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Martedì...
Prosegue nel retro del disco [33 di medesimo ugual secolo]...
Soffrire a Tempo (Seconda Parte)
Mi sento straordinariamente intimidito. Non che
abbia molta speranza. Ma sono come uno completamente gelato dopo un viaggio nella
neve…
Attendo una diversa Nausea, arriverà verso Aprile,
la neve per allora sarà sciolta ed io salirò solo umiliato e stanco verso il Golgota,
sì certo accompagnato da un rabbino stanco sudato fors’anche una negra
addolcire il martirio a suon di flauto con un prete ubriaco inneggiare al suo Dio
tradito o forse solo crocefisso…
Maddalena,
che vuol farmi piacere, mi grida da lontano mostrandomi un disco:
‘Il suo
disco, signor Giuliano, quello che le piace, lo vuol sentire per l’ultima
volta?’.
‘Se vuoi’.
L’ho
detto per cortesia, ma non mi sento troppo ben disposto per sentire una musica
di jazz. Tuttavia lo ascolterò con attenzione, perché, come dice Maddalena,
ascolto questo disco per l’ultima volta: è vecchissimo, troppo vecchio perfino
per la provincia, lo cercherei invano, a Parigi. Maddalena va a posarlo sul
piatto del fonografo; sta per girare; la puntina d’acciaio sta per mettersi a
saltare e a stridere entro le scanalature, poi, quando esse l’avranno guidata a
spirale fino a centro del disco, sarà finito, e la rauca voce che canta Some of
these days tacerà per sempre.
Comincia.
E dire
che vi sono imbecilli che attingono consolazioni nelle arti! Come mia zia
Bigeois: ‘I Preludi di Chopin mi son stati di tale conforto alla morte del tuo
povero zio!’.
E le sale
da concerto rigurgitano d’umiliati e d’offesi, che, con gli occhi chiusi,
cercano di trasformare i loro pallidi volti in antenne riceventi. Si figurano
che i suoni captati scorrano in loro, dolci e nutrienti e che le loro
sofferenze divengano musica, come quelle del giovane Werther, credono che la
bellezza sia loro pietosa.
Coglioni!
Vorrei
che mi dicessero se la trovano pietosa, questa musica, Un momento fa ero ben
lontano di sicuro dal nuotare nella beatitudine. Alla superficie facevo i miei
conti, meccanicamente. Sotto sotto stagnavano tutti quei pensieri spiacevoli
che hanno preso forma d’interrogativi non formulati, di muti sbalordimenti e
che non mi lasciano più né giorno né notte. Pensieri su Anny, sulla mia vita
sprecata. E poi, più sotto ancora, la Nausea, timida come un’aurora. Ma allora
non c’era musica, ero mesto e tranquillo. Tutti gli oggetti che mi circondavano
erano fatti della mia stessa materia, d’una specie di laida sofferenza. II
mondo era così brutto, fuori di me, così brutti questi bicchieri sporchi sui
tavoli, e le macchie scure sullo specchio e sul grembiale di Maddalena e l’aria
amabile del grosso amoroso della padrona, così brutta l’esistenza stessa del
mondo, che mi sentivo a mio agio, in famiglia.
Adesso
c’è questo canto di sassofono.
Ed ho
vergogna.
È appena
nata una gloriosa, piccola sofferenza, una sofferenza-modello. Quattro note di
sassofono. Vanno e vengono e sembra che dicano:
‘Bisogna
fare come noi, soffrire a tempo’.
Ebbene,
sì! Naturalmente, vorrei ben soffrire a questo modo, a tempo, senza indulgenza,
senza pietà per me stesso, con un’arida purezza. Ma è forse colpa mia se in
fondo al mio bicchiere la birra è tiepida, se ci sono macchie scure sullo
specchio, se io sono di troppo, se la mia sofferenza più sincera, la più secca,
si trascina e s’appesantisce con troppa carne entro la pelle tuttavia troppo
larga, come l’elefante marino, con grossi occhi umidi e commoventi, ma così
brutti?
No, non
si può certo dire che sia pietoso questo piccolo dolore di diamante, che gira
in tondo sopra il disco e che mi abbacina. E nemmeno ironico: gira
allegramente, tutto occupato di se stesso, ha trinciato come una falce la falsa
intimità del mondo ed ora gira, e tutti noi, Maddalena, il pezzo d’uomo, la
padrona, io stesso, e i tavoli, i sedili, lo specchio macchiato, i bicchieri,
tutti noi che ci abbandonavamo all’esistenza, poiché eravamo tra dì noi, solo
tra di noi, siamo stati sorpresi da esso nella nostra trasandatezza, nel nostro
lasciar andare quotidiano: ho vergogna per me stesso e per tutto ciò che esiste
dinanzi ad esso.
Esso non
esiste.
È perfino
urtante; se mi alzassi e strappassi questo disco dal piatto che lo regge e lo
spezzassi in due, non lo raggiungerei nemmeno. Esso è al di là sempre al di là
di qualche cosa, d’una voce, d’una nota di violino. Attraverso spessori e
spessori d’esistenza, si svela, sottile e fermo, e quando Lo si vuole afferrare
non s’incontra che degli esistenti, si cozza contro esistenti privi di senso. È
dietro di essi: non lo odo nemmeno, odo dei suoni, delle vibrazioni che lo
rivelano. Ma esso non esiste, poiché non ha niente di troppo: è tutto il resto
che è di troppo in rapporto ad esso.
Esso è.
E anch’io
ho voluto essere. Anzi non ho voluto che questo; questo è il vero significato
della storia. Vedo chiaro nell’apparente disordine della mia vita: nel fondo di
tutti questi tentativi che sembravano slegati, ritrovo lo stesso desiderio:
cacciare l’esistenza fuori di me, vuotare gli istanti del loro grasso,
torcerli, disseccarli, purificarmi, indurirmi per rendere infine il suono netto
e preciso d’una nota di sassofono. Potrebbe perfino essere un apologo: c’era un
povero diavolo che s’era sbagliato di mondo. Esisteva, come gli altri, nel
mondo dei giardini pubblici, delle bettole, delle città commerciali e voleva
persuadersi che viveva altrove, dietro la tela dei quadri, con i dogi del
Tintoretto, con i gravi fiorentini di Gozzoli, dietro le pagine dei libri, con
Fabrizio del Dongo e Julien Sorel, dietro i dischi fonografici, con i lunghi
lamenti secchi del jazz.
E poi,
dopo aver fatto ben bene l’imbecille, ha capito, ha aperto gli occhi, e ha
visto che c’era stato uno sbaglio: era in una bettola, per l’appunto, davanti
ad un bicchiere di birra tiepida. È rimasto accasciato sul sedile, ed ha
pensato: sono un imbecille. Ed in quel momento preciso dall’altra parte
dell’esistenza, in quell’altro mondo che si può veder da lontano, ma senza mai
avvicinarvisi, una piccola melodia s’è messa a danzare, a cantare: ‘Bisogna
essere come me; bisogna soffrire a tempo di musica’.
La voce
canta:
Some of
these days
You’ll
miss me honey.