mare pullulava di piccole imbarcazioni, che facevano la spola avanti e indie-
tro e si raggruppavano vicino alle murate delle grosse navi. Intanto, il cielo
sopra di noi era coperto da veri e propri strati di aerei, uno sopra l'altro.
Superammo le navi da guerra che bombardavano la costa, e scorgemmo le
colonne d'acqua sollevate dalle granate nemiche che cercavano di colpirle.
La spiaggia stava diventando un inferno: il fumo che ne saliva sembrava quasi
solido, e vampate roventi di luce bianca o arancione si accendevano qua e là.
Poi la guerra colpì proprio davanti a noi, con una tremenda zampata.































Ci fu un grande scoppio, che scagliò fumo grigio e acque bianche a decine di
metri di altezza. Nel centro dell'esplosione, un dragamine colpito a morte spro-
fondò con la prua e rimase lì inclinato, perdendo il suo petrolio a grandi fiotti,
come fosse il sangue di un'arteria tagliata.
Poi si raddrizzò e giacque immobile, emettendo le grandi bolle d'aria delle na-
vi che muoiono. Ci fermammo per raccogliere i superstiti, e raggiungemmo per
primi quelli che erano stati lanciati più lontano dall'esplosione: erano tutti morti.
- Lasciate perdere i morti, raccogliete i vivi,
urlava il tenente John Tipson.






















Poi cominciammo a udire delle grida:
- Aiuto! Aiuto!;
provenivano da tutte le direzioni, e in quell'immenso mondo di acque parevano
voci esili e infantili.
Qualcuno implorò:
- Vi prego, aiutatemi!
un grido patetico che ci fece trasalire.
John Tipson era un ragazzo grande e grosso che aveva giocato a rugby con i
'Lions' di Detroit. La sua forza si dimostrò assai utile in quella circostanza.
Bagnati com'erano e con tutto quello che avevano addosso, i soldati che erano
finiti in acqua arrivavano a pesare anche 140 chili: eppure John, tenendosi con
una mano al mezzo di sbarco, allungava l'altro braccio e li tirava su con un col-
po solo.






















Ne ripescammo sei, due dei quali perfettamente illesi; ma raccogliemmo solo i
vivi, lasciando i morti alla deriva, come relitti, nel mare indifferente. Vedemmo
un uomo completamente nudo: l'esplosione gli aveva strappato tutto di dosso,
comprese le calze e le scarpe, e il suo corpo pareva coperto di staffilate, come
se fosse stato battuto con un gatto a nove code.
Sulla prima spiaggia in cui sbarcammo, l'aria era pulita, dolce, marina.
Grandi stormi di gabbiani calarono su di noi, protestando contro l'invasione a-
mericana con una cascata continua di note acute. Quel paesaggio nudo aveva
una forza, una bellezza selvaggia e ventosa: ma la morte era in agguato ovunque.
I tedeschi avevano minato tutta la spiaggia, centimetro per centimetro.






















I nostri soldati erano riusciti a sminare solo alcuni stretti passaggi, e l'operazione
era costata 17 feriti e un morto. Su quelle piste dovevano camminare, dormire,
mangiare e lavorare: camminando, mettevano un piede davanti all'altro con pre-
cauzione; per dormire, si preparavano una fila di pietre a destra e una a sinistra
per impedirsi di rotolare durante il sonno.
Noi sbarcammo nel primo pomeriggio: il vento stava calando, e dappertutto si
liberavano nuvole di fumo grigio e nero, sospese nella brezza ormai debole.
Quel fumo proveniva dagli aerei abbattuti che bruciavano, dalle mine che i re-
parti di demolizione facevano esplodere, dai cannoni americani e dalle granate
tedesche: la terra stessa sembrava ardere.





















Dal mare proveniva un flusso continuo di soldati, che subito si mettevano al la-
voro: scavavano, martellavano, guidavano scavatrici o autocarri, organizzavano,
davano ordini, controllavano, sparavano e si facevano sparare addosso.
Intanto, fra i boati dell'artiglieria e le scariche di mitragliatrice, fra i sibili e gli scop-
pi delle granate, si poteva distinguere il paziente ticchettio delle macchine da sci-
vere, e il trillo dei telefoni: suoni così familiari e quotidiani.
Scorsi dei prigionieri tedeschi che scendevano verso la spiaggia su un lato di una
strada, mentre le nostre truppe d'assalto andavano nell'altra direzione, sull'altro
lato. Gli Americani avevano lo strano sguardo intento degli uomini che stanno per
andare a combattere, ma era bello vederli marciare.




























- Dove stai andando?
domandai a uno di loro.
- Non lo so,
rispose.
- Seguo quelli che sono davanti a me.
Anche i soldati davanti a lui seguivano quelli che erano più avanti ancora, e alla
fine arrivai all'uomo che era in testa alla colonna.
- Sto seguendo l'altra colonna,
mi disse.
Scoppiammo a ridere tutti e due, ma il suo era un riso allegro, soddisfatto.
- Vede,
mi spiegò,
- non è stupido come sembra. Qui tutti abbiamo la stesa idea, e perciò basta che
seguiamo chi ci sta davanti per arrivare dove c'è qualcosa da fare.
Basta seguire la colonna....
(Ira Wolfert, Un giorno in Normandia)












martedì 24 aprile 2012

GREGORIO DI NAZIANZO: CONTRO GIULIANO (e in difesa di Costanzo)














Precedenti capitoli:


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Che è questo, o sovrano sommariamente vicino a Dio e amante di Cristo?
Mi spiego sino a rimproverarti come se tu fossi presente e mi ascoltassi,
anche se so bene che sei molto al di sopra delle nostre critiche, posto ac-
canto a Dio e partecipe della gloria di lassù dopo essere dipartito per pas-
sare da un regno ad un altro: che è mai questa decisione che hai preso, tu
che per intelligenza e perspicacia hai superato di molto tutti i re, non solo
tuoi contemporanei, ma anche delle età anteriori?


























Tu hai ripulito dai barbari tutto intorno e all'interno hai sottomesso gli usur-
patori, alcuni con la forza delle parole, altri con le armi, compiendo ciascuna
di queste cose come se non fossi per niente turbato dall'altra; tu hai riportato
grandi trionfi con le armi in battaglia, ma ancora più grandi e gloriosi senza
spargimento di sangue; verso di te da ogni parte si dirigevano ambascerie
e suppliche; a te ciò che non era sottomesso stava per sottomettersi e tutto
quel che si sperava era come se l'avessi già in pugno; tu eri guidato dalla
mano di Dio in ogni decisione e in ogni azione; di te non si sapeva se ammi-
rare più la forza o l'intelligenza, ma più ancora della buona reputazione in
entrambe, la pietà.



















Com'è dunque che solo in questo caso sei apparso stolto e imprevidente
(nel difendere questa bestia pagana signore del demonio)?
Perché quella fretta della tua 'disumana filantropia' (cosa vuol dirmi nel se-
greto di quei brevi accenni, quella bestia ....che marcirà all'inferno!)?
Come hai potuto in così poco tempo, in breve volgere di avvenimenti, con-
segnare senz'altro all'assassino di noi tutti la grande eredità, vanto di tuo
padre, voglio dire coloro che prendono il nome da Cristo, il popolo che ha
diffuso la sua luce in ogni parte del mondo abitato, il sacerdozio regale,
cresciuto con grandi sforzi e grandi fatiche?






















Forse vi sembra, o fratelli, che io manchi di rispetto e mi comporti da ingrato
con questi miei discorsi, perché non aggiungo subito alle parole dell'accusa
quelle della verità.
Tuttavia l'ho difeso abbastanza e per mezzo delle stesse espressioni con cui
l'ho accusato, se prestate attenzione all'accusa, e solo in questo caso la re-
quisitoria porta con sé l'assoluzione: parlando della sua bontà, ho già mostrato
la difesa.
Chi ignora, infatti, anche tra coloro che lo hanno conosciuto mediocremente,
che per la pietà e per l'amore verso di noi e la volontà di farci tutto il bene
possibile, non solo avrebbe messo da parte quell'uomo, ma anche l'onore
dell'intera famiglia o la crescita dell'impero e avrebbe dato senza difficoltà
perfino il trono stesso e tutti i beni e la vita stessa, della quale niente è più
prezioso per nessuno, in cambio della nostra salvezza e sicurezza?


























Ma, come ho detto, la semplicità è mancanza di difese, la filantropia com-
porta debolezza, e ciò che è libero dal male non sospetta mai il male.
Per questo non fu previsto quello che sarebbe successo, la finzione non fu
scoperta, a poco si fece strada l'empietà e due buone disposizioni d'animo
si scontrarono: quella verso il popolo dei fedeli e quella verso l'uomo fra
tutti più empio e nemico di Dio.
E lui, che cosa rimproverò ai cristiani, che cosa non poté approvare delle
nostre dottrine, che cosa di quelle dei Greci considerò eccellente e incon-
futabile con la ragione, seguendo quale esempio se rese famosissimo per
l'empietà e gareggiò in modo davvero insolito con colui che l'aveva eleva-
to al trono?


























Poiché non gli era possibile superarlo nella virtù e nelle buone azioni, cercò
di apparire superiore per il contrario, una smisurata empietà e un'ambizione
verso il peggio. Per quanto riguarda i cristiani e davanti ai cristiani tale è
dunque la difesa di Costanzo, e così giusta per coloro che hanno intelligenza.
Ma dato che ci sono alcuni che, se anche ci liberano da questa accusa non
lo assolvono dall'altra, ma lo incolpano di ingenuità per avere affidato il po-
tere all'uomo più malevolo e nemico e di averlo prima ostile e poi potente,
avendo posto le basi dell'inimicizia con l'uccisione del fratello e creata poi
la potenza con l'assunzione al trono, è necessario discorrere in breve anche
di questo e mostrare che la sua filantropia non fu affatto irragionevole, né
estranea alla grandezza d'animo e alla previdenza di un re.





















Io in realtà mi vergognerei se, avendo noi ricevuto da lui tanti onori ed es-
sendo convinti della sua straordinaria pietà, non lo difendessimo giustamen-
te. E questo noi, servitori del Logos e della Verità, conviene che lo faccia-
mo anche per coloro che in nulla ci hanno beneficiato; e ciò tanto più dopo
la sua dipartita, quando non corriamo il rischio di sembrare degli adulatori
e il discorso è libero da ogni cattivo sospetto.
(Gregorio di Nazianzo, Contro Giuliano l'Apostata)

















sabato 21 aprile 2012

L' 'ERACLIO' DELLA STORIA















Prosegue in:

http://dialoghiconpietroautier.myblog.it/archive/2012/04/21/l-eraclio-della-storia-2.html








Apprendo da un minuscolo articolo a piè di pagina del sacrificio di altri due monaci tibetani

(http://www.savetibet.org/media-center/ict-news-reports/two-young-tibetan-men-self-immolate-together).

....Apprendo....., cosa 'apprendo' da questo mondo, da questo Universo, .....
da questo cielo.
...Ricordo..., forse un termine più consono, più reale.
Forse comprendo che la storia è motivata non dalle ragioni dello spirito, ma dal peggior
istinto materiale. Dal più rozzo istinto non della sopravvivenza..., ma della ricchezza.
L'anima aimé, fra i tanti pellegrinaggi della prigionia dell'esistenza..., vaga.
Millenni, secoli, finché il ciclo delle infinite rinascite e morti, può essere, in qualche modo
interrotto.
Vi è qualcosa di eretico in seno a questo concetto?
(Non so, io che ho letto e scritto molto, rimango nella costante ricerca della verità. Tu
che nulla hai compreso, ma signore di ogni segreto, di che cosa hai nutrito il nostro spirito
inquieto?)
Il Primo Dio fuori dal mondo....
Il Secondo fa' di conto....!
Ragione per cui, noi eretici di ogni storia, combattiamo contro la materia.
Ragione per cui noi esuli di fronte all'ingiustizia della memoria, che non ricorda....nessuna
storia, abbiamo il nostro 'Eraclio' ...in ogni epoca di questa 'lugubre memoria'.
Ragione per cui, io che non ho voltato le spalle ad ogni popolo...vittima innocente dell'
inquisizione della storia..., dedico questo eterno dialogo scritto nel 'sé' della nostra Prima
Memoria.
Ricordando ad ogni viandante, pellegrino, trafficante ..., o Eraclio..., eterno padrone del-
la geografia e della storia (giammai infinita), che noi siamo eretici della verità per sempre
taciuta, di cui lui è padrone e signore di ogni storia.
Lui è l'eterno 'Eraclio' vestito e mascherato, ora da Grande Sovrano, Re, Politico, Scienziato
Scrittore e ciarlatano, ma sempre Eraclio ...l'Inquisitore di Stato....



























.....In questo dire, e per quello che ha appena udito e detto,
Eraclio palesa una scintilla di orgoglio ritrovato.
Dall'umiltà è scivolato verso il fuoco del suo opposto, che del gelo apparente sembrava
aver rivestito l'intera abbazia.
Ora il fuoco, non della conoscenza, ma quello purificatore dell'orgoglio ferito entro i li-
miti della cultura che rappresenta, impongono questa cruenta medicina. Non è proprio
una medicina, ma il lento convincimento che la verità debba essere ricondotta al porto
della ragione comune.


















Anche se in tal porto, essa per il vero non viene celebrata, la comunità esige la cura sa-
crificale. Non consapevole chiede il sacrificio, per ogni verità donata.
Se Eraclio non convenisse in questa tacita affermazione di potere, la sua Chiesa e non
solo, ma l'intero ordine, crollerebbero.
Il suo grande edificio curato con tanta costanza nei secoli (e millenni) sarebbe ad un trat-
to demolito. Ed il potere il quale con tutta l'umiltà concessa rappresenta, non permette
una eresia del genere.



















Il grande dono nel suo inganno, è nel lento convincimento di una oscura malattia.
Di un male che non appartiene a nessuno dei partecipanti di questo macabro processo
in rappresentanza di una più vasta comunità.
Mali che nessuno predica, prega, canta, recita, compone.
Quindi i pochi che ne sono affetti vanno curati nella giusta misura di un patimento, che ...
no... non è tortura!
Ma l'estirpare quel Demoniaco che si è impossessato delle membra.
Quella bestia deve essere scacciata, al pari di un lupo, Eraclio è il secolare guardiano
del gregge. Ed il lupo se non può essere addomesticato, per il bene dell'intera comunità
deve essere abbattuto.




















Per cui Eraclio non deve far altro che indicare ai carnefici il medicamento, di modo che,
nel favore fatto a Pietro, si bonifichi l'anima ammalata. E nel farlo, si giunge a quello che
è il segreto sognare di 'fratello Eraclio'. Tutti i peccati in tal modo vengono purgati con
l'invenzione del peccato e con essi, forse, anche i sogni che appartengono a 'fratello
Eraclio'.
Sogni mai confessati, perché la comunità da lui patrocinata è ligia ad ogni regola morale
impartita e comandata.
Ogni sermone e ogni precetto hanno il loro beneficio, perché nel reprimere, Eraclio, ot-
tiene il consenso del terrore tacito che rappresenta la sua istituzione.
Se non vi fosse terrore e regola, la sua antica disciplina si perderebbe nei mari di una
oscura pazzia, che sembra ora governare 'fratello Pietro'.
Ragione per cui, Pietro incarna solo l'animo dell'inquisitore, il quale costantemente nella
ragione del potere tramandato da secoli, violenta la società che sottomette.
Il patto con il potere precostituito è tacito e sottinteso.






















Il potere dei feudi consolida e tutela quello che incarna Eraclio, in segreto accordo.
L'uno si appoggia all'altro per la tirannia che debbono rappresentare (mascherata da
progresso).
Non avrebbero pretesa di governo e tacita sottomissione di tutta la plebe comandata,
alla pari di quelle 'bestie' che ora nomina con tanto fervore (e per sempre debbono es-
sere liberate da qualcosa).
Di quelle 'bestie' che provvedono al suo nutrimento, alla sua ricchezza, alla gloria delle
sue 'Chiese'. Quelle 'bestie' taciute alla verità del Dio che pregano per il terrore che
dalla potenza del gesto si possa ristabilire l'antico ordine, immutato nella cenere purifi-
catrice di Eraclio.
Tutte quelle 'bestie' che governa ed accudisce da anni, da secoli.
Il suo gregge, dal quale proviene tutta la pecunia di Eraclio.
E se il lupo si appresta all'ovile, il danno che prefigura Eraclio è ingente.
L'ordine morale delle cose e la ragione del Tempo stesso sovvertite.
Eraclio è il potere e sopravvive grazie ad esso, continuato e diluito nella medesima
sostanza dove per sempre è celebrato a dispetto di qualsiasi ragione.
(Giuliano Lazzari, Dialoghi con Pietro Autier)











      



venerdì 20 aprile 2012

NOVANT'ANNI FA



















Ad ogni passo del suo cammino Siddharta imparava qualcosa di nuovo,
poiché il mondo era trasformato e il suo cuore ammaliato.
Vedeva il sole sorgere sopra i monti boscosi e tramontare oltre le lonta-
ne spiagge popolate di palme.
Di notte vedeva ordinarsi in cielo e le stelle, e la falce della luna galleggiare
come una nave nell'azzurro.
Vedeva alberi, stelle, animali, nuvole, arcobaleni, rocce, erbe, fiori, ruscelli
e fiumi; vedeva la rugida luccicare nei cespugli al mattino, alti monti azzurri
e diafani nella lontananza; gli uccelli cantavano e le api ronzavano, il vento
vibrava argentino nelle risaie.





















Tutto quello era sempre esistito nei suoi mille aspetti variopinti, sempre era-
no sorti il sole e la luna, sempre avevano scrosciato i torrenti e ronzato le
api, ma nel passato tutto ciò non era stato per Siddharta che un velo effime-
ro e menzognero calato davanti ai suoi occhi, considerato con diffidenza e
destinato a essere trapassato e dissolto dal pensiero, poiché non era realtà:
la realtà era al di là delle cose visibili.
Ma ora il suo occhio liberato s'indugiava al di qua, vedeva e riconosceva
le cose visibili, cercava la sua patria in questo mondo, non cercava la....
'Realtà', né aspirava ad alcun al di là.





















Bello era il mondo a considerarlo così: senza indagine, così semplicemente,
in una disposizione di spirito infantile.
Belli la luna e gli astri, belli il ruscello e le sue sponde, il bosco e la roccia,
la capra e il maggiolino, fiori e farfalle.
Bello e piacevole andar così per il mondo e sentirsi così bambino, così...
risvegliato, così aperto all'immediatezza delle cose, così fiducioso.
Diverso era ora l'ardore del sole sulla pelle, diversamente fredda l'acqua
dei ruscelli e dei pozzi, altro le zucche e le banane.
Brevi erano i giorni, brevi le notti, ogni ora volava via rapida come vela sul
mare, e sotto la vela una barca carica di tesori, piena di gioia.
Siddharta vedeva un popolo di scimmie agitarsi su tra i rami nell'alta volta
del bosco e ne udiva lo strepito selvaggio e ingordo.





















Siddharta vedeva un montone inseguire una pecora e congiungersi con lei.
Tra le canne di una palude vedeva il luccio cacciare affamato verso sera:
davanti a lui i pesciolini sciamavano a frotte rapidamente, guizzando e ba-
lenando fuor d'acqua impauriti; un'incalzante e appassionante energia si
sprigionava dai cerchi precipitosi che l'impetuoso cacciatore tracciava nel-
l'acqua.
Tutto ciò era sempre stato, ed egli non l'aveva mai visto: non vi aveva mai
partecipato. Ma ora sì, vi partecipava e vi apparteneva.
Luce e ombra attraversavano la sua vista, le stelle e la luna attraversavano
il cuore.





















Cammin facendo Siddharta si ricordò anche di tutto ciò che gli era succes-
so nel giardino Jetavana, della dottrina che vi aveva ascoltato, del Buddha
divino, della separazione da Giovinda, della conversazione con il Sublime.
Gli ritornavano alla mente le sue stesse parole, quelle che aveva detto al
Sublime, ogni parola, e con stupore si accorgeva che in quella occasione
aveva detto cose di cui, allora, non aveva ancora esatta coscienza.
Ciò ch'egli aveva detto a Gotama: che il segreto e il tesoro di lui, del Bud-
dha, non era la dottrina, ma l'inesprimibile e ininsegnabile ch'egli una volta
aveva vissuto nell'ora della sua illuminazione, questo era appunto ciò che
egli cominciava ora a esperimentare.
Di se stesso doveva far ora esperienza.





















Già da un pezzo s'era persuaso che il suo stesso Io era l'Atman, di natura
ugualmente eterna che quella di Brahma. Ma mai aveva realmente trovato
questo suo Io, perché aveva voluto pigliarlo con la rete del pensiero.
Anche se il corpo non era certamente quest'Io, e non lo era il gioco dei
sensi, però non era l'Io neppure il pensiero, non l'intelletto, non la saggez-
za acquisita, non l'arte appresa di trarre conclusioni e dal già pensato de-
durre nuovi pensieri.
No, anche questo mondo del pensiero restava di qua, e non conduceva
a nessuna meta uccidere l'accidentale.
Io dei sensi per impinguare il non meno accidentale.
Io del pensiero.





















Belle cose l'una e l'altra, il senso e i pensieri, dietro alle quali stava nascosto
il significato ultimo; a entrambe occorreva porgere ascolto, entrambe occor-
reva esercitare,entrambe bisognava guardarsi dal disprezzare o dal soprav-
valutare, di entrambe occorreva servirsi per origliare alle voci più profonde
dell'Io.
A nulla egli voleva d'ora innanzi aspirare, se non a ciò cui la voce gli coman-
dasse d'aspirare, in nessun luogo indugiarsi, se non dove glielo consigliasse
la voce.....
(Herman Hesse, Siddharta)














mercoledì 18 aprile 2012

SESSANT'ANNI FA













Prosegue in:


 http://dialoghiconpietroautier.myblog.it/archive/2012/04/19/un-monastero.html &

 http://paginedistoria.myblog.it/archive/2012/04/19/un-monastero-2.html






Un manoscritto tibetano di Tuen-huang intitolato 'Esposto sul cammino 
del morto', descrive le direzioni da evitare, come tali figurando anzitutto 
quella verso il 'Gran Inferno' che si trova ottomila 'yojana' al di sotto 
della terra e il cui centro è fatto di ferro incandescente.
'All'interno della casa di ferro in inferni d'ogni specie, legioni di demoni 
torturano ed affliggono bruciando, arrostendo e facendo a pezzi'.







Vorrei adesso descrivere il Kar-gyu gompa (il monastero Kar-gyu).
Non è grande, non è molto antico, non è celebre meta di pellegrini e non è un
organismo il cui capo abbia importanza politica, ma appunto per questo è forse
più interessante; è il monastero qualunque; uno come ve ne sono tanti a centina-
ia, nel paese delle nevi.
Ci vivono circa sessanta monaci, compresi i seminaristi che sono una trentina.
E sulle pareti dei suoi templi e delle sue cappelle compaiono raffigurati, in affres-
chi od in sculture, circa 280 divinità diverse.





















Il Kar-gyu gompa consiste di varie costruzioni erette sopra un limitato ripiano,
nel pendio generale del monte, dove si levano alcuni alberi fronzuti, avanzo di
foreste che dovevano rivestire un tempo quei luoghi. La valletta è sacra da se-
coli, ma il monastero è recente.
Dinanzi all'ingresso c'è una fontana dove gli animali si fermano a bere.
Si ricordi che nell'universo buddista ci sono 'esseri viventi', e che nessuna distin-
zione categorica separa il mondo animale da quello umano. Tutti sono degni della
finale salvazione, tutti sono santi in potenza.
















L'animale è semplicemente un essere più limitato dell'uomo, una coscienza meno
individuata e tutta presa dalle necessità elementari ed abbrutenti del cibo, del son-
no, della riproduzione; ma scintilla, l'essenza, che oggi dorme in un bue o in un
mulo, domani brillerà in un uomo o si farà luce cosmica in un Budda.
La storia del mondo è dunque fondamentalmente ottimista; non v'è distinzione
finale di eletti o reietti, né tantomeno predestinazione calvinista. O piuttosto pre-
destinazione c'è, sì, ma nel senso che, alla fine delle fini, dopo fiumi di millenni,
ogni essere verrà illuminato, sarà Budda e si dissolverà nel tutto.







































L'acqua della fontana fa ruotare, scorrendo, un mulino delle preghiere e questo
ad ogni giro tocca un campanino dalla voce allegra ed acuta.
Il mulino vero e proprio consiste in un cilindro alto mezzo metro, rivestito di tela,
su cui sono dipinte in oro delle lettere sanscrite. Dentro stanno innumerevoli stri-
sce di carta strettamente arrotolate con migliaia di formole impresse a xilografia.
La formula più comune è quella celebre: 'Om Mani Padme Hum', che usualmente
viene tradotta così: 'Om (salve), Mani (o gioiello), Padme (nel fiore di loto), Hum
(salve).


















Il gioiello, secondo l'interpretazione corrente, sarebbe 'chen-re-zi', ossia il Dalai
Lama. Ad ogni giro del cilindro è come se la formula contenutavi venisse davvero
ripetuta tante volte con la viva voce quante volte sta lì dentro scritta.
Siccome il mulino lavora, per forza idraulica, ventiquattro ore su ventiquattro, si
faccia il calcolo di quante giaculatorie vengono 'dette' in un mese o in un anno.
Del resto dappertutto nel Tibet si trovano applicazioni ingegnose di simile indu-
stria della preghiera. Prima di riderne si consideri ch'è una manifestazione minore,
popolare del lamaismo: ogni religione che penetri profondamente fra gli uomini
e le donne meno abituati a riflettere od a criticare, ha per necessità degli aspetti
come questo.



















All'ingresso del monastero ci è venuto incontro un lama pasciuto dall'aspetto di
fattore a cui vanno bene gli affari; evidentemente ci attendeva; era l'Om-tse, il
prefetto Yul-gye (Vittorioso sul paese). Avrà avuto una cinquantina d'anni, era
forte alto energico, un po' grossolano; se rideva era badiale, quando si muoveva
pareva dovesse salire una montagna o prendere un demone pel collo; certo
costituiva un terrore per i seminaristi del convento.
Sorrideva a me perché ero lo straniero con le rupie in tasca, ma se l'osservavo
quando si credeva fuori del mio sguardo vedevo i tratti del volto indurirsi, e col-
legavo subito mentalmente la sua mandibola quadrata con le manone delle dita
noccherute, come dovevano fare istintivamente anche i ragazzi del monastero.


























I quali infatti giravano al largo non sapendo ancora se cedere alla curiosità d'-
osservare da vicino lo straniero, e farsi avanti, od alla paura dell'om-tse, ed
andarsene.
Alcuni scrittori europei sembrano dare l'impressione che i lama  costituiscano
una popolazione formata soltanto da saggi pensosi o da asceti capaci di cose
del tutto straordinarie.
Niente di più falso: il mondo ecclesiastico tibetano è vivo, vario, ricco di perso-
nalità d'ogni timbro, forza e colore; è del resto tanto simile al mondo ecclesiasti-
co cattolico che, già fin dal 1845, il missionario Huc ne restò colpito. Trovi, sì,
l'asceta che ha macerato il corpo fino a ridurlo strumento sottile di nascoste
forze psichiche, quasi un sensibilissimo tentacolo umano e naturale, nel sovru-
mano e nel soprannaturale, ma trovi anche il furbo abate ben pasciuto che ti
quadra una situazione psicologica o un problema economico in due balletti;






































trovi l'acido ed antipatico disciplinarista ed il semplicione bonario; trovi il gran
dottore che conosce a fondo il 'Kangyur' ed il 'Tangyur' pur mancando di
scintilla interiore, e trovi il benedetto da dio che s'ubriaca, canta, gioca, fa all'-
amore ed ha nella sua follia saggezza (istinto eretico mai morto) (ed infine
troverai la più atroce ortodossia del dogma della religione senza principio
eccetto che il materialismo incarnato, lontano da ogni dio, da ogni eretico,
da ogni uomo, si chiamerà comunismo o intolleranza, ma è la peggiore orto-
dossia che regnerà negli anni a venire dalla presente).
Ma non è meglio mille volte che sia così?
Chi può provare interesse per delle astrazioni, quando ci sono uomini in
carne ed ossa da conoscere! I lama non sono 'come vorremmo che fossero',
non sono delle figurine irreali dipinte sull'avario o la pergamena - cose da
museo - sono esseri vivi, coi loro difetti, le loro qualità, la loro sagoma inte-
riore, nella luce sottilmente diversa d'una civiltà fondata su premesse diverse.
(Fosco Maraini, Segreto Tibet; foto e disegni di Sven Hedin)













TRENT'ANNI FA....














Prosegue in:


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Welcome to Tibet!
Guardiamo i pallidi volti dei turisti e in fretta cacciamo giù il nostro pranzo.
Poi più nulla ci trattiene, la curiosità ci spinge in città, mentre con nostro
grande sollievo l'ufficiale di collegamento e l'interprete si ritirano nelle loro
stanze.
Vogliono abituarsi con calma alla quota. Lhasa è pur sempre a 3700 metri.
Percorriamo a piedi i tre chilometri dall'hotel fino ai bordi della città. Abbia-
mo con noi una vecchia piantina e cerchiamo prima di tutto il Lingkor, la
famosa strada dei pellegrini che racchiude il settore sacro della città.















Asfalto, cemento, camion che suonano il clacson, non più pellegrini che stri-
sciano nella polvere e statue del Buddha. Passando davanti a banche ben
protette da inferiate e a uffici amministrativi che circondano il troneggiante
Potala come un orribile collare, ci perdiamo in stradine che diventano sem-
pre più piccole.
Il deserto si anima e improvvisamente ci troviamo sul Parkhor, l'anello di
strada più interno che racchiude il tempio di Jokhang, il luogo più sacro del
Tibet.
































Vecchie case tibetane con le finestre di legno intagliato gli fanno corona.
Accostati ai muri i venditori hanno esposto le loro merci per terra: stoffe,
scarpe, lane, stoviglie di metallo. Una fitta e colorita umanità si muove in
quest'anello in senso orario.
Dopo i volti riservati di Pechino, la vivacità della vecchia Lhasa ci toglie il
fiato. Qui si affollano pellegrini di tutto il paese. Alti uomini della ribelle pro-
vincia di Kham con le nere trecce fissate con una benda di lana rossa, am-
do-tibetani riconoscibili dal loro cappello rotondo, nomadi avvolti in grasse
pelli di pecora.


























Nella polvere della strada una vecchia donna percorre tutto il Parkhor pros-
trandosi continuamente a terra. Quando la fronte e le braccia, protette da
assicelle di legno, hanno toccato il terreno, si solleva per rigettarsi stesa a
terra là dove era arrivata con le mani.
Una volta vi erano pellegrini che percorrevano in questo modo la strada dal
loro villaggio fino a Lhasa.
A Lhasa, rimasta per secoli isolata, gli stranieri sono ancora oggi guardati
come bestie rare. In un baleno siamo circondati da una folla che ci toglie l'-
aria. Occhi sorridenti ci guardano, mentre un denso odore di grasso, fumo
e urina ci fa quasi star male.





























Quasi tutti ci porgono qualcosa, chi un amuleto, chi un gioiello o un pezzo
di stoffa da smerciare. Sono felice, finalmente siamo arrivati.
Sotto il vecchio salice rinsecchito e ricoperto di bandiere di preghiere davan-
ti al tempio di Jokhang, si sono sistemati pellegrini e mendicanti con le loro
famiglie. Il profumo dei bastoncini di incenso si mescola all'odore delle lam-
pade a burro. Sulle lastre di pietra davanti all'entrata del tempio sono pros-
trati i fedeli; tra le dita fanno scorrere il rosario, mentre le labbra mormora-
no le preghiere.
So che i tibetani, attraverso l'Armata Rossa di Mao, era stata vietata per leg-
ge qualsiasi pratica religiosa, fino allo scioglimento della Banda dei Quattro;
sono perciò molto colpito dal fervore religioso che mi circonda.


























Comincio a pensare che il buddhismo abbia dato ai tibetani la forza di resis-
tere e di sopravvivere indomiti a tutte le crudeltà inferte dai cinesi 'liberatori'.
Quando il 9 settembre 1951 le prime truppe cinesi marciarono su Lhasa,
queste si comportarono dapprima, con grande stupore della popolazione,
come una vera armata di liberazione, cioè pacificamente. Venne sottoscritto
un trattato che toglieva ai tibetani i diritti in politica estera, che però garanti-
va loro l'autonomia nella politica interna.
I poteri del Dalai Lama non avrebbero dovuto essere toccati.
Me ben presto soffiò un altro vento. A Lhasa vennero piazzati sempre più
soldati e le forniture di vettovaglie che i tibetani dovevano predisporre per
l'armata non furono più pagate; al Dalai Lama venne contrapposto il Pan-
chen Lama, educato in Cina.



















Allo scioglimento dell'armata tibetana seguirono i primi attacchi al potere
dei monasteri. Quando gli occupanti cominciarono a sequestrare, a far sgom-
berare i monasteri, a imprigionare e umiliare pubblicamente monaci e gros-
si proprietari terrieri, nella provincia di Kham si arrivò alla rivolta aperta.
In tutto il paese si diffuse una guerriglia che sarebbe durata 15 anni.
Il giovane Dalai Lama cercò di mediare e restò nel paese. Ma i cinesi tenta-
rono di intimidire con crudeltà sempre più brutali.
Monaci e laici vennero torturati e uccisi, le donne violentate, i bambini venne-
ro deportati in Cina. Nel marzo 1959 a Lhasa ci fu un sollevamento popola-
re e il Dalai Lama fuggì in India, seguito da decine di migliaia di tibetani che
scelsero l'esilio.



























Dopo la caduta ufficiale del governo tibetano, il potere venne preso dai mili-
tari cinesi. Le loro 'riforme' condussero ad una miseria mai vista e migliaia
di persone morivano di fame.
Intanto proseguivano le uccisioni e le distruzioni dei monasteri; i monaci ven-
nero messi in campi di concentramento-lavoro. Per riuscire a mettere le ma-
ni sui guerriglieri, venne imposto a tutto il paese il divieto di viaggiare.
Lavaggio del cervello e rieducazione, lavoro forzato e divieto di pratiche reli-
giose erano venuti a far parte della tormenta della vita quotidiana. Come per
beffa il 9 settembre 1965 il Tibet venne proclamato Regione Autonoma.
Un gabinetto di marionette danzava al fischio del Comitato Centrale di Pechi-
no e le Guardie Rosse tenevano in scacco la straziata popolazione.


































Nel 1966 una nuova ondata di violenza, l'innovatrice rivoluzione culturale di
Mao, annientò ciò che ancora era rimasto. Migliaia di monasteri vennero rasi
al suolo, le statue d'oro e i tesori vennero portati in Cina. Lo stato del Dio-Re,
culla dell'ultima tra le antiche culture della Terra, venne annientato e snaturato
con l'insediamento in massa di cinesi.
Solo a Lhasa, accanto a 40.000 tibetani, vivevano 120.000 cinesi.
Giacimenti del sottosuolo e boschi, una ricchezza vitale del paese, vennero
sfruttati senza ritegno, i tibetani tiravano avanti stentatamente nelle comuni con
un duro lavoro e tasse esorbitanti. Solo una cosa i cinesi non potevano sradi-
care: la fede nel Buddha, radicata nel cuore dei tibetani, e la loro fedeltà al
lontano Dalai Lama.




Perciò non mi stupisce che il commerciante che vendeva davanti al tempio le
foto del Dalai Lama sia circondato da un grappolo umano. Essi continuano a
chiamare il loro amato Dio-Re 'Jishi Norbu', il 'prezioso gioiello'.
Anche il libero commercio sui mercati era proibito ai tibetani fino al 1980.
Ora mercanteggiano di nuovo e godono visibilmente di questa nuova piccola
libertà. Burro di yack, verdura, tè pressato in tavolette trovano rapido smercio.
Sotto i banchi di vendita dei commercianti dormono decine di cani al riparo
dalla calura del giorno.
Persino il permesso di tenere i cani è un'innovazione. Le Guardie Rosse nello
slancio delle loro azioni di rastrellamento li avevano uccisi e solo chi conosce
l'amore dei tibetani per gli animali capisce la gravità che poteva avere per loro
questa azione.
Il buddhismo aborrisce l'uccisione di qualsiasi essere vivente.....
(R. Messner, Orizzonti di ghiaccio)