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Capitolo [completo] [...]
La Natura serba delle forti e profonde sensazioni
agli iniziati….
Una
serenità grande succedette nel suo spirito, per cui le piccole e comuni melanconie
dalle quali, come da nebbie leggere, era stato da prima occupato, svanirono.
Ebbe una intimità singolare con la Terra, sentì la trasfusione della sua Anima
nella grande Anima della Natura. E si sentì, condotto verso un paesaggio più
vergine, più ampio, più tragico e più solitario.
Salì sulle
Alpi, si stabilì a Savognino, nel Grigione.
Là, solo in
faccia alle montagne, dipinse con selvaggio trasporto; e la sua grande personalità sbocciò come un fiore meraviglioso. Sui
Grigioni il Segantini si trovò in presenza di un paesaggio in condizioni di
suolo e di luce ben differenti da quello che aveva lasciato.
Nell’atmosfera
limpidissima, nella luce vibrante e diffusa, tutte le particolarità dell’ambiente
apparivano con un’evidenza incisiva; le forme si profilavano con incomparabile
nettezza; sotto l’erba magra traspariva l’ossatura rocciosa, si delineavano le
grandi vertebre dei monti. Nelle facettature della pietra, nelle insenature
della montagna tormentata, i colori si decomponevano in mille scintillazioni. La
tecnica consueta gli apparve subito impotente a rendere quell’intensità di
colore, quella trasparenza di luce che i vecchi paesisti non avevano conosciuta
in tutta la gloriosa potenza per cui egli si entusiasmava. Col colore puro, non
infiacchito dall’impasto, poteva solo sperare di giungere a qualche risultato
positivo. Una fattura minuta, che seguisse tutte le sagome e incidesse il
disegno, si doveva sostituire alla pennellata larga e molle, senza di che ciò
che vi era di più caratteristico nell’ambiente sarebbe andato perduto.
Così,
naturalmente, il
Segantini cominciò ad usare la tecnica divisionista, che l’osservazione
profonda e personale della Natura gli aveva imposto come una necessità. Padrone
di un mezzo meccanico che non tradiva le sue intenzioni, egli poté dipingere
dei quadri organici, che furono diretta espressione del suo modo di sentire. La
tecnica analitica gli secondava lo studio minutissimo, mentre lo spirito riassuntivo
e la volontà sempre accesa davano alle rappresentazioni la coesione sintetica. Ottenne
in questa maniera dei risultati non mai raggiunti; le sue opere riuscirono
complete in ogni parte e capaci di dare, per il sapientissimo equilibrio dei
particolari, una impressione poderosa di verità e di grandezza.
Nei quadri del Segantini tutto contribuisce alla
espressione totale senza perdere il suo valore particolare; e mentre i quadri
degli altri paesisti non sono capaci di comunicare che una sola e ben definita
impressione, i paesaggi di Segantini possono essere, come gli spettacoli naturali,
fonte di mille pensieri e di mille sensazioni. Perché egli studiò e dipinse con
lo stesso amore il filo d’erba della prateria, e il masso del monte, e l’uomo,
e l’armento; e ascoltò nel silenzio le voci delle cose mute ed inerti e tutte le
energie naturali furono da lui celebrate.
L’Aratura nell’Engadina fu uno dei primi quadri
che portò nelle esposizioni il senso dell’alta montagna, con l’atmosfera
cristallina, le chiarità del sole, le candide delicatezze della neve sulle
giogaie. In questo quadro è espressa, come in tutte le opere di Segantini, la
comune
fatica
degli uomini e degli animali uniti per strappare alla terra, più che altrove
dura ed ingrata, gli elementi necessari alla vita. I due cavalli che conducono l’aratro,
disegnati con singolare evidenza, che qualunque animalier può invidiare, hanno,
nello sforzo consapevole, una espressione quasi umana, e pare che dei due uomini
che li guidano abbiano lo stesso pensiero e l’identica volontà.
Questa comunione amorosa commuoveva l’animo
del pittore che
ebbe a scrivere parole degne di un grande poeta lirico:
‘Io voglio
che gli uomini amino gli animali buoni a cui tolgono e latte e carni e pelli; e
dipingo le Due Madri, ed il buon cavallo
sotto all’aratro che lavora coll’uomo e per l’uomo, ed il riposo dopo il
lavoro, e dappertutto dipinsi i buoni animali cogli occhi pieni di dolcezza. Essi
che danno tutto agli uomini, e la loro forza, e i loro figli, e le loro carni e
le loro pelli, sono dagli uomini battuti e maltrattati. Con tutto ciò, in
generale, gli uomini amano più gli animali che i loro simili’.
Il
sentimento dell’amor materno, - il più naturale e il più forte dei sentimenti, -
era pel Segantini una continua fonte
di inspirazione. Ed egli dipinse a più riprese gli esseri umani con la
familiarità di cui animati dalla Natura dal
Ritorno dal bosco di cui nel patrio suolo natio ancora non si aveva,
all’epoca come nell’odierna, la vera percezione tesoro e ricchezza, e che il
grande pittore ci possa aiutare in questa inestimabile ricchezza che sappia
preservarci da ogni male terreno nel poter al meglio valorizzare i frutti della
nostra ed altrui Terra…
I disastri cagionati dalle inondazioni in gran
parte dell’Italia superiore, sono a mal titolo imputati alla inclemenza della
natura; si debbono invece attribuire alla ignavia nostra per l’abbandono nel
quale presso di noi giacciono le discipline forestali ed idrotecniche, voglio dire dello
sboscamento delle alte montagne e della insufficiente manutenzione degli argini
esistenti. Né per questo la natura è esente dal prendervi parte. Il
movimento della progressione dei ghiacciai è fermato dalla fusione che si opera
alla loro base, nelle vallate, ma non è fermato che in parte per questa causa.
I ghiacciai invadono, ed allora la loro invasione
è irresistibile e tutto distruggono quanto incontrano sul loro passaggio; l’usurpazione
del ghiacciaio è incontestabilmente dimostrata dai documenti storici e dalle
traccia irrecusabili dell’opera loro di distruzione; estesi pascoli sono
ricoperti, immense foreste di alberi secolari sono devastate, e finalmente
delle capanne isolate e dei gruppi di abitazioni, altre volte situati a grande
distanza da quelle masse di ghiaccio, sono distrutte.
Comunque avvenga il fatto del regresso o dell’avanzarsi
dei ghiacciai è chiaro che fondendosi la massa di ghiaccio alla sua base
vediamo le regioni sottostanti irrigate da una quantità d’acqua variabile. Per
fissare le idee circa la immensa quantità d’acqua proveniente dai ghiacciai, dirò
solo come i i signori Dollfus e Desor fecero esperienze in proposito al
ghiacciaio dell’Aar nel 1844 e nel 1845, e ne dedussero che da esso
scaturirono in 14 giorni di osservazione circa 800,000 metri cubi di acqua al
giorno.
L’immenso ghiacciaio di Grindelwald somministra un volume di acqua a questo assai
superiore; aggiungiamo a questo la enorme quantità di acqua che la pioggia ci
fornisce e potremo facilmente comprendere la necessità di dividere queste masse
non solo, ma dì custodirle, mediante buoni lavori idraulici, nei loro letti. Né
ciò basterebbe, e per riparare ai danni, o meglio, diminuire il pericolo della
sommersione, è indispensabile ricorrere a quelle misure che la provvida natura
ci ha essa stessa indicate, curare cioè le foreste, vegliare alla loro
conservazione ed al rinnovamento delle zone minacciate. Certamente non si
potranno prevenire interamente, principalmente in montagna, le grandi
inondazioni, ma quanto dico ora per le Alpi si può estendere alla maggior parte
degli Appennini, i quali presentano ovunque per natura delle rocce costituenti minore
resistenza alla forza corrosiva delle acque, sicché i pericoli minacciati dagli sboscamenti
vi sono anzi più gravi e più imminenti.
Non credo certamente di errare asserendo essere
il Po la vita del vasto piano dell’Italia superiore; ne è prova la ricchezza
dell’agricoltura nella Lombardia, la quale richiede per se sola 45,000,000 di
metri cubi d’acqua al giorno, 500 per minuto secondo! Come tutti i fiumi che
convogliano le loro acque nella pianura, il Po fu da tempi antichissimi
arginato, e fu nel suo bacino idrografico che il genio di Leonardo da Vinci si
manifestò all’Europa intera. Attualmente da Cremona al mare il gran fiume è
arginato assai validamente; eppure le sue inondazioni sono frequenti e la
rottura degli argini laterali ha minacciate delle provincie intere. Non
converrebbe fiancheggiare queste arginature di grandi piantagioni, sicché in un
corso determinato di anni si stabilisse naturalmente un largo alveamento al
fiume?
Questi problemi dovrebbero essere studiati a
fondo dal governo, dalle Provincie, dai comuni e dagli uomini pratici della
materia, le loro risoluzioni recherebbero conseguenze oltremodo benefiche; donde
togliendo le cagioni essenziali delle inondazioni verrebbe aumentata la
ricchezza e la estensione delle terre produttive e quindi la ricchezza del
paese.
Conviene
ancora osservare come vi sia una connessione evidente fra le piogge e le
foreste.
Citerò soltanto il fatto che il Becquerel acquisì
alla scienza, che cioè, durante le forti piogge non cadono attraverso il
fogliame di un bosco che i 3/5 dell’acqua che cadrebbe senza le piantagioni sul
nudo suolo. Questa osservazione
importantissima, frutto di lunghi studi, può dare una misura sensibile della
utilità generale delle foreste.
Senza ricercare fuori paese gli esempi che mi
occorrono per provare il misero stato in cui si trova la silvicoltura, mi
atterrò a quel tanto che qua e là ho raccolto e che mi parve consentaneo al mio
modo di vedere.
La razza latina ha senza dubbio di grandi belle
qualità, ma non ha certamente quella della economia e della previsione nella
manutenzione delle sue ricchezze forestali. Essa ha strappato colle sue mani il
ricco manto di foreste che tempi addietro copriva i paesi che abita, e, non
contenta di distruggere le foreste in pianura, ciò che poi non era un gran male,
essa ha smantellati i versanti delle sue montagne e portato con questa
imprevidenza una incalcolabile variante all’equilibrio climatologico, alla
direzione del venti, alla distribuzione del calore, dell’umidità dell’aria ed
al regime delle acque. È nota a tutti la parte importantissima che hanno le
grandi estensioni boschive sul clima generale di un paese, e che distruggendo
le foreste si distrugge assieme con esse il più potente degli agenti di cui la
natura si serve per suddividere calore, umidità, elettricità, venti ed acque
sulla superficie terrestre.
L’Italia
fu di una rara imprevidenza nelle sue distruzioni forestali, ed invero la superficie boschiva, avuto riguardo alla
estensione del paese, vi è in minima proporzione, poiché sovra una estensione
di 28 milioni di ettari soli 5,30 sono coperti da boschi; questa cifra è tanto
piccola che per farla accettare debbo ricorrere alla statistica. Non basta; se
tutti 5 e mezzo fossero coperti da foreste, ma vere foreste, ben mantenute, con
tutti i procedimenti che può fornire la silvicoltura attuale, la cosa non
sarebbe tanto in deperimento, e vi sarebbe forse di che soddisfare ai bisogni
interni domestici; ma ciò che ho detto essere marcato dalle statistiche non
sono piuttosto, e nove volte su dieci, che vaste estensioni una volta occupate
da foreste ed ora coperte da miserabili cespugli devastati dal delitto
forestale e dal dente degli animali che vi si fanno pascere?
Basta per farsi un’idea di quello che sono oggidì
queste estensioni marcate come foreste il considerare quello che si scorgono
dalla bella Firenze. Tempi addietro, tutte quelle cime che formano lo splendido
bacino in mezzo al quale sorge la città dei fiori, erano coronate da boschi
alle varie essenze, di cui qualche misero tronco trovasi ancora qua e là
sparso; ma oggi esse appariscono aride e nude al disopra della pianura toscana coperta
di fitta e lussureggiante verdura; non sono più le cime che sono rivestite di
foreste, come lo si vede in tutti gli altri paesi, ma è la pianura che è
diventata la foresta di oliveti e di viti gigantesche unite agli alberi.
Questo dislocamento dell’estensione boschiva ha avuto delle conseguenze disastrose che ognuno vede e sente, ma di cui forse non molti si rendono ragione. Le brusche variazioni del clima e non solo di Firenze, quei venti violenti che fanno il vero ufficio dei nostri spazzini da via, quelle piogge torrenziali e quella umidità malsana tosto seguita da estrema siccità dell’aria, quei venti ghiacciati alternati con venti cocenti, insomma tutti quei torbidi atmosferici non sono forse in gran parte occasionati dal denudamento delle cime del bacino e dall’invasione della foresta nella pianura?
Questo dislocamento dell’estensione boschiva ha avuto delle conseguenze disastrose che ognuno vede e sente, ma di cui forse non molti si rendono ragione. Le brusche variazioni del clima e non solo di Firenze, quei venti violenti che fanno il vero ufficio dei nostri spazzini da via, quelle piogge torrenziali e quella umidità malsana tosto seguita da estrema siccità dell’aria, quei venti ghiacciati alternati con venti cocenti, insomma tutti quei torbidi atmosferici non sono forse in gran parte occasionati dal denudamento delle cime del bacino e dall’invasione della foresta nella pianura?
Non è dunque da stupire che lo squilibrio sia
rotto, che il clima vi sia sregolato e capriccioso poiché il gran regolatore
dei venti, il gran moderatore del clima, il distributore delle acque, la
foresta in una parola, è scomparsa dalle cime.
(Prosegue con il Capitolo intero...)