CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

giovedì 28 settembre 2023

GIUSEPPE TUCCI (15)

 









Precedenti capitoli: 


circa il Sacro... (14/1)  


Prosegue con...: 


Giuseppe Tucci (16) 








& con una vita 


nomade... 








per la corsa 


alla vetta  (17)







Secondo la cosmografia mistica dei Tibetani e le più antiche tradizioni indiane, il Kailasa (6600 m. circa) è il centro dell’universo; ai suoi quattro lati si distendono quattro continenti, e dalla bocca di quattro animali favolosi, agli angoli di un lago che si allarga alla sua base, fluiscono quattro grandi fiumi: la Ganga (Gange), il Brahmaputra, la Satlej e la Sita.

 

L’esplorazione geografica della contrada, cominciata da Strachey e seguita da Sven Hedin, ha rintracciato le sorgenti di questi fiumi, e i miti antichi hanno ceduto di fronte alla investigazione scientifica moderna, ma sta di fatto che alcuni dei massimi sistemi fluviali dell’Oriente scaturiscono proprio nelle immediate vicinanze di questa montagna, che è forse la più sacra dell’Oriente. Tanto sacra che la gente ci va in pellegrinaggio dai confini della Cina e della Mongolia e dalle più lontane province dell’India: oggi come forse agli albori del vivere civile; e se anche altri monti dell’Asia, e specialmente della catena himalayana, sono considerati particolarmente sacri per la favoleggiata presenza di Dio, non c’è dubbio che a nessun altro si gira intorno con tanta devozione.




 La natura pare abbia provveduto tagliando un corridoio lungo letti di fiumi e forre agevoli, quasi strada spontaneamente aperta alle folle adoranti.

 

Prima ancora che il Tibet si convertisse al Buddismo e col Buddismo accettasse molte tradizioni religiose indiane, il Kailasa era forse il massimo Dio fra la gente di pastori nomadi e predoni, che popolava con i suoi mobili accampamenti lo squallore dei deserti circostanti. Il culto della montagna è elemento fondamentale nelle religioni di tutte le stirpi himalayane: ed è naturale, perché proprio i montanari sono i più sensibili alle ineffabili bellezze di queste cime che toccano il cielo, e ne temono le insidie, e ne conoscono la terrifica maestà quando la tempesta si scatena sui dirupi, e il tuono urla di giogo in giogo, e i fulmini scoppiano sulle guglie mai violate dall’uomo.




Lo dovevano chiamare Tise, e il nome è restato anche oggi: poi i Bonpo, che precedettero con la loro religione i Buddisti favoleggiarono che sulle vette ghiacciate abitasse una coorte di 360 deità dette ghicòd, forse simbolo e immagine dei 360 giorni dell’anno roteanti intorno all’asse del mondo.

 

Gli Indiani lo conoscono come il Kailasa, e lo venerano come il paradiso di Sciva: sul picco adamantino che sembra lambire il cielo di turchese è il palazzo del supremo Dio dell’olimpo indiano: alle sue solitudini ed ai suoi silenzi i fedeli oranti e meditanti trassero fin dagli albori della civiltà indiana. Fu anche identificato spesso con la montagna mitica chiamata Meru o Sumeru, che è come la colonna o il pilastro intorno a cui si svolgono i mondi e sulla quale, per piani successivi, si succedono i paradisi e le sedi degli Dei.




Questa è la montagna a cui, in cerca di pace, muovono gli eroi della guerra mahabharatiana: i Panduidi, stanchi alfine delle dure lotte, la sciano il regno a Paricscit e vestiti da asceti cominciano, sotto la guida del pio Iudistira, la difficile e lunga ascesa delle catene himalayane verso il sacro monte oltre le cui nevi ed i cui ghiacci albergano, in sedi accessibili soltanto al puri, le schiere celesti; poco alla volta, incapaci di resistere alle fatiche del viaggio e alla disciplina dello yoge, fratelli cascano al suolo lasciando solo Iudistira col suo cane fedele.




Più aspra si fa la strada, ma l’eroe non cede: ed alfine le porte del cielo gli si aprono. Ma quando gli Dei gli annunciano che non può entrarvi in compagnia di un animale impuro, come è il cane, Iudistira è pronto a rinunciare al cielo piuttosto che abbandonare il compagno, ed allora il cane  miracolosamente si tramuta nella figura della Giustizia, e l’eroe, vinta anche quest’ultima prova, è degno del supremo godimento delle più alte beatitudini.




Insomma la tradizione indiana ha sempre considerato questi paesi come il centro del mondo e la porta del cielo.

 

I Buddisti poi immaginarono che al Kailasa albergasse Samvara simbolo di una delle supreme esperienze mistiche aperte all’asceta: e nel Tibet chiamarono la montagna Kanrinpocè ‘la gemma di ghiaccio’, nome che è passato oramai sulle nostre carte.




Io di montagne ne ho viste e ne ho scalate tante, che debbo essere creduto quando affermo che il Kailasa esercita su chi lo vede la prima volta profilarsi all’orizzonte un’impressione di superba bellezza che non si può dimenticare. E si comprende come i pellegrini indiani, che affluivano dalle pianure attraverso le aspre gole himalayane, piegassero le ginocchia alla prima vista di questa montagna e la celebrassero come dimora dei loro Dei.

 

Il cono adamantino del Kailasa si scopre per la prima volta da un arido costone che separa il lago Manosarovar dal Raksas Tal: si vede lo scintillare della cima superba sotto un cielo di turchese, quasi solitaria vedetta fra un lento ondeggiare di altri giganti che fuggono verso nord in un indefinito inseguirsi di guglie e di picchi. Visibile da molti punti del Manosarovar, a Barka appare in tutta la sua magnificenza; Barka è una casa in mezzo ad accampamenti di pastori e di nomadi, sulla pianura che si protende immensa come una landa sconfinata.




A Darchin il Kailasa non si vede già più: gli si è proprio sotto. Darchin è una casa, o meglio un fortilizio in cui vive con i suoi scherani un prefetto di polizia, il quale deve tenere a bada le bande di briganti che scendono dai Passi a nord e ad est, e rapinano gli accampamenti e le mandrie dei pastori. Pellegrini, mercanti e pastori s’aggruppano intorno alla casa del Prefetto, quasi in cerca di protezione e di difesa: vivono in squallide tende insieme col loro gregge e le loro merci. Sani e malati, pastori e laici, venuti quassù, su questa terra santa, a mercantare e a pregare, a elemosinare e a rubare.

 

Indiani e Tibetani, gente di tutte le favelle e di tutti i costumi: ma divisi per province, raggruppati secondo i paesi da cui vengono. C’è un fiume che scorre quasi sotto la casa del Prefetto e divide la zona, diremo così, propriamente tibetana da uno spiazzato largo su cui piantano le tende soltanto i pellegrini indiani.




Io pure mi sono accampato vicino agli Indiani, perché il terreno è più alto e più pulito, e meglio ci si difende dall’assalto dei mendicanti e dei lebbrosi, che vengono ad implorare la carità, e non sono mai soddisfatti, e ritornano con la petulanza di cani famelici. Ma ogni momento scendiamo fra i Tibetani, in cerca, ora di libri, ora di oggetti preistorici che, trovati scavando la terra, si crede siano piovuti dal cielo, e sono perciò cuciti sulle vesti come talismani infallibili. Chi ne possegga nove è così munito contro gli assalti delle forze cattive e così ben corazzato, che si crede porti fortuna a tutto il villaggio in cui, per caso, venga a trovarsi. Chi vuole far raccolta di oggetti preistorici deve, nel Tibet, andare in cerca di cose cadute dal cielo: se no, nessuno l’intenderebbe.




Darchin è luogo di sosta: qui fanno capo le carovane di pellegrini, e di qui partono le colonne per compiere la circumabulazione della montagna: giro che i Buddisti e gli Indù fanno tenendo la montagna sempre destra ed i Bonpo invece in senso contrario. Le persone che ci vedevamo venire incontro durante il nostro cammino erano perciò tutte seguaci di questa religione, che sta quasi per scomparire.

 

Il circuito del Kailasa si può benissimo compiere in due o tre giorni al massimo: ma io ce ne ho messi di più perché ho voluto visitare i monasteri che pietà di fedeli e munificenza di principi hanno costruito nelle sue gole.




Qui i monasteri sono davvero quello che il nome tibetano significa: dgon pa, cioè luogo solitario e silenzioso, Si tratta infatti di veri e propri romitori, che, quando le istituzioni monastiche si sono diffuse nel Tibet, hanno preso le proporzioni di modesti conventi. Modesti perché in mezzo a questi deserti rocciosi, lontano dai centri abitati o dai grandi bazar, non potrebbe che vivere una popolazione numerosa di monaci; piccole comunità di persone meditanti, che nei silenzi di queste gole remote cercavano realizzare le supreme esperienze.

 

Adesso, in quel generale decadimento che ha soffocato ogni slancio di vita spirituale e distrutto ogni gloria politica di questa terra sacra alla memoria del Buddismo, i monaci sono scarsi e gli asceti più rari e vivono speculando sui ricordi di secoli passati ove vi conseguirono la loro perfezione spirituale.




La paura dei predoni che infestano le valli vicine e possono scendere da un momento all’altro dai valichi imminenti induce i pellegrini a cercare rifugio in questi monasteri che si tramutano in alberghi e dormitori chiassosi, nei quali favelle e religioni si confondono e si affratellano sotto la minaccia dei briganti.

 

I monaci sono lieti di concedere questa ospitalità, che non solo è opera umana e caritatevole, ma frutta ad essi ed al convento non dispregevoli prebende. Ché anche qui i Lama sono avidi di danaro e bramosi di mercatare. Ecco perché i monasteri sono quasi deserti: i monaci sono scesi nelle fiere a vendere, barattare, fare affari, impartire benedizioni e strologare.


(PROSEGUE)









sabato 23 settembre 2023

SETTEMBRE... (13)

 








Precedenti capitoli:


Di mistiche spelonche  (10/1)


& un Pagano  [12]







Prosegue con:


Il Sacro  (14)





La rugiada è sul loto. Sorgi, grande sole!

 

E solleva la mia foglia e mescolami con l’onda.

 

Om mani padme hum, arriva l’alba.

 

La goccia di rugiada scivola nel mare splendente.










Ma il tempo vola.

 

Dopo aver trascorso tre ore a Nyandi, salutiamo i monaci, scendiamo il ripido sentiero a zig zag tra detriti e massi e continuiamo il nostro Viaggio verso nord-nordest lungo la sponda destra del fiume. Ad ogni curva  rimanevo immobile stupefatto ed estasiato, perché questa valle è una delle più grandiose e più belle nella sua Natura selvaggia che abbia mai visto finora.

 

Il precipizio sul lato destro della valle è diviso in due livelli con una terrazza, e nel mezzo si apre un oscuro burrone. Sul lato sinistro la roccia forma un’unica parete verticale, e qui lo sguardo cade su un susseguirsi di singolari rilievi, rocce come cascate rapprese, cittadelle, campanili e fortificazioni merlate, separate da cavità simili a canoni. L’acqua dei nevai in scioglimento scorre lungo i pendii ripidi. Uno di questi getti d’acqua è alto quasi 800 piedi e bianco come il latte; il vento lo trasforma in spruzzo, ma si raccoglie di nuovo, solo per essere spaccato contro una sporgenza. La roccia intorno è umida e scura con gocce zampillate. Un ponte in roccia naturale attraversa una piccola fenditura con pareti verticali.




Immediatamente oltre il monastero si perde di vista la vetta del Kailas, ma presto si intravede di nuovo attraverso un varco. Abbiamo superato dodici pellegrini e subito dopo un secondo gruppo che si è riposato su un pendio. Assumono volti solenni e non parlano tra loro, ma mormorano preghiere, camminano con il corpo piegato e si appoggiano a un bastone, spesso anche senza bastone.

 

Quanto hanno desiderato venire qui!

 

E ora sono qui e girano intorno alla montagna che è sempre alla loro destra. Non provano stanchezza perché sanno che ogni passo migliora le loro prospettive nel mondo al di là del fiume della morte. E quando sono tornati alle loro tende nere nelle valli lontane, raccontano ai loro amici di tutte le meraviglie che hanno visto, e delle nuvole, che navigano come le antiche navi sotto la bianca vetta di Gangri.




Piccoli ‘ometti’ conici sono ovunque, Tsering non si dimentica mai di prendere un sasso dal margine della strada e di metterlo come suo contributo su ogni  ‘mucchio votivo’, e con ciò fa una buona azione, perché rende meno accidentata la strada a coloro che vengono dopo di lui. Il sole guarda attraverso un varco e proietta una luce gialla brillante nella valle, che altrimenti è in ombra. Il picco ghiacciato appare di nuovo molto di scorcio. Diversi affluenti entrano dalle sponde, e verso sera il fiume sale, contenente ben 280 piedi cubi d’acqua.

 

Un uomo di Gertse ha fatto il giro della montagna per venti giorni consecutivi e ora ha appena compiuto il suo decimo circuito. Dunglung-do è un importante incrocio di valli, dove convergono tre valli: la Chamo-lung-chen da nord, 70° a ovest, la Dunglung da nord, 5° a ovest, e la terza, chiamata nel suo corso superiore Hle-lungpa, che risaliamo.

 

Ora abbiamo il granito su entrambi i lati.




Kailas  piega uno spigolo acuto a nord, e da qui la vetta assomiglia più che mai a un tetraedro, tutto è granito, e quindi le forme montuose sono più rotonde e bitorzolute.

 

Alla fine vediamo il monastero Diri-pu davanti a noi, in piedi sul pendio sul lato destro della valle. Un enorme blocco di granito accanto al sentiero che sale ad esso reca i soliti caratteri sacri, e ci sono anche lunghi ‘manis’, stelle filanti e ‘ometti’. Tutti i pellegrini che abbiamo raggiunto nel corso della giornata si rivolgono al monastero, dove possono pernottare gratuitamente. Il convento è gremito dopo l’arrivo di una comitiva di pellegrini appartenenti alla setta di Pembo. Questi, naturalmente, vagano per la montagna nella direzione opposta, e gli ortodossi lanciano loro sguardi sprezzanti quando si incontrano.

 

Preferisco piantare la tenda sul tetto, dove sono ammucchiati i bagagli dei pellegrini. Anche qui c’è una bella vista del Kailas, la sua vetta protende verso sud. Alle nove fa un freddo sgradevole e soffia un forte vento, la mia tenda, composta solo da del cavalletto coperto da un telo di lino, è troppo piccola per consentire l’accensione di un fuoco.




Ci congediamo dai monaci di Diri-pu, attraversiamo con un ponte il fiume che scende dal passo Tseti-lachen-la nel Trans-Himalaya, dall’altro lato del quale l’acqua scorre verso l’Indo, e sale in direzione est su pendii ripidi e accidentati fittamente disseminati di massi di granito. Alla nostra destra c’è il fiume che è alimentato dai ghiacciai del Kailas; è piuttosto corto ma gonfio d’acqua.

 

Il sentiero si fa ancora più ripido, serpeggiando tra immensi blocchi di granito e porta fino al primo dosso, dopo il quale il terreno è un po’ più pianeggiante fino alla rottura successiva. Qui abbiamo una splendida vista del breve ghiacciaio troncato che, alimentato da una conca di abete ben definita a forma di trogolo, giace sul lato nord del Kailas. Le sue morene terminali, laterali e mediali sono piccole ma distinte. Verso est dal Kailas scorre una cresta estremamente affilata, appuntita e frastagliata, coperta sul lato nord di neve, e cinture di ciottoli nella neve conferiscono a tutto questo lato un aspetto solcato. Da tutti gli angoli del manto di ghiaccio e dei nevai ruscelli spumeggianti si precipitano verso il fiume. Alla nostra sinistra, verso nord, si sono composte le montagne di granito fessurato verticale in forme piramidali selvagge; Kailas è protetto a nord da immense masse di granito, ma la montagna stessa è, con ogni probabilità, un conglomerato, come dimostra il giacimento quasi orizzontale chiaramente percettibile nelle sporgenze sporgenti, le linee di neve nettamente marcate e le cinture di ghiaccio.

 

La vetta si erge su questo mare di montagne selvagge come un possente cristallo di forma esagonale.




Un gruppo di povere donne e bambini sale affaticata verso il passo. Un uomo anziano, che ora sta facendo il suo nono giro, non fa obiezioni a unirsi al nostro gruppo; conosce il paese e può dare informazioni al riguardo. Su un’altra altura nel terreno, chiamata Tutu-dapso, abbiamo visto centinaia di ometti votivi, alti 3 piedi - una vera foresta di piramidi di pietra - come innumerevoli lapidi in un cimitero.

 

Lentamente e faticosamente abbiamo risalito questo arduo valico, uno dei più faticosi dell’intero Viaggio, e sempre più fitti si stendevano i massi esclusivamente di granito in tutte le varietà possibili, alcuni rosa e altri di un grigio chiaro da essere quasi bianco. Tra due massi giaceva un fascio di vestiti dall’aspetto sospetto. Lo esaminammo e trovammo che conteneva il corpo di un uomo che era crollato durante il giro della montagna degli dei. I suoi lineamenti erano rigidi e sembrava povero ed emaciato. Nessuno sapeva chi fosse, e se avesse avuto dei parenti non avrebbero mai saputo che il suo pellegrinaggio lo aveva lanciato in nuove avventure tra i labirinti oscuri delle migrazioni dell’anima.




Il nostro vecchio si ferma davanti a un blocco piatto di granito di dimensioni colossali, e dice che questo è un dikpa-karnak, o una pietra di prova per i peccatori. Sotto l’isolato corre uno stretto cunicolo, e chi è senza peccato, o comunque ha la coscienza pulita, può insinuarsi nel passaggio, ma l’uomo che si infila in mezzo è un farabutto.

 

Circa 200 passi più in là in questo labirinto di massi di granito, tra i quali vagavamo come in vicoli tra case basse e muri, si erge una pietra di prova di un altro tipo. Si compone di tre blocchi addossati l’uno all’altro, con due incavi tra loro. Il compito è strisciare attraverso il passaggio sinistro e tornare a destra, cioè nella direzione ortodossa. Qui Ishe ha compensato la sua precedente scomodità strisciando attraverso entrambi i buchi. Gli ho detto francamente che qui non c’era bisogno di abilità, perché i buchi erano così grandi che anche i piccoli yak potevano attraversarli. Tuttavia, il peccatore aveva in questa seconda pietra l’opportunità di preservare almeno una dimostrazione di giustizia.




Le nostre peregrinazioni intorno a Kang-rinpoche, la ‘montagna di ghiaccio sacra’ o il ‘gioiello di ghiaccio’, è uno dei miei ricordi più memorabili del Tibet, e capisco perfettamente come i tibetani possano considerare un santuario divino questa meravigliosa montagna che ha   somiglianza con un chhorten, il monumento eretto in memoria di un santo defunto. Quante volte durante i nostri vagabondaggi avevo sentito parlare di questa montagna di salvezza! E ora io stesso ho camminato in abito da pellegrino lungo il sentiero tra i monasteri, che sono incastonati, come pietre preziose in un braccialetto, nel percorso dei pellegrini attorno a Kang-rinpoche, il dito che punta verso i potenti troni degli dèi come stelle in insondabili spazi.

 

Dagli altopiani di Kham nel più remoto oriente, da Naktsang e Amdo, dall’ignoto Bongba, di cui abbiamo sentito parlare solo in vaghi resoconti, dalle tende nere che si ergono come le macchie di un leopardo sparse tra le cupe valli del Tibet, dal Ladak nelle montagne dell’estremo ovest e dalle terre himalayane del sud, migliaia di pellegrini vengono qui ogni anno, per percorrere lentamente e in profonda meditazione le 28 miglia intorno all’ombelico della terra, la montagna della salvezza.




Ho visto il corteo silenzioso, le schiere fedeli, tra le quali sono rappresentate tutte le età ed entrambi i sessi, giovani e fanciulle, uomini forti con moglie e figlio, vecchi grigi che prima di morire avrebbero seguito le orme di innumerevoli pellegrini per guadagnarsi una vita più felice dell’esistenza, cenciosi che vivevano come parassiti della carità degli altri pellegrini, mascalzoni che dovevano fare penitenza per un delitto, ladri che avevano depredato pacifici viandanti, capi, funzionari, pastori e nomadi, un variopinto corteo di ombrosa umanità sulla strada spinosa, che dopo secoli interminabili si conclude nella profonda pace del Nirvana.

 

Agosto e la serena Siva guarda in basso dal suo paradiso, e Hlabsen dal suo palazzo ingioiellato, sugli innumerevoli esseri umani sottostanti che girano, come asteroidi attorno al sole, in comitive sempre fresche, attorno ai piedi della montagna, salendo attraverso la valle occidentale, attraversando il passo Dolma, e discendendo la valle orientale.




Scopriamo presto che la maggior parte di questi semplici pellegrini non ha un’idea chiara dei benefici che il Viaggio dovrebbe conferire loro. Quando vengono interrogati, di solito rispondono che dopo la morte sarà loro permesso di sedere vicino al dio di Gangri. Ma ciò che tutti credono fermamente e ostinatamente è che il pellegrinaggio porterà loro una benedizione in questo mondo. Allontanerà ogni male dalle loro tende e capanne, terrà lontano le malattie dai loro figli e dalle loro mandrie, li proteggerà da ladri, manderà loro pioggia, buon pascolo e cresceranno tra i loro yak e pecore, agirà come un talismano, e custodiscono se stessi e le loro proprietà come i quattro re degli spiriti proteggono dai demoni le immagini delle sale del tempio.

 

Marciano con passo leggero ed elastico, non sentono né il gelido vento tagliente né il sole cocente, dalle potenze del male che perseguitano e tormentano i figli degli uomini.




Iniziano il loro cammino da Tarchen-labrang e ogni nuova svolta sulla strada li avvicina di un passo al punto in cui l’anello si chiude. E durante tutto il peregrinare pregano Om mani padme hum, e ogni volta che viene pronunciata questa preghiera lasciano passare un granello del rosario tra le dita. Anche lo sconosciuto si avvicina a Kang-rinpoche con un senso di stupore.

 

È incomparabilmente la montagna più famosa del mondo.

 

L’Everest e il Monte Bianco non possono competere con questo Dio. Eppure ci sono milioni di europei che non hanno mai sentito parlare di Kang-rinpoche, mentre gli indù ei lamaisti, tutti conoscono il Kailas, anche se non hanno idea da dove il Monte Bianco alzi la propria lingua chiodata scalata da ogni benedetto peccatore della Terra, perciò ci si avvicina alla sacra montagna con lo stesso sentimento di rispetto che si prova a Lhasa.




La nostra guida ci ha detto che era al suo nono giro della montagna. Ci vollero due giorni ciascuno, e intendeva fare il giro tredici volte. Lo ha chiamato Kang-kora, il circolo di Gangri. Molti anni prima aveva compiuto l’impresa meritoria chiamata gyangchag-tsallgen, che consiste nel misurare la lunghezza del cammino in base alla lunghezza del corpo del pellegrino. Uno di questi pellegrinaggi vale tredici circuiti ordinari a piedi. Il mio pellegrinaggio non aveva alcun valore, perché stavo cavalcando, disse il vecchio.

 

Devo andare a piedi se voglio trarne vantaggio.


(Prosegue...)








martedì 19 settembre 2023

MISTICHE SPELONCHE CHE INVOCANO LA PACE (10)

 









Precedenti capitoli 


fra grotte spelonche  


templi e Eremi  (8)    [9]  







Prosegue con l'uomo  


che cercò di salvare... (11) 







Prosegue con taluni 


approfondimenti   [12]  







di Settembre (13/4)







Le Carceri, con la povera vita che vi si svolgeva, ci appare come il tipico esempio di insediamento romitoriale francescano che privilegia grotte naturali, caverne, spechi, tuguri, spelonche del tutto analoghe a quelle nelle quali si erano svolti gli eventi della vita di Cristo. Lo stesso toponimo delle Carceri deriva dalla consuetudine che avevano i primi seguaci di Francesco di ‘carcerarsi’, cioè di rinchiudersi, provvisoriamente ciechi e sordi al mondo, nelle grotte del Subasio o in quelle di altre remote e solitarie contrade.

 

La costruzione dei conventi che vediamo oggi, frutto della sistematica opera di fondazione di Bernardino da Siena, ha obliterato l’aurorale esperienza fatta dai seguaci di Francesco, fra il primo e il secondo decennio del XIII secolo, i quali vivevano nella più stretta consonanza evangelica e cercavano ospitalità nel nudo grembo della natura o presso le genti più umili.




Per quanto spesso dimenticati o ridotti a mera curiosità turistica, i ricetti naturali legati a quell’esperienza originaria – le grotte, gli anfratti, le caverne, gli spechi – sono comunque ancora oggi rintracciabili in prossimità o all’interno della maggior parte degli eremi divenuti dei conventi, dalla Verna, a Montecasale, a Monteluco, a Greccio, a Fonte Colombo, e hanno lasciato traccia di sé perfino negli appellativi, come dimostrano lo Speco di Narni o quello di Poggio Bustone, le Celle di Cortona o la Romita di Cesi.

 

Tutti questi luoghi hanno una grotta, un anfratto, un tugurio sul quale, o nei cui pressi, sarebbe sorta una struttura conventuale stabile, glorificando con la solidità delle mura, ma nella realtà trasformandola radicalmente, la Regola francescana delle origini che non prevedeva né stabilità, né troppo rigida organizzazione, né possesso diretto o indiretto di beni e tanto meno di terreni o di costruzioni.




Gli eremi delle origini, cioè gli anfratti offerti dalla natura, sono l’emblema della primitiva precarietà perseguita da Francesco e ne costituiscono la tangibile testimonianza. Simili alle ‘mistiche spelonche’ della Terrasanta, quelle grotte primordiali sussistono come reliquie di un’epica esperienza evangelica. La grotta, il letto, lo speco e altri anfratti della leggenda francescana sono dei reperti archeologici incastonati nelle fisse strutture conventuali. Nella loro sussistenza spesso negletta, nelle rimpicciolite dimensioni in cui ci appaiono i così detti ‘letti’ di Francesco, nel disagio fisico che comunicano, nella gelida, buia umidità in cui sussistono, narrano un’avventura spirituale e corporale estrema, quasi inconcepibile, per la cui commisurazione non esistono altri parametri che non siano quelli delle Sacre Scritture.




Nelle loro originali conformazioni che nulla hanno di artefatto, queste località eremitiche narrano una storia che è più antica di quella evangelica alla quale, loro tramite, Francesco si richiama. Con le loro grotte, queste località rappresentano il grembo oscuro, ctonio, abissale attraverso il quale la natura si lascia indagare e nel quale Francesco penetra, si raccoglie, si nasconde cercandovi rifugio nei momenti di meditazione. Il suo vivo senso del luogo, che è già di per sé una categoria del pensiero precristiano, percepisce in quei misteriosi squarci della roccia, in quegli anfratti, la connessione con una remota sacralità che vi si è sedimentata, con un’ancestrale vocazione votiva che è parte integrante dell’eredità pagana. Anche in questo suo far propria la sacralità latente dei luoghi, Francesco mostra tutta la sua originalità.




Egli infatti rigetta la cultura del suo tempo portata a demonizzare qualsiasi residuo cultuale pagano e per la quale grotte, selve, rovine, deserti sono luoghi ostili nei quali sono andate a nascondersi le antiche divinità che la religione cristiana ha trasformato in demoni. In nome della natura intesa da sempre come manifestazione divina, Francesco mette in atto la transizione non violenta dalla sua sacralità pagana a una sacralità cristiana. Allo stesso tempo tuttavia, dalla Verna, a Greccio, a Poggio Bustone, quasi tutti gli eremi si affacciano su spazi aperti, aerei, sconfinati, spazi che sembrano evocare l’altro aspetto dell’esistenza quotidiana di Francesco, il suo apostolato, il suo migrare senza requie, il suo sollecito accorrere in aiuto dei bisognosi. In questo senso, le imprescindibili soste con le pause meditative nelle latebre della natura non sono avulse da quelle distanze luminose che sembrano attendere la sua parola e la sua azione.




Dopo la valle di Assisi e il complesso montuoso della Verna, non c’è località che, come la valle di Rieti, o Valle Santa, conservi intatta un’ampia messe di memorie trasmesse dalle cronache francescane. La valle custodisce quattro romitori che si trovano sulle alture circostanti: Greccio, Fonte Colombo, Santa Maria della Foresta e Poggio Bustone. Ognuno dei romitori riflette un capitolo della vita di Francesco che volle fare di grotte e anfratti dei luoghi di meditazione trasformandoli, secondo la consuetudine che gli era cara, in insediamenti fittizi.

 

Nella sua vita peregrinante, egli percorse le antiche strade romane, la Salaria, la Flaminia, la Tiberina, ma si inerpicò spesso per le mulattiere che si svolgevano lungo i crinali o risalivano le pendici dei monti del Ternano e del Reatino. Nella Vita prima Tommaso da Celano riferisce che quando Francesco, attorno al 1208, decise di suddividere la comunità in gruppi di due confratelli, per andare ad annunciare ‘la pace e la penitenza in remissione dei peccati’ nelle più varie contrade, scelse per sé e per il suo compagno la valle di Rieti.




La prima biografia di Francesco ci dice quindi che il Reatino fu uno dei primi territori di espansione dei frati Minori. Pur essendo Francesco contrario all’edificazione o all’uso di sedi stabili, è comunque certo che i confratelli usavano ritrovarsi in luoghi o ricetti provvisori – grotte, anfratti, spechi – ben definiti e ricorrenti nella biografia francescana. Tommaso da Celano fa riferimento specifico a due insediamenti nel territorio reatino: Greccio e Poggio Bustone. Fonti storiche successive aggiungono il romitorio di Fonte Colombo. Occorre ricordare che questi insediamenti, che oggi ci appaiono in totale solitudine, avulsi da qualsiasi contesto abitativo, al tempo di Francesco non erano lontani da nuclei produttivi e da incastellamenti di un qualche rilievo. Con il tempo, questi centri si sarebbero impoveriti per l’inurbamento degli abitanti nella città di Rieti. Non per caso si legge nella biografia redatta da Tommaso da Celano che Francesco faceva di tutto per ricondurre sulla retta via i riottosi e irrequieti abitanti del paese di Greccio.




Fu a ridosso di questi tracciati che Francesco dette vita a sparuti cenobi situati a poca distanza da incastellamenti e quindi di facile raccordo con le comunità circostanti. Fra questi figura l’eremo di Greccio, che appare aggrappato alle pendici del monte Lacerone, nei pressi del borgo medievale omonimo. Di lassù, a sommo dell’altura, nel piazzale dell’eremo dove si giunge salendo una lunga scalinata intagliata nella rupe, lo sguardo abbraccia tutta la valle di Rieti irrorata dal fiume Velino. Sullo sfondo di questo panorama si vede la mole solenne del Terminillo e più oltre, sulla linea dell’orizzonte, si profila la sagoma del Gran Sasso.

 

Circa la fondazione dell’eremo, Tommaso da Celano afferma nel 1228: ‘Oggi quel luogo (Greccio) è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare poi divenuto una chiesa in onore del Santo Francesco’.




Con l’appellativo di Betlemme francescana, l’eremo è noto in tutto il mondo perché, nel dicembre del 1223, Francesco vi mise per così dire in scena la rappresentazione corale della nascita di Cristo insieme ai confratelli, i contadini, i pastori e i loro animali, con i ceri e le fiaccole che illuminavano la notte. La celebrazione del Natale di Greccio è strettamente collegata al ruolo centrale che Francesco attribuisce all’incarnazione come manifestazione umana del divino, una visione del Dio fatto uomo in cui la corporeità esprime tutte le sue ineludibili istanze.

 

Tramite tale rievocazione, Francesco intendeva, come narra Tommaso da Celano, ‘far memoria del Bambino che è nato a Betlemme, e vedere con gli occhi del corpo i disagi per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come fu posto sul fieno fra il bue e l’asino’. Ma Greccio costituisce anche una sorta di drammatico spartiacque fra la movimentata, precaria esistenza di Francesco, e il sofferente ripiegamento interiore causato dai contrasti con le nuove leve di confratelli propensi allo sviluppo di sedi stabili, e dai malanni sempre più acuti e laceranti che gli squassano il corpo.




Le mura scabre e gli archi di sostegno torreggianti sul baratro petroso fanno di Greccio, sorto nelle forme attuali attorno al 1246, il prototipo dell’eremo conventuale di ogni epoca. Come nella maggior parte degli insediamenti costruiti a ridosso del monte, le pareti si saldano alla roccia che sembra accettarne di buon grado l’intrusione. C’è chi l’ha paragonato addirittura a un pipistrello gigante inchiodato alla rupe. Il complesso si sviluppa su più livelli e la nuda pietra accompagna lo stretto corridoio che penetra nella parte più antica.

 

Vi si incontra dopo pochi passi il refettorio con l’antico lavabo, due affreschi del XVI secolo e il dormitorio con la celletta, detta ‘sacro Speco’, scavata nella roccia dove riposava Francesco. Il dormitorio fu realizzato interamente in legno nel XIII secolo, al tempo di Bonaventura da Bagnoregio, generale dell’Ordine. Esso è costituito da uno stretto corridoio che dà accesso a quindici piccole celle e alla primitiva chiesa del santuario intitolata a Francesco e a Bonaventura risalente alla prima metà del Duecento.




È divisa in due parti da una grata sormontata da un crocifisso di legno del XIV secolo che pende dal soffitto. Un dipinto cinquecentesco di scuola umbra, un affresco trecentesco, San Francesco e l’angelo che gli annuncia la remissione dei peccati, un pregevole tondo quattrocentesco attribuito a Biagio d’Antonio e raffigurante la Madonna con il Bambino impreziosiscono l’ambiente. Gli stalli del coro, un leggio e un supporto girevole con lanterna che permetteva di illuminare le pagine del corale e altri pregiati arredi lignei creano una calda, mistica atmosfera.




Non alterata da chi vi ha abitato per secoli, la pietra accompagna i sinuosi passaggi, le strettoie, i pertugi con sporgenze vertiginose e massi aggettanti che formano le grotte e i rudimentali giacigli dei primi, occasionali abitatori di questa ruvida costa. Diceva infatti Tommaso da Celano che ‘nei giacigli e nei letti era così in onore la povertà, che chi aveva poveri panni distesi sulla paglia, credeva di avere un letto sontuoso’. Lo stesso sentiero che dalla valle sale al convento con strappi repentini, fra boschi di lecci e pareti di roccia, è a un tempo lettera e metafora del cammino del pellegrino. Ancor più doveva esserlo quando, all’alba del Novecento, per giungere all’eremo, a quel tempo disabitato, si doveva risalire, come narrano i viaggiatori, il letto sassoso di un torrente ridotto a esiguo rigagnolo.

 

Narra la Leggenda Maggiore che tre anni prima di morire, durante il periodo natalizio, Francesco era in viaggio nelle vicinanze di Rieti con l’intenzione di fermarsi a Greccio. Volendo rendere grazia a Dio, chiamò Giovanni Velita che possedeva molte grotte e terre e che era caro al santo perché, pur essendo nobile e onorato in quella regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Francesco gli rivelò che era suo desiderio celebrare a Greccio il Natale di Gesù, utilizzando ciò che l’ambiente offriva.




Questa rappresentazione avrebbe permesso di vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui il Bambino si era trovato, adagiato sul fieno di una greppia tra il bue e l’asinello. Il pio Giovanni avrebbe dovuto preparare la scena in una grotta della montagna indicata dal santo, non lontana dall’eremo. La notte di Natale gli uomini e le donne del luogo, tutti insieme, avrebbero pregato nella grotta, giacché il Bambino Gesù, dimenticato nei cuori di molti, per grazia di Dio rinasceva alla presenza di tutti.

 

Nel corso della visita a Greccio, fuori dell’edificio si scorge un crepaccio della rupe incorniciato dagli stipiti di una porta a cui si accede da due scalini. In alto si distinguono due goffi, antichi affreschi: un monaco che dalla bocca lascia uscire un fumetto con la scritta Silentium e un Volto Santo incoronato. Sarebbero stati entrambi scoperti sotto la mano d’intonaco. Sulla soglia della porta si legge la parola Clausura. Tramite questa porta si entra in una caverna dove regna la notte. Un poco alla volta, l’occhio scopre delle cavità, o nicchie, ricavate nei muri: probabilmente i giacigli naturali dei primi compagni di Francesco. Come altrove, anche qui il suo riposo ignorava le comodità più elementari. Francesco venne in questo luogo martoriato dall’operazione agli occhi che aveva subito a Fonte Colombo e i suoi fratelli furono i primi a cercare di mitigare tanta sofferenza. Un’altra porta, che si trova nella medesima parete rocciosa, introduce nel corridoio che porta alle celle.




Al piano inferiore, proprio sotto il dormitorio, c’è la grotta nella quale Francesco e i suoi frati consumavano i pasti. Ma i muri possenti, tirati su nel corso dei secoli per sostenere l’edificio, l’hanno in parte alterata Lo stesso destino è toccato alla cappella del Presepio, ossia la grotta in cui, nel 1223, si svolse la scena evangelica. L’anfratto non dà più all’aperto come in passato, ma si trova all’interno del convento, sulla sinistra del corridoio d’ingresso. Ciò malgrado, quello che resta della grotta primitiva è pur sempre una testimonianza che, come ricordano i pellegrini, parla al cuore e all’immaginazione. In questo piccolo oratorio, detto cappella di San Luca, il visitatore si rende conto che la rievocazione della scena di Betlemme, improvvisata qui dal genio di Francesco, è stata come una seconda nascita del cristianesimo.

 

(Brilli/Neri)


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