CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

martedì 26 febbraio 2019

MARTEDI'






















































Precedenti capitoli della...

...Nausea...

Prosegue a...

(ancora) Martedì...













Sarebbe questa, la libertà?

Sotto dì me i giardini scendono mollemente verso la città, e, in ogni giardino, s’eleva una casa. Vedo il mare, greve, immobile, vedo la città. È bel tempo.

Sono libero: non mi resta più alcuna ragione di vivere, tutte quelle che ho tentato hanno ceduto e non posso più immaginarne altre. Sono ancora abbastanza giovane, ho ancora abbastanza forza per ricominciare. Ma che cosa bisogna ricominciare? Soltanto ora comprendo quanto contassi su Anny per salvarmi, in mezzo ai miei più forti terrori, alle mie nausee. Il mio passato è morto. Il signor di Rollebon è morto. Anny è tornata soltanto per togliermi ogni speranza. Sono solo in questa strada bianca fiancheggiata da giardini.

Solo e libero.




Ma questa libertà assomiglia un poco alla morte.

Oggi la mia vita finisce. Domani avrò lasciato questa città che si stende ai miei piedi, e dove son vissuto per tanto tempo. Non sarà più che un nome, tozzo, borghese, molto francese, un nome nella mia memoria, meno ricco di quello di Firenze o di Bagdad. Verrà un’epoca in cui mi domanderò: ‘Ma infine, quando ero in quella città, che cosa facevo tutto il giorno?’. E di questo sole, di questo pomeriggio, non resterà niente, nemmeno un ricordo.

Tutta la mia vita è dietro di me.

La vedo tutt’intera, vedo la sua forma e i suoi lenti movimenti che m’hanno condotto fin qui. C’è poco da dirne: è una partita perduta, ecco tutto. Son tre anni che ho fatto il mio ingresso in città, solennemente. Avevo perduto la prima mano. Ho voluto giocare la seconda ed ho perduto anche questa: ho perduto la partita. E nel tempo stesso ho appreso che si perde sempre.

Ci son solo i maiali che credono di vincere.




Adesso farò come Anny, mi sopravviverò. Mangiare, dormire. Dormire, mangiare. Esistere, lentamente, dolcemente, come questi alberi, come una pozza d’acqua, come il sedile rosso del tram.

La Nausea mi lascia un breve respiro.

Ma so che ritornerà: è il mio stato normale. Soltanto, oggi il mio corpo è troppo esausto per sopportarla. Anche i malati hanno delle felici debolezze che gli tolgono per qualche ora la coscienza del loro male. Mi annoio, ecco tutto. Ogni tanto sbadiglio così forte che le lacrime mi scendono giù per le guance. È una noia profonda, profonda, il profondo cuore dell’esistenza, la materia stessa di cui son fatto. Non mi trascuro, tutt’altro: stamane ho fatto il bagno, mi son fatto la barba. Soltanto, quando ripenso a tutti questi piccoli atti solleciti non capisco come abbia potuto farli: son così vani. Sono le abitudini, senza dubbio, che li hanno compiuti per me. Non sono morte, loro, continuano a darsi da fare, a tessere pian piano, insidiosamente, le loro trame, mi lavano, mi asciugano, mi vestono, come balie.




Che siano state pure esse a condurmi su questa collina?

Non ricordo più come ci son venuto.

Per la scalinata Dautry, senza dubbio: che davvero abbia salito uno ad uno quei centodieci gradini? Quello che forse è ancora più difficile immaginare è che tra poco li ridiscenderò. Tuttavia lo so: tra un momento mi ritroverò al piede del Poggio Verde, tra un momento, alzando la testa, potrò vedere accendersi in lontananza le finestre di queste case che ora sono così vicine. In lontananza. Sopra la mia testa; e quest’istante, dal quale non posso uscire, che mi rinchiude e mi limita da tutti i lati, quest’istante di cui son fatto, non sarà più che un sogno confuso.

Guardo ai miei piedi i grigi scintillii della città. Sembra vi siano al sole mucchi di conchiglie, di scaglie, di schegge d’ossa, di ghiaia. Perdute tra questi resti, minuscole schegge di vetro o di mica gettano di quando in quando leggeri bagliori. I canaletti, le trincee, i sottili solchi che corrono tra le conchiglie, tra un’ora saranno strade, ed io camminerò in quelle strade, tra i muri. Quei minuscoli ometti neri che distinguo in via Boulibet, tra un’ora sarò uno di loro.




Come mi sento distante da loro, dall’alto di questa collina. Mi sembra d’appartenere ad un’altra specie.

Escono dagli uffici, dopo la loro giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con un’aria soddisfatta, pensano che è la loro città, una «bella città borghese». Non hanno paura, si sentono a casa loro. Non hanno mai visto altro che l’acqua addomesticata che esce dai rubinetti, che la luce che sprizza dalle lampade quando si preme l’interruttore, che gli alberi meticci, bastardi, che vengono sorretti con i pali. Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente, che il mondo obbedisce a leggi fisse e immutabili. I corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti con la stessa velocità, il giardino pubblico viene chiuso tutti i giorni alle sedici d’inverno, e alle diciotto d’estate, il piombo fonde a 335° gradi, l’ultimo tram parte dal Municipio alle ventitré e cinque.













Nessun commento:

Posta un commento