CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

lunedì 6 aprile 2020

LA FESTA DEI FIORI (introduzione)






































Prosegue in:
























Nuvola Rossa (2)













È per me uno dei pochi dogmi incontrastati della biologia, che il primum nascens è l’ultimum moriens; e così come nell’uovo fecondato la prima forma che si disegna è l’asse cerebrospinale; così nell’organismo che muore l’ultimum moriens è il cervello, con le sue mille o proteiformi energie.

E il mio dogma non è soltanto vero nel suo complesso e preso nella sua sintesi più larga, ma si afferma nei più minuti particolari.

Ognuno di noi nasce con diverse attitudini, che segnano il sentiero in cui cammineremo per tutta la vita; ma nella giovinezza tutte quante a volta a volta e magari tutte insieme esigono il loro posto al sole. Il cervello dell’uomo giovane è un giardino, in cui sbocciano nello stesso tempo molti fiori e noi non ci curiamo di vedere quale di essi dia più ricca messe di corolle.

C’è tanto da vedere e da ammirare!





Ma più innanzi nella vita i fiori dati dalle piante più gracili e delicate avvizziscono e rimangono quelli soltanto delle piante più robuste e che nel terreno d’ogni cervello trovano il campo più adattato alla loro natura. E se invece dell’immagine dei fiori ne volete una forse più fedele, vi dirò che il cervello di un giovane è un orto che dà molti e svariati frutti; ma non tutti giungono alla maturità, mentre quello d’un vecchio è un orto che dà meno frutti, ma maturan tutti e son più saporosi e più nutrienti.

E gli alberi, che nell’orto del vecchio continuano a dar frutti sono i più robusti, quelli che eran più conformi alla sua particolare natura.

Il primum nascens anche qui si manifesta l’ultimum moriens.

L’Azeglio nasce artista, ma oltre il genio dell’arte ha anche un vivo amor di patria, ha anche un culto sovrano per la libertà, ha anche un buon senso tetragono. Orbene nella sua giovinezza e nella sua età matura egli è a un tempo pittore, scrittore, soldato, uomo politico; ma giunto alla vecchiaia gli alberi minori non danno più frutti o pochi soltanto, e in lui sopravvive il grande artista e si diletta soltanto della pittura, l’ultimum moriens di quel cervello tanto italiano e tanto polimorfo.





E nella vita di tutti i grandi uomini, e specialmente di quelli che possiamo chiamar polimorfi perché dotati di diverse energie, potreste verificare l’esattezza del mio dogma.

Ma vediamo di approfondire lo scalpello nelle profonde fibre del cervello umano, segnando i caratteri propri dell’ingegno nella vecchiaia, onde sfatare, se è possibile, il detto volgare e pessimista, che il vecchio sia poco meno che un imbecille, che finisce i periodi a suon d’orecchio, che pensa col pensiero degli altri, che nulla più produce di buono, di bello, di utile all’umana famiglia.

Il giovane non ha passato: egli è l’uomo del presente e soprattutto dell’avvenire come l’intera Società del progresso il quale rappresenta, e nei suoi giudizi manca quasi sempre la più esatta delle misure, che è appunto il confronto del passato col tempo che è, col tempo che sarà. Egli può studiare la storia, ma ben di raro lo farà per piacere.

Il vecchio invece ha veduto molto, molto sofferto e molto goduto.





Nella sua lunga esperienza ha dovuto correggersi molte volte nei giudizi dati con troppa fretta o ispirati da troppa passione. E quindi più giusto, più equanime. Egli non odia il passato, ma neppure teme l’avvenire; perché sa che sono anelli di una catena, che non ha interruzioni né rotture. Egli era darvinista dieci secoli prima che Darwin nascesse, e se non è colto nelle scienze naturali o nelle filosofiche lo è egualmente, perché la teoria dell’evoluzione sta scritta in tutti i cervelli che pensano, in tutti gli organismi che vivono; da per tutto. E il vecchio che ha vissuto molto ha naturalmente in sé una più lunga storia di evoluzioni, ch’egli contempla con grande serenità, con calma grandissima.

Il giovane, nel tumulto della sua vita appassionata, nel contrasto dei venti che agitano le vele della sua navicella coraggiosa, muta spesso di direzione e di movimento. Ora temerario si lancia nelle più pazze utopie, ora per reazione si fa conservatore arrabbiato; oggi socialista, domani difensore del trono e dell’altare; or credente, or miscredente; sempre però sicuro di se stesso e della propria fede.

Quante volte ne ha mutati gli articoli!





Il vecchio invece ha trionfato delle procelle e soprattutto ha imparato a conoscere la navicella, in cui ha navigato per tanti anni. Dopo aver attraversato il mare delle dubbiezze è entrato nel porto tranquillo e sicuro di poche e sicure convinzioni. Egli non si tormenta più nella ricerca dell’inintelligibile o nella conquista dell’infinito. Al di là del suo giardino e del suo orto ha messo Dio o uno zero, e se ne accontenta.

Egli ha opinioni ben determinate in religione, in politica e in morale, e non perde il tempo nel metter acqua in un cribro o nel correr dietro alle tante fate morgane, che brillano sull’orizzonte dell’uomo giovane. Avere poche e sicure convinzioni dà al vecchio una grande sicurezza di propositi, che gli accresce valore presso gli uomini e a lui pure rende più facili e piacevoli i travagli del pensiero. Non è senza ragione, che da secoli l’umana famiglia ha sempre chiesto luce e consiglio dai vecchi. Non è invano che Senatus deriva da senex e che la mitologia cristiana dipinge sempre il Padre eterno sotto le sembianze d’un vecchio canuto.

Ecco perché egli riesce soprattutto nelle arti della politica, che appunto esige sicurezza di terreno per piantarvi edifici che non crollino al primo soffio di vento. Non c’è bisogno di dimostrare il perché nel vecchio la sintesi sia e debba essere più larga.





Egli ha molto veduto e nel suo cervello sono entrati tali e tanti elementi del mondo umano e del mondo cosmico, da allargargli sempre più l’orizzonte. Se il giovane è più alpinista di lui, perché ha polmoni più ampi e garretti più robusti, il vecchio ha salito più cime del pensiero e ha imparato a intendere le ombre nelle ali dell'ignoranza e a non lasciarsi ingannare da tutti i fantasmi della luce e delle meteore.

Egli è presbite anche nel cervello e non soltanto negli occhi e alla sintesi questo difetto giova assai più che la miopia. Alla più larga sintesi si associa nel vecchio anche una maggior ricchezza di associazioni nelle idee.

È questa la conseguenza logica della prima virtù.

Nel giovane vi sono molti tasti che non rispondono, vi sono accordi che non riescono, perché ha molte corde vergini, che non hanno vibrato ancora. Nel vecchio invece tutti i tasti sono agevoli, tutte le corde sono attraversate da mille correnti, e le associazioni delle idee si fanno pronte e per ogni verso; diffondendosi per tutti i territori del pensiero e del sentimento. Questa è grande virtù e che supplisce in gran parte alla forza diminuita, all’intensità più debole della corrente prima, che si sprigiona da quel laboratorio massimo della natura viva, che è un cervello che pensa.





A supplire alla forza iniziale diminuita contribuisce assai anche la facilità acquistata nella tecnica del pensiero. Di certo che la macchina pensante di un giovane è migliore di quella del vecchio; ma appunto perché esce da poco dall’officina ha molta rigidità nelle sue articolazioni, per cui si muove a scatti e chi la maneggia è ancora inesperto.

Nel vecchio invece gli attriti son vinti dall’uso, le giunture son molli e pieghevoli e il macchinista ha imparato a conoscere tutti i difetti e tutte le virtù della sua macchina; per cui tutte le forme diverse di movimenti son divenute in lui quasi automatiche e si fanno senza fatica e senza esitanza.

Ciò salta all’occhio specialmente in quel lavoro altissimo, che è la parola.





Quanti intoppi, quanto balbettamento nell’uomo bambino, prima che la corrente della parola corra pei nervi alla laringe, alla lingua, alle labbra!

Quanti tentativi inutili, quante storpiature, quanti involontari idiotismi, prima che l’uomo raggiunga quella bellissima equazione, che apre poi le porte all’eloquenza: Pensiero = Parola.

Se la vita non fosse tanto breve ai mille viaggi pensati, vorrei nei discorsi politici degli oratori più celebri seguire l’evoluzione della parola attraverso le età; studiando come essa si muti passando dalla prima giovinezza alla vecchiaia. Sarebbe questo un lavoro utile e fecondo, perché ci permetterebbe di segnare a grandi linee il diverso stile dell’eloquenza, che pur rimanendo sempre alla stessa altezza, ha però tante fisionomie, quante ne hanno la pittura e l’architettura.





Nel giovane la parola è più calda, più prorompente: se volete, più affascinante, perché ispirata da più calde passioni, perché in essa sentite il grido della battaglia e l’impeto della lotta. E più adatta ai tumulti dei meeeting e alla conquista del popolo nelle piazze o alla conquista delle coscienze sotto le volte del tempio.

Nel vecchio invece vi è meno calore, ma maggior potenza di idee, e l’arte più sottile e più ingegnosa nasconde mirabilmente i tranelli dei sofismi e le trappole dei sillogismi. L’eloquenza del vecchio conquista e tien salda la conquista. La prima è una carica di cavalleria o un attacco di bersaglieri; la seconda è un quadrato di  fanteria, che non si rompe nella difesa, o è l’artiglieria che abbatte gli eserciti e rende sicura e infallibile la vittoria.

Se dovessi quindi riassumere la fisionomia caratteristica del pensiero nell’ultima età della vita, direi che il vecchio ha un cervello potentemente stereoscopico, mentre il giovane ha un cervello creatore. In questo l’agilità e la fecondità, in quello la sicurezza e la tenacità. Nessuno primo, nessuno secondo; entrambi organi diversi, che adempiono funzioni distinte in quel grande organismo, che è una società umana.

(P. Mantegazza)





Società antiche, coloni moderni, il pensiero del, se pur datato antropologo, ci suggerisce qui un paragone non certo azzardato, non solo un paragone ma forse un valido enunciato così da poterlo inserire in un più ampio contesto, anche se ogni Vecchio ed Antiquato come da lui disquisito, può ed è sicuramente ignorato nell’attuale odierno progresso ed èvo moderno, ove ogni pandemia figlia d’una giovane Società senza morale e principio uccidere come e più di pria.

…Così il paragone non ci sembra azzardato e se andiamo a riproporre differenze di pensiero fra il Vecchio ed il Nuovo Progresso che camminando inciampa, vi accorgerete che pur cambiando la sostanza, nel Tempo andato (per altrui difettevole mano) sopravvive, e non solo alla pandemica malattia che lenta avanza uccidendo e sterminando quanto di più antico principio, e non solo nello Spirito dalla Terra fondato e con lei evoluto, simmetrico alla Natura, perita anch’essa per vil mano, e giovane difettevole breve Pensiero mal concepito quanto seminato…





Non vi è nessuna speranza sulla Terra, e Dio sembra averci dimenticato. Alcuni dissero di aver visto il Figlio di Dio, certo anche noi nel giorno quinto delle Palme coglievamo il suo Antico Pensiero scritto come un Fiore non appassito, il giovane colono lo colorò di rosso, ancor oggi compie identico medesimo sacrificio, il Figlio di Dio viene narrato nonché annunciato nelle Palme pregate, anche noi antiche croste preghiamo un Fiore, ma il Giovane lo recide dal proprio secolare trono, per porlo entro un circuito di fuoco ove scorre la luce del tuono. Medesima luce evochiamo mentre danziamo e preghiamo la Danza degli Spettri, l’uomo bianco non potrà goderne né profumo né colore, osservando bufera e tuono accompagnare il triste lamento della Terra e con essa dell’intera Selva. Anche noi quel Giorno parlavamo di Fiori mentre il Giovane in nome d’una Palma sterminava ogni Dio di questa Terra divenuto Eterno Spirito!





Alcuni dissero di aver visto il Figlio di Dio; altri di non averLo né visto né udito. Se Egli fosse venuto. Egli avrebbe fatto alcune grandi cose come aveva fatto prima. Noi dubitavamo perché non avevamo visto né Lui ne le sue Opere. Gli altri Indiani non sapevano, non si preoccupavano. Si aggrappavano alla Speranza. Come pazzi gridavano implorando pietà da Lui. Cercavano di ottenere la promessa che essi avevano sentito che Lui aveva fatto di non uccidere la Terra! Gli uomini bianchi erano spaventati e chiamarono i soldati. Noi avevamo chiesto la Vita e la sopravvivenza di questa Terra, e gli uomini bianchi pensarono che volessimo la loro mentre rubavano la nostra. Venimmo a sapere che i soldati stavano arrivando. Non avevamo paura. Speravamo di poter spiegare loro i nostri guai e di ricevere aiuto. Un uomo bianco disse che i soldati intendevano ucciderci. Noi non gli credemmo perché venivano in nome del Salvatore. Noi non gli credemmo, ma alcuni erano spaventati e fuggirono via…

    (Nuvola Rossa)

    (Prosegue...)

















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