CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

giovedì 28 febbraio 2019

SOFFRIRE A TEMPO



































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Martedì...

Prosegue nel retro del disco [33 di medesimo ugual secolo]...

Soffrire a Tempo (Seconda Parte)













Mi sento straordinariamente intimidito. Non che abbia molta speranza. Ma sono come uno completamente gelato dopo un viaggio nella neve…

Attendo una diversa Nausea, arriverà verso Aprile, la neve per allora sarà sciolta ed io salirò solo umiliato e stanco verso il Golgota, sì certo accompagnato da un rabbino stanco sudato fors’anche una negra addolcire il martirio a suon di flauto con un prete ubriaco inneggiare al suo Dio tradito o forse solo crocefisso…





Maddalena, che vuol farmi piacere, mi grida da lontano mostrandomi un disco:

‘Il suo disco, signor Giuliano, quello che le piace, lo vuol sentire per l’ultima volta?’.

‘Se vuoi’.

L’ho detto per cortesia, ma non mi sento troppo ben disposto per sentire una musica di jazz. Tuttavia lo ascolterò con attenzione, perché, come dice Maddalena, ascolto questo disco per l’ultima volta: è vecchissimo, troppo vecchio perfino per la provincia, lo cercherei invano, a Parigi. Maddalena va a posarlo sul piatto del fonografo; sta per girare; la puntina d’acciaio sta per mettersi a saltare e a stridere entro le scanalature, poi, quando esse l’avranno guidata a spirale fino a centro del disco, sarà finito, e la rauca voce che canta Some of these days tacerà per sempre.




Comincia.

E dire che vi sono imbecilli che attingono consolazioni nelle arti! Come mia zia Bigeois: ‘I Preludi di Chopin mi son stati di tale conforto alla morte del tuo povero zio!’.

E le sale da concerto rigurgitano d’umiliati e d’offesi, che, con gli occhi chiusi, cercano di trasformare i loro pallidi volti in antenne riceventi. Si figurano che i suoni captati scorrano in loro, dolci e nutrienti e che le loro sofferenze divengano musica, come quelle del giovane Werther, credono che la bellezza sia loro pietosa.

Coglioni!




Vorrei che mi dicessero se la trovano pietosa, questa musica, Un momento fa ero ben lontano di sicuro dal nuotare nella beatitudine. Alla superficie facevo i miei conti, meccanicamente. Sotto sotto stagnavano tutti quei pensieri spiacevoli che hanno preso forma d’interrogativi non formulati, di muti sbalordimenti e che non mi lasciano più né giorno né notte. Pensieri su Anny, sulla mia vita sprecata. E poi, più sotto ancora, la Nausea, timida come un’aurora. Ma allora non c’era musica, ero mesto e tranquillo. Tutti gli oggetti che mi circondavano erano fatti della mia stessa materia, d’una specie di laida sofferenza. II mondo era così brutto, fuori di me, così brutti questi bicchieri sporchi sui tavoli, e le macchie scure sullo specchio e sul grembiale di Maddalena e l’aria amabile del grosso amoroso della padrona, così brutta l’esistenza stessa del mondo, che mi sentivo a mio agio, in famiglia.

Adesso c’è questo canto di sassofono.

Ed ho vergogna.




È appena nata una gloriosa, piccola sofferenza, una sofferenza-modello. Quattro note di sassofono. Vanno e vengono e sembra che dicano:

‘Bisogna fare come noi, soffrire a tempo’.

Ebbene, sì! Naturalmente, vorrei ben soffrire a questo modo, a tempo, senza indulgenza, senza pietà per me stesso, con un’arida purezza. Ma è forse colpa mia se in fondo al mio bicchiere la birra è tiepida, se ci sono macchie scure sullo specchio, se io sono di troppo, se la mia sofferenza più sincera, la più secca, si trascina e s’appesantisce con troppa carne entro la pelle tuttavia troppo larga, come l’elefante marino, con grossi occhi umidi e commoventi, ma così brutti?




No, non si può certo dire che sia pietoso questo piccolo dolore di diamante, che gira in tondo sopra il disco e che mi abbacina. E nemmeno ironico: gira allegramente, tutto occupato di se stesso, ha trinciato come una falce la falsa intimità del mondo ed ora gira, e tutti noi, Maddalena, il pezzo d’uomo, la padrona, io stesso, e i tavoli, i sedili, lo specchio macchiato, i bicchieri, tutti noi che ci abbandonavamo all’esistenza, poiché eravamo tra dì noi, solo tra di noi, siamo stati sorpresi da esso nella nostra trasandatezza, nel nostro lasciar andare quotidiano: ho vergogna per me stesso e per tutto ciò che esiste dinanzi ad esso.

Esso non esiste.

È perfino urtante; se mi alzassi e strappassi questo disco dal piatto che lo regge e lo spezzassi in due, non lo raggiungerei nemmeno. Esso è al di là sempre al di là di qualche cosa, d’una voce, d’una nota di violino. Attraverso spessori e spessori d’esistenza, si svela, sottile e fermo, e quando Lo si vuole afferrare non s’incontra che degli esistenti, si cozza contro esistenti privi di senso. È dietro di essi: non lo odo nemmeno, odo dei suoni, delle vibrazioni che lo rivelano. Ma esso non esiste, poiché non ha niente di troppo: è tutto il resto che è di troppo in rapporto ad esso.

Esso è.




E anch’io ho voluto essere. Anzi non ho voluto che questo; questo è il vero significato della storia. Vedo chiaro nell’apparente disordine della mia vita: nel fondo di tutti questi tentativi che sembravano slegati, ritrovo lo stesso desiderio: cacciare l’esistenza fuori di me, vuotare gli istanti del loro grasso, torcerli, disseccarli, purificarmi, indurirmi per rendere infine il suono netto e preciso d’una nota di sassofono. Potrebbe perfino essere un apologo: c’era un povero diavolo che s’era sbagliato di mondo. Esisteva, come gli altri, nel mondo dei giardini pubblici, delle bettole, delle città commerciali e voleva persuadersi che viveva altrove, dietro la tela dei quadri, con i dogi del Tintoretto, con i gravi fiorentini di Gozzoli, dietro le pagine dei libri, con Fabrizio del Dongo e Julien Sorel, dietro i dischi fonografici, con i lunghi lamenti secchi del jazz.

E poi, dopo aver fatto ben bene l’imbecille, ha capito, ha aperto gli occhi, e ha visto che c’era stato uno sbaglio: era in una bettola, per l’appunto, davanti ad un bicchiere di birra tiepida. È rimasto accasciato sul sedile, ed ha pensato: sono un imbecille. Ed in quel momento preciso dall’altra parte dell’esistenza, in quell’altro mondo che si può veder da lontano, ma senza mai avvicinarvisi, una piccola melodia s’è messa a danzare, a cantare: ‘Bisogna essere come me; bisogna soffrire a tempo di musica’.

La voce canta:

Some of these days


You’ll miss me honey.













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