IL GENOCIDIO

IL GENOCIDIO
IL PAGANO

sabato 23 settembre 2023

SETTEMBRE... (13)

 








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Di mistiche spelonche  (10/1)


& un Pagano  [12]







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Il Sacro  (14)





La rugiada è sul loto. Sorgi, grande sole!

 

E solleva la mia foglia e mescolami con l’onda.

 

Om mani padme hum, arriva l’alba.

 

La goccia di rugiada scivola nel mare splendente.










Ma il tempo vola.

 

Dopo aver trascorso tre ore a Nyandi, salutiamo i monaci, scendiamo il ripido sentiero a zig zag tra detriti e massi e continuiamo il nostro Viaggio verso nord-nordest lungo la sponda destra del fiume. Ad ogni curva  rimanevo immobile stupefatto ed estasiato, perché questa valle è una delle più grandiose e più belle nella sua Natura selvaggia che abbia mai visto finora.

 

Il precipizio sul lato destro della valle è diviso in due livelli con una terrazza, e nel mezzo si apre un oscuro burrone. Sul lato sinistro la roccia forma un’unica parete verticale, e qui lo sguardo cade su un susseguirsi di singolari rilievi, rocce come cascate rapprese, cittadelle, campanili e fortificazioni merlate, separate da cavità simili a canoni. L’acqua dei nevai in scioglimento scorre lungo i pendii ripidi. Uno di questi getti d’acqua è alto quasi 800 piedi e bianco come il latte; il vento lo trasforma in spruzzo, ma si raccoglie di nuovo, solo per essere spaccato contro una sporgenza. La roccia intorno è umida e scura con gocce zampillate. Un ponte in roccia naturale attraversa una piccola fenditura con pareti verticali.




Immediatamente oltre il monastero si perde di vista la vetta del Kailas, ma presto si intravede di nuovo attraverso un varco. Abbiamo superato dodici pellegrini e subito dopo un secondo gruppo che si è riposato su un pendio. Assumono volti solenni e non parlano tra loro, ma mormorano preghiere, camminano con il corpo piegato e si appoggiano a un bastone, spesso anche senza bastone.

 

Quanto hanno desiderato venire qui!

 

E ora sono qui e girano intorno alla montagna che è sempre alla loro destra. Non provano stanchezza perché sanno che ogni passo migliora le loro prospettive nel mondo al di là del fiume della morte. E quando sono tornati alle loro tende nere nelle valli lontane, raccontano ai loro amici di tutte le meraviglie che hanno visto, e delle nuvole, che navigano come le antiche navi sotto la bianca vetta di Gangri.




Piccoli ‘ometti’ conici sono ovunque, Tsering non si dimentica mai di prendere un sasso dal margine della strada e di metterlo come suo contributo su ogni  ‘mucchio votivo’, e con ciò fa una buona azione, perché rende meno accidentata la strada a coloro che vengono dopo di lui. Il sole guarda attraverso un varco e proietta una luce gialla brillante nella valle, che altrimenti è in ombra. Il picco ghiacciato appare di nuovo molto di scorcio. Diversi affluenti entrano dalle sponde, e verso sera il fiume sale, contenente ben 280 piedi cubi d’acqua.

 

Un uomo di Gertse ha fatto il giro della montagna per venti giorni consecutivi e ora ha appena compiuto il suo decimo circuito. Dunglung-do è un importante incrocio di valli, dove convergono tre valli: la Chamo-lung-chen da nord, 70° a ovest, la Dunglung da nord, 5° a ovest, e la terza, chiamata nel suo corso superiore Hle-lungpa, che risaliamo.

 

Ora abbiamo il granito su entrambi i lati.




Kailas  piega uno spigolo acuto a nord, e da qui la vetta assomiglia più che mai a un tetraedro, tutto è granito, e quindi le forme montuose sono più rotonde e bitorzolute.

 

Alla fine vediamo il monastero Diri-pu davanti a noi, in piedi sul pendio sul lato destro della valle. Un enorme blocco di granito accanto al sentiero che sale ad esso reca i soliti caratteri sacri, e ci sono anche lunghi ‘manis’, stelle filanti e ‘ometti’. Tutti i pellegrini che abbiamo raggiunto nel corso della giornata si rivolgono al monastero, dove possono pernottare gratuitamente. Il convento è gremito dopo l’arrivo di una comitiva di pellegrini appartenenti alla setta di Pembo. Questi, naturalmente, vagano per la montagna nella direzione opposta, e gli ortodossi lanciano loro sguardi sprezzanti quando si incontrano.

 

Preferisco piantare la tenda sul tetto, dove sono ammucchiati i bagagli dei pellegrini. Anche qui c’è una bella vista del Kailas, la sua vetta protende verso sud. Alle nove fa un freddo sgradevole e soffia un forte vento, la mia tenda, composta solo da del cavalletto coperto da un telo di lino, è troppo piccola per consentire l’accensione di un fuoco.




Ci congediamo dai monaci di Diri-pu, attraversiamo con un ponte il fiume che scende dal passo Tseti-lachen-la nel Trans-Himalaya, dall’altro lato del quale l’acqua scorre verso l’Indo, e sale in direzione est su pendii ripidi e accidentati fittamente disseminati di massi di granito. Alla nostra destra c’è il fiume che è alimentato dai ghiacciai del Kailas; è piuttosto corto ma gonfio d’acqua.

 

Il sentiero si fa ancora più ripido, serpeggiando tra immensi blocchi di granito e porta fino al primo dosso, dopo il quale il terreno è un po’ più pianeggiante fino alla rottura successiva. Qui abbiamo una splendida vista del breve ghiacciaio troncato che, alimentato da una conca di abete ben definita a forma di trogolo, giace sul lato nord del Kailas. Le sue morene terminali, laterali e mediali sono piccole ma distinte. Verso est dal Kailas scorre una cresta estremamente affilata, appuntita e frastagliata, coperta sul lato nord di neve, e cinture di ciottoli nella neve conferiscono a tutto questo lato un aspetto solcato. Da tutti gli angoli del manto di ghiaccio e dei nevai ruscelli spumeggianti si precipitano verso il fiume. Alla nostra sinistra, verso nord, si sono composte le montagne di granito fessurato verticale in forme piramidali selvagge; Kailas è protetto a nord da immense masse di granito, ma la montagna stessa è, con ogni probabilità, un conglomerato, come dimostra il giacimento quasi orizzontale chiaramente percettibile nelle sporgenze sporgenti, le linee di neve nettamente marcate e le cinture di ghiaccio.

 

La vetta si erge su questo mare di montagne selvagge come un possente cristallo di forma esagonale.




Un gruppo di povere donne e bambini sale affaticata verso il passo. Un uomo anziano, che ora sta facendo il suo nono giro, non fa obiezioni a unirsi al nostro gruppo; conosce il paese e può dare informazioni al riguardo. Su un’altra altura nel terreno, chiamata Tutu-dapso, abbiamo visto centinaia di ometti votivi, alti 3 piedi - una vera foresta di piramidi di pietra - come innumerevoli lapidi in un cimitero.

 

Lentamente e faticosamente abbiamo risalito questo arduo valico, uno dei più faticosi dell’intero Viaggio, e sempre più fitti si stendevano i massi esclusivamente di granito in tutte le varietà possibili, alcuni rosa e altri di un grigio chiaro da essere quasi bianco. Tra due massi giaceva un fascio di vestiti dall’aspetto sospetto. Lo esaminammo e trovammo che conteneva il corpo di un uomo che era crollato durante il giro della montagna degli dei. I suoi lineamenti erano rigidi e sembrava povero ed emaciato. Nessuno sapeva chi fosse, e se avesse avuto dei parenti non avrebbero mai saputo che il suo pellegrinaggio lo aveva lanciato in nuove avventure tra i labirinti oscuri delle migrazioni dell’anima.




Il nostro vecchio si ferma davanti a un blocco piatto di granito di dimensioni colossali, e dice che questo è un dikpa-karnak, o una pietra di prova per i peccatori. Sotto l’isolato corre uno stretto cunicolo, e chi è senza peccato, o comunque ha la coscienza pulita, può insinuarsi nel passaggio, ma l’uomo che si infila in mezzo è un farabutto.

 

Circa 200 passi più in là in questo labirinto di massi di granito, tra i quali vagavamo come in vicoli tra case basse e muri, si erge una pietra di prova di un altro tipo. Si compone di tre blocchi addossati l’uno all’altro, con due incavi tra loro. Il compito è strisciare attraverso il passaggio sinistro e tornare a destra, cioè nella direzione ortodossa. Qui Ishe ha compensato la sua precedente scomodità strisciando attraverso entrambi i buchi. Gli ho detto francamente che qui non c’era bisogno di abilità, perché i buchi erano così grandi che anche i piccoli yak potevano attraversarli. Tuttavia, il peccatore aveva in questa seconda pietra l’opportunità di preservare almeno una dimostrazione di giustizia.




Le nostre peregrinazioni intorno a Kang-rinpoche, la ‘montagna di ghiaccio sacra’ o il ‘gioiello di ghiaccio’, è uno dei miei ricordi più memorabili del Tibet, e capisco perfettamente come i tibetani possano considerare un santuario divino questa meravigliosa montagna che ha   somiglianza con un chhorten, il monumento eretto in memoria di un santo defunto. Quante volte durante i nostri vagabondaggi avevo sentito parlare di questa montagna di salvezza! E ora io stesso ho camminato in abito da pellegrino lungo il sentiero tra i monasteri, che sono incastonati, come pietre preziose in un braccialetto, nel percorso dei pellegrini attorno a Kang-rinpoche, il dito che punta verso i potenti troni degli dèi come stelle in insondabili spazi.

 

Dagli altopiani di Kham nel più remoto oriente, da Naktsang e Amdo, dall’ignoto Bongba, di cui abbiamo sentito parlare solo in vaghi resoconti, dalle tende nere che si ergono come le macchie di un leopardo sparse tra le cupe valli del Tibet, dal Ladak nelle montagne dell’estremo ovest e dalle terre himalayane del sud, migliaia di pellegrini vengono qui ogni anno, per percorrere lentamente e in profonda meditazione le 28 miglia intorno all’ombelico della terra, la montagna della salvezza.




Ho visto il corteo silenzioso, le schiere fedeli, tra le quali sono rappresentate tutte le età ed entrambi i sessi, giovani e fanciulle, uomini forti con moglie e figlio, vecchi grigi che prima di morire avrebbero seguito le orme di innumerevoli pellegrini per guadagnarsi una vita più felice dell’esistenza, cenciosi che vivevano come parassiti della carità degli altri pellegrini, mascalzoni che dovevano fare penitenza per un delitto, ladri che avevano depredato pacifici viandanti, capi, funzionari, pastori e nomadi, un variopinto corteo di ombrosa umanità sulla strada spinosa, che dopo secoli interminabili si conclude nella profonda pace del Nirvana.

 

Agosto e la serena Siva guarda in basso dal suo paradiso, e Hlabsen dal suo palazzo ingioiellato, sugli innumerevoli esseri umani sottostanti che girano, come asteroidi attorno al sole, in comitive sempre fresche, attorno ai piedi della montagna, salendo attraverso la valle occidentale, attraversando il passo Dolma, e discendendo la valle orientale.




Scopriamo presto che la maggior parte di questi semplici pellegrini non ha un’idea chiara dei benefici che il Viaggio dovrebbe conferire loro. Quando vengono interrogati, di solito rispondono che dopo la morte sarà loro permesso di sedere vicino al dio di Gangri. Ma ciò che tutti credono fermamente e ostinatamente è che il pellegrinaggio porterà loro una benedizione in questo mondo. Allontanerà ogni male dalle loro tende e capanne, terrà lontano le malattie dai loro figli e dalle loro mandrie, li proteggerà da ladri, manderà loro pioggia, buon pascolo e cresceranno tra i loro yak e pecore, agirà come un talismano, e custodiscono se stessi e le loro proprietà come i quattro re degli spiriti proteggono dai demoni le immagini delle sale del tempio.

 

Marciano con passo leggero ed elastico, non sentono né il gelido vento tagliente né il sole cocente, dalle potenze del male che perseguitano e tormentano i figli degli uomini.




Iniziano il loro cammino da Tarchen-labrang e ogni nuova svolta sulla strada li avvicina di un passo al punto in cui l’anello si chiude. E durante tutto il peregrinare pregano Om mani padme hum, e ogni volta che viene pronunciata questa preghiera lasciano passare un granello del rosario tra le dita. Anche lo sconosciuto si avvicina a Kang-rinpoche con un senso di stupore.

 

È incomparabilmente la montagna più famosa del mondo.

 

L’Everest e il Monte Bianco non possono competere con questo Dio. Eppure ci sono milioni di europei che non hanno mai sentito parlare di Kang-rinpoche, mentre gli indù ei lamaisti, tutti conoscono il Kailas, anche se non hanno idea da dove il Monte Bianco alzi la propria lingua chiodata scalata da ogni benedetto peccatore della Terra, perciò ci si avvicina alla sacra montagna con lo stesso sentimento di rispetto che si prova a Lhasa.




La nostra guida ci ha detto che era al suo nono giro della montagna. Ci vollero due giorni ciascuno, e intendeva fare il giro tredici volte. Lo ha chiamato Kang-kora, il circolo di Gangri. Molti anni prima aveva compiuto l’impresa meritoria chiamata gyangchag-tsallgen, che consiste nel misurare la lunghezza del cammino in base alla lunghezza del corpo del pellegrino. Uno di questi pellegrinaggi vale tredici circuiti ordinari a piedi. Il mio pellegrinaggio non aveva alcun valore, perché stavo cavalcando, disse il vecchio.

 

Devo andare a piedi se voglio trarne vantaggio.


(Prosegue...)








martedì 19 settembre 2023

MISTICHE SPELONCHE CHE INVOCANO LA PACE (10)

 









Precedenti capitoli 


fra grotte spelonche  


templi e Eremi  (8)    [9]  







Prosegue con l'uomo  


che cercò di salvare... (11) 







Prosegue con taluni 


approfondimenti   [12]  







di Settembre (13/4)







Le Carceri, con la povera vita che vi si svolgeva, ci appare come il tipico esempio di insediamento romitoriale francescano che privilegia grotte naturali, caverne, spechi, tuguri, spelonche del tutto analoghe a quelle nelle quali si erano svolti gli eventi della vita di Cristo. Lo stesso toponimo delle Carceri deriva dalla consuetudine che avevano i primi seguaci di Francesco di ‘carcerarsi’, cioè di rinchiudersi, provvisoriamente ciechi e sordi al mondo, nelle grotte del Subasio o in quelle di altre remote e solitarie contrade.

 

La costruzione dei conventi che vediamo oggi, frutto della sistematica opera di fondazione di Bernardino da Siena, ha obliterato l’aurorale esperienza fatta dai seguaci di Francesco, fra il primo e il secondo decennio del XIII secolo, i quali vivevano nella più stretta consonanza evangelica e cercavano ospitalità nel nudo grembo della natura o presso le genti più umili.




Per quanto spesso dimenticati o ridotti a mera curiosità turistica, i ricetti naturali legati a quell’esperienza originaria – le grotte, gli anfratti, le caverne, gli spechi – sono comunque ancora oggi rintracciabili in prossimità o all’interno della maggior parte degli eremi divenuti dei conventi, dalla Verna, a Montecasale, a Monteluco, a Greccio, a Fonte Colombo, e hanno lasciato traccia di sé perfino negli appellativi, come dimostrano lo Speco di Narni o quello di Poggio Bustone, le Celle di Cortona o la Romita di Cesi.

 

Tutti questi luoghi hanno una grotta, un anfratto, un tugurio sul quale, o nei cui pressi, sarebbe sorta una struttura conventuale stabile, glorificando con la solidità delle mura, ma nella realtà trasformandola radicalmente, la Regola francescana delle origini che non prevedeva né stabilità, né troppo rigida organizzazione, né possesso diretto o indiretto di beni e tanto meno di terreni o di costruzioni.




Gli eremi delle origini, cioè gli anfratti offerti dalla natura, sono l’emblema della primitiva precarietà perseguita da Francesco e ne costituiscono la tangibile testimonianza. Simili alle ‘mistiche spelonche’ della Terrasanta, quelle grotte primordiali sussistono come reliquie di un’epica esperienza evangelica. La grotta, il letto, lo speco e altri anfratti della leggenda francescana sono dei reperti archeologici incastonati nelle fisse strutture conventuali. Nella loro sussistenza spesso negletta, nelle rimpicciolite dimensioni in cui ci appaiono i così detti ‘letti’ di Francesco, nel disagio fisico che comunicano, nella gelida, buia umidità in cui sussistono, narrano un’avventura spirituale e corporale estrema, quasi inconcepibile, per la cui commisurazione non esistono altri parametri che non siano quelli delle Sacre Scritture.




Nelle loro originali conformazioni che nulla hanno di artefatto, queste località eremitiche narrano una storia che è più antica di quella evangelica alla quale, loro tramite, Francesco si richiama. Con le loro grotte, queste località rappresentano il grembo oscuro, ctonio, abissale attraverso il quale la natura si lascia indagare e nel quale Francesco penetra, si raccoglie, si nasconde cercandovi rifugio nei momenti di meditazione. Il suo vivo senso del luogo, che è già di per sé una categoria del pensiero precristiano, percepisce in quei misteriosi squarci della roccia, in quegli anfratti, la connessione con una remota sacralità che vi si è sedimentata, con un’ancestrale vocazione votiva che è parte integrante dell’eredità pagana. Anche in questo suo far propria la sacralità latente dei luoghi, Francesco mostra tutta la sua originalità.




Egli infatti rigetta la cultura del suo tempo portata a demonizzare qualsiasi residuo cultuale pagano e per la quale grotte, selve, rovine, deserti sono luoghi ostili nei quali sono andate a nascondersi le antiche divinità che la religione cristiana ha trasformato in demoni. In nome della natura intesa da sempre come manifestazione divina, Francesco mette in atto la transizione non violenta dalla sua sacralità pagana a una sacralità cristiana. Allo stesso tempo tuttavia, dalla Verna, a Greccio, a Poggio Bustone, quasi tutti gli eremi si affacciano su spazi aperti, aerei, sconfinati, spazi che sembrano evocare l’altro aspetto dell’esistenza quotidiana di Francesco, il suo apostolato, il suo migrare senza requie, il suo sollecito accorrere in aiuto dei bisognosi. In questo senso, le imprescindibili soste con le pause meditative nelle latebre della natura non sono avulse da quelle distanze luminose che sembrano attendere la sua parola e la sua azione.




Dopo la valle di Assisi e il complesso montuoso della Verna, non c’è località che, come la valle di Rieti, o Valle Santa, conservi intatta un’ampia messe di memorie trasmesse dalle cronache francescane. La valle custodisce quattro romitori che si trovano sulle alture circostanti: Greccio, Fonte Colombo, Santa Maria della Foresta e Poggio Bustone. Ognuno dei romitori riflette un capitolo della vita di Francesco che volle fare di grotte e anfratti dei luoghi di meditazione trasformandoli, secondo la consuetudine che gli era cara, in insediamenti fittizi.

 

Nella sua vita peregrinante, egli percorse le antiche strade romane, la Salaria, la Flaminia, la Tiberina, ma si inerpicò spesso per le mulattiere che si svolgevano lungo i crinali o risalivano le pendici dei monti del Ternano e del Reatino. Nella Vita prima Tommaso da Celano riferisce che quando Francesco, attorno al 1208, decise di suddividere la comunità in gruppi di due confratelli, per andare ad annunciare ‘la pace e la penitenza in remissione dei peccati’ nelle più varie contrade, scelse per sé e per il suo compagno la valle di Rieti.




La prima biografia di Francesco ci dice quindi che il Reatino fu uno dei primi territori di espansione dei frati Minori. Pur essendo Francesco contrario all’edificazione o all’uso di sedi stabili, è comunque certo che i confratelli usavano ritrovarsi in luoghi o ricetti provvisori – grotte, anfratti, spechi – ben definiti e ricorrenti nella biografia francescana. Tommaso da Celano fa riferimento specifico a due insediamenti nel territorio reatino: Greccio e Poggio Bustone. Fonti storiche successive aggiungono il romitorio di Fonte Colombo. Occorre ricordare che questi insediamenti, che oggi ci appaiono in totale solitudine, avulsi da qualsiasi contesto abitativo, al tempo di Francesco non erano lontani da nuclei produttivi e da incastellamenti di un qualche rilievo. Con il tempo, questi centri si sarebbero impoveriti per l’inurbamento degli abitanti nella città di Rieti. Non per caso si legge nella biografia redatta da Tommaso da Celano che Francesco faceva di tutto per ricondurre sulla retta via i riottosi e irrequieti abitanti del paese di Greccio.




Fu a ridosso di questi tracciati che Francesco dette vita a sparuti cenobi situati a poca distanza da incastellamenti e quindi di facile raccordo con le comunità circostanti. Fra questi figura l’eremo di Greccio, che appare aggrappato alle pendici del monte Lacerone, nei pressi del borgo medievale omonimo. Di lassù, a sommo dell’altura, nel piazzale dell’eremo dove si giunge salendo una lunga scalinata intagliata nella rupe, lo sguardo abbraccia tutta la valle di Rieti irrorata dal fiume Velino. Sullo sfondo di questo panorama si vede la mole solenne del Terminillo e più oltre, sulla linea dell’orizzonte, si profila la sagoma del Gran Sasso.

 

Circa la fondazione dell’eremo, Tommaso da Celano afferma nel 1228: ‘Oggi quel luogo (Greccio) è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare poi divenuto una chiesa in onore del Santo Francesco’.




Con l’appellativo di Betlemme francescana, l’eremo è noto in tutto il mondo perché, nel dicembre del 1223, Francesco vi mise per così dire in scena la rappresentazione corale della nascita di Cristo insieme ai confratelli, i contadini, i pastori e i loro animali, con i ceri e le fiaccole che illuminavano la notte. La celebrazione del Natale di Greccio è strettamente collegata al ruolo centrale che Francesco attribuisce all’incarnazione come manifestazione umana del divino, una visione del Dio fatto uomo in cui la corporeità esprime tutte le sue ineludibili istanze.

 

Tramite tale rievocazione, Francesco intendeva, come narra Tommaso da Celano, ‘far memoria del Bambino che è nato a Betlemme, e vedere con gli occhi del corpo i disagi per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come fu posto sul fieno fra il bue e l’asino’. Ma Greccio costituisce anche una sorta di drammatico spartiacque fra la movimentata, precaria esistenza di Francesco, e il sofferente ripiegamento interiore causato dai contrasti con le nuove leve di confratelli propensi allo sviluppo di sedi stabili, e dai malanni sempre più acuti e laceranti che gli squassano il corpo.




Le mura scabre e gli archi di sostegno torreggianti sul baratro petroso fanno di Greccio, sorto nelle forme attuali attorno al 1246, il prototipo dell’eremo conventuale di ogni epoca. Come nella maggior parte degli insediamenti costruiti a ridosso del monte, le pareti si saldano alla roccia che sembra accettarne di buon grado l’intrusione. C’è chi l’ha paragonato addirittura a un pipistrello gigante inchiodato alla rupe. Il complesso si sviluppa su più livelli e la nuda pietra accompagna lo stretto corridoio che penetra nella parte più antica.

 

Vi si incontra dopo pochi passi il refettorio con l’antico lavabo, due affreschi del XVI secolo e il dormitorio con la celletta, detta ‘sacro Speco’, scavata nella roccia dove riposava Francesco. Il dormitorio fu realizzato interamente in legno nel XIII secolo, al tempo di Bonaventura da Bagnoregio, generale dell’Ordine. Esso è costituito da uno stretto corridoio che dà accesso a quindici piccole celle e alla primitiva chiesa del santuario intitolata a Francesco e a Bonaventura risalente alla prima metà del Duecento.




È divisa in due parti da una grata sormontata da un crocifisso di legno del XIV secolo che pende dal soffitto. Un dipinto cinquecentesco di scuola umbra, un affresco trecentesco, San Francesco e l’angelo che gli annuncia la remissione dei peccati, un pregevole tondo quattrocentesco attribuito a Biagio d’Antonio e raffigurante la Madonna con il Bambino impreziosiscono l’ambiente. Gli stalli del coro, un leggio e un supporto girevole con lanterna che permetteva di illuminare le pagine del corale e altri pregiati arredi lignei creano una calda, mistica atmosfera.




Non alterata da chi vi ha abitato per secoli, la pietra accompagna i sinuosi passaggi, le strettoie, i pertugi con sporgenze vertiginose e massi aggettanti che formano le grotte e i rudimentali giacigli dei primi, occasionali abitatori di questa ruvida costa. Diceva infatti Tommaso da Celano che ‘nei giacigli e nei letti era così in onore la povertà, che chi aveva poveri panni distesi sulla paglia, credeva di avere un letto sontuoso’. Lo stesso sentiero che dalla valle sale al convento con strappi repentini, fra boschi di lecci e pareti di roccia, è a un tempo lettera e metafora del cammino del pellegrino. Ancor più doveva esserlo quando, all’alba del Novecento, per giungere all’eremo, a quel tempo disabitato, si doveva risalire, come narrano i viaggiatori, il letto sassoso di un torrente ridotto a esiguo rigagnolo.

 

Narra la Leggenda Maggiore che tre anni prima di morire, durante il periodo natalizio, Francesco era in viaggio nelle vicinanze di Rieti con l’intenzione di fermarsi a Greccio. Volendo rendere grazia a Dio, chiamò Giovanni Velita che possedeva molte grotte e terre e che era caro al santo perché, pur essendo nobile e onorato in quella regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Francesco gli rivelò che era suo desiderio celebrare a Greccio il Natale di Gesù, utilizzando ciò che l’ambiente offriva.




Questa rappresentazione avrebbe permesso di vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui il Bambino si era trovato, adagiato sul fieno di una greppia tra il bue e l’asinello. Il pio Giovanni avrebbe dovuto preparare la scena in una grotta della montagna indicata dal santo, non lontana dall’eremo. La notte di Natale gli uomini e le donne del luogo, tutti insieme, avrebbero pregato nella grotta, giacché il Bambino Gesù, dimenticato nei cuori di molti, per grazia di Dio rinasceva alla presenza di tutti.

 

Nel corso della visita a Greccio, fuori dell’edificio si scorge un crepaccio della rupe incorniciato dagli stipiti di una porta a cui si accede da due scalini. In alto si distinguono due goffi, antichi affreschi: un monaco che dalla bocca lascia uscire un fumetto con la scritta Silentium e un Volto Santo incoronato. Sarebbero stati entrambi scoperti sotto la mano d’intonaco. Sulla soglia della porta si legge la parola Clausura. Tramite questa porta si entra in una caverna dove regna la notte. Un poco alla volta, l’occhio scopre delle cavità, o nicchie, ricavate nei muri: probabilmente i giacigli naturali dei primi compagni di Francesco. Come altrove, anche qui il suo riposo ignorava le comodità più elementari. Francesco venne in questo luogo martoriato dall’operazione agli occhi che aveva subito a Fonte Colombo e i suoi fratelli furono i primi a cercare di mitigare tanta sofferenza. Un’altra porta, che si trova nella medesima parete rocciosa, introduce nel corridoio che porta alle celle.




Al piano inferiore, proprio sotto il dormitorio, c’è la grotta nella quale Francesco e i suoi frati consumavano i pasti. Ma i muri possenti, tirati su nel corso dei secoli per sostenere l’edificio, l’hanno in parte alterata Lo stesso destino è toccato alla cappella del Presepio, ossia la grotta in cui, nel 1223, si svolse la scena evangelica. L’anfratto non dà più all’aperto come in passato, ma si trova all’interno del convento, sulla sinistra del corridoio d’ingresso. Ciò malgrado, quello che resta della grotta primitiva è pur sempre una testimonianza che, come ricordano i pellegrini, parla al cuore e all’immaginazione. In questo piccolo oratorio, detto cappella di San Luca, il visitatore si rende conto che la rievocazione della scena di Betlemme, improvvisata qui dal genio di Francesco, è stata come una seconda nascita del cristianesimo.

 

(Brilli/Neri)


 [PROSEGUE... IL DIFFICILE CAMMINO]








venerdì 15 settembre 2023

RINASCERO' 'BUDDA' (IN UN NON LONTANO PICCOLO EREMO) (8)

 









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8 Settembre... (7)  


Prosegue con la...: 


lingua degli Dèi [9]  


Fra spelonche 


e caverne (10/1)







Dunque la vacuità è la vera essenza di tutte le cose…

 

Che significa questo?

 

Significa che normalmente attribuiamo una definizione, un’etichetta, un nome (e un giudizio anche e soprattutto a fenomeni associati, come abbiamo letto precedentemente, all’erronea interpretazione di Diavoli e Dèmoni, i quali [assieme a ‘sorella morte’ che li accompagna in nuova ‘vita’] ‘popolano’ la nostra ed altrui ‘sacra cultura’ secondo schemi certamente mutati, e/o evoluti, ma saldamente stratificati nelle coscienze non meno dei ‘riti’ che più ci appartengono; i quali, ci dovrebbero ‘distinguere’ sempre in merito e per conto* di quel progresso di cui teniamo il dovuto conto* [* e si badi bene questo non è un ‘doppio errore grammaticale’ per chi si vuol porre alla cattedra della propria ed altrui cultura e natura, ma una semplice constazione, giacché si continua a negare, oggi non meno di ieri, il ‘conto’ dei veri dèmoni uniti in una più vasta corte assisa e connessa attentare la vita..], almeno che questo non sia solo uno strumento, assieme all’intera evoluzione, misurato o peggio contato e coniato nell’araldo della cieca ostinazione dell’economico traguardo… nei secoli della Storia occidentale… assommata…) a tutto ciò che incontriamo nella vita di ogni giorno.




Questi pensieri che sovrapponiamo a tutta la nostra ed altrui esperienza compongono dunque la realtà apparente delle cose; e a questo punto non ci sfiora più il sospetto che tutte quelle che ci appaiono come cose, persone e situazioni realmente esistenti in sé e per sé – dalla loro propria parte – siano in realtà costruite dalle nostre percezioni, dal nostro modo personale di percepire e di reagire a tutto quello che ci circonda. In tutto ciò che facciamo, diciamo e pensiamo, siamo guidati dalla nostra mappa personale del mondo – a la mappa di ciascuno è diversa da quella di tutti gli altri e, qualsiasi caso, la mappa non coincide mai con il territorio. Il mondo che abbiamo costruito, quello a cui reagiamo con maggiore o minore impeto emotivo, con maggiore o minore gioia, attaccamento, rabbia, noia, delusione, paura, indifferenza o dolore – a seconda dei casi e degli individui – è un prodotto del nostro karma, cioè dell’immenso bagaglio di esperienze e tendenze abituali soggettive, sia consce che inconsce… ma anche e soprattutto il grado della nostra ed altrui… conoscenza infatti secondo taluni dettami del Buddhismo...




 

IL PRIMO DEI DODICI ANELLI: L’IGNORANZA FONDAMENTALE…

 

Il primo dei dodici anelli è l’ignoranza (in alto ‘a ore dodici’, spostato verso la destra di chi guarda), rappresentata da una vecchia bendata che brancola nella confusione e nel disorientamento più completi.

 

Il primo anello, la causa prima di tutto il samsara (ammesso che si possa parlare di una ‘causa prima’) è l’ignoranza, cioè la non–conoscenza

 

…Naturalmente questa è anche la causa fondamentale di tutta la sofferenza che gli esseri senzienti sperimentano: e questo è già di per sé molto interessante, o degno di riflessione – specialmente se paragoniamo il Buddhismo ad altre tradizioni religiose in cui si afferma che la causa di ogni sofferenza è il male.




Il male in quanto entità indipendente, nel Buddhismo non è neppure menzionato: se un male assoluto (un principio di completa malvagità intrinseca) esistesse, indovinate cosa farebbe? La prima cosa che farebbe è distruggere se stesso, perché cos’altro potrebbe fare qualcuno o qualcosa che è male o diabolico?

 

Viceversa, nel Buddhismo affermiamo che tutti gli esseri, senza alcuna distinzione, desiderano la felicità e cercano di evitare la sofferenza; questo fondamentale desiderio o ricerca della felicità personale è di fatto il contrario del male – anzi è forse una scintilla della nostra natura di Buddha, un bagliore della nostra ‘bontà fondamentale’…




 Purtroppo, però, una cosa è desiderare un oggetto (come la felicità), altro è riuscire ad ottenerlo. È la confusione, o ignoranza, che spinge gli esseri a pensare, parlare e agire in maniera totalmente controproducente rispetto alla propria felicità.

 

Gli esseri – accecati dall’ignoranzapensano di poter raggiungere la felicità danneggiando gli altri (che, come loro stessi, desiderano la felicità), per esempio truffando, imbrogliando, prevaricando, rubando, uccidendo, approfittando di chi è più debole, usando ogni forma di violenza diretta o indiretta per essere i primi ad ottenere qualcosa alle spese degli altri.




Ma questo non funziona – mai!e i carnefici sono in realtà le prime vittime del proprio stesso comportamento; perché una cosa è certa: nella vita, l’energia che investiamo è quella con cui veniamo ricompensati e, di conseguenza, chi danneggia o si comporta male con gli altri è automaticamente e simultaneamente “punito” per le proprie azioni… con l’impossibilità di trovare la pace della mente e un’autentica felicità.

 

Non c’è bisogno di credere a questo per atto di fede, basta guardarsi attentamente intorno per verificare – sulla base di esempi concreti, presi dalla vita di ogni giorno – se tutto ciò è vero o meno.

 

Il motore che mette in movimento la ruota del samsara è dunque l’ignoranza.




Ma ignoranza di cosa?

 

Negli insegnamenti Dzogchen parliamo di ignoranza (o non – conoscenza) della base. La base è la condizione primordiale di tutti i fenomeni, animati e inanimati; è la condizione primordiale della nostra mente e di tutto ciò che esiste.

 

‘Primordiale’ qui si riferisce a qualcosa che esiste fin da un tempo senza inizio, qualcosa che è connaturato all’esistenza stessa – e anche all’inesistenza, poiché queste due sono inseparabili, come due facce della stessa medaglia. Dunque il termine primordiale, in ambito buddhista, non significa ‘fin dall’inizio di tutte le cose’, per il semplice fatto che un inizio di tutte le cose non c’è mai stato.

 

Dunque la base è la condizione primordiale di tutti i fenomeni, di tutti i mondi e di tutti gli esseri che li abitano.




La base è lo stato primordiale della nostra mente; la conoscenza diretta di questa base costituisce il punto di vista, o anche visione.

 

Il punto di vista si sviluppa attraverso tre livelli di progressivo rafforzamento:

 

1) comprensione intellettuale: è quella che si può ottenere leggendo, ascoltando, riflettendo e studiando. Costituisce una tappa fondamentale, il punto da cui bisogna partire;

 

2) esperienza: è quella che si raggiunge attraverso la pratica della meditazione. È accompagnata da un senso di beatitudine interiore, di chiarezza e di libertà dal pensiero concettuale – ma, se non la si coltiva, può essere perduta o dimenticata;  

 

3) realizzazione: è il frutto della pratica ed è irreversibile, una condizione che non può più andare perduta e rimane stabilmente con il praticante – al di là di ogni distinzione fra meditazione e non meditazione. 

(Dzogchen Nyingthig; il ‘corsivo’ del curatore del blog)





 

 “Laudato sii, o mio Signore/, per nostra sora Morte corporale/, dalla quale nessun uomo vivente può scampare/. Guai a quelli che morranno nel peccato mortale/. Beati quelli che si troveranno nella tua volontà/  poiché loro la morte non farà alcun male/”.

 

 

….La morte appunto….

 

Cerchiamo di approfondire senza divergere  confondere e/o difettare nella pretesa del ‘sapere’ confuso per dotta sapienza, dalla quale, per altro, il santo si distinse per sua umiltà, ed in questa stessa umiltà rileviamo talune simmetrie oppure universalità che dovrebbero rendere la disquisizione riflessa nella conoscenza di ciò di cui ‘intuito’ nella propria luce ‘onda e particella’ senza precipitare in qualsivoglia paradossale condizione a cui il ‘valente dotto’ - oggi più di ieri - assente alla moneta di Dio pur scalando ugual vetta… E di cui sovente, infatti, difetta per propria ricchezza: non un caso abbiamo aperto ‘tre tomi’ così come l’antica ed uguale sacralità voleva, ma forse per paura di medesimo male ci aggrappiamo ad una antica teologia e ‘formula’ confusa e perseguitata per magia… rimembrando e celebrando Frate Sole e Sorella Luna*….


 



 Con le laudi e le preghiere, siamo trasportati nel campo della poesia: una poesia alta, vivificata dal soffio sempre presente della Scrittura e animata da una devota attenzione ai ritmi liturgici. Che Francesco fosse poeta, o avesse comunque esperienza dell’arte dei rimatori e dei giullari, è cosa nota: e in questo la lunga vita penitenziale non sembra aver compromesso le sue capacità espressive. In forma di laude, abbiamo in lingua latina un Saluto alle virtù (sono sei, in tre coppie: la sapienza con sua sorella, la semplicità; la povertà con sua sorella, l’umiltà; la carità con sua sorella, l’obbedienza); un Saluto alla Vergine Maria; le Lodi di Dio altissimo e la Benedizione a frate Leone, insieme sulla piccola pergamena autografa che già conosciamo; le Lodi per ogni ora; l’Esortazione alla lode di Dio. In forma di preghiera, una Parafrasi del ‘Padre Nostro’ e un ampio Ufficio della Passione del Signore ci offrono una sia pur problematica panoramica delle cognizioni metriche, liturgiche e teologiche di Francesco: hanno dato molto filo da torcere agli studiosi moderni, sia perché è difficile ristabilirne il testo originale, sia perché è quasi impossibile conoscere con precisione il ruolo che direttamente a lui spetta nella loro composizione.

 

Fu sempre durante i circa due mesi di soggiorno in San Damiano per dar un qualche sollievo al suo fisico ammalato che Francesco avrebbe scritto le Laudes creaturarum o Laudes Domini de Suis creaturis: quella composizione in volgare che, con il nome di Cantico delle Creature o Cantico di Frate Sole, viene considerata la prima opera poetica della letteratura italiana.




Le sue sofferenze, durante la degenza in San Damiano, si erano fatte acutissime. La ‘quartana’ lo assaliva con i suoi accessi febbrili che dovevano dar spesso luogo a forme di allucinazione; il tracoma gli impediva ormai di distinguere se non qualche ombra confusa; la notte non riusciva a prendere sonno. Secondo la Compilatio Assisiensis fu all’alba di una di queste notti terribili, ricevuta in spirito l’assicurazione del premio che lo attendeva, che egli compose il Cantico.

 

Quel che più colpisce noi moderni, figli di una civiltà tesa tutta a negare un senso al dolore, alla malattia, alla morte, è questa capacità di lodare Iddio per il sole e il fuoco da parte di un uomo al quale la luce era rifiutata; questa capacità di lodarLo per le sofferenze non già quando esse erano lontane e tale lode poteva sembrare un esercizio teologico, ma proprio mentre esse gli straziavano le carni.

 

Uno degli inni più belli e pieni alla vita, alla gioia, al mondo che siano mai stati composti è nato dalle piaghe e dal dolore.

 

Qui sta l’esemplarità di Francesco; qui la sua irraggiungibile incomprensibilità per noi moderni, che appare evidente quando ci si renda conto di quanto illegittima sia l’estrapolazione di questa o di quella caratteristica in apparenza più vicina a noi e ai nostri tempi al fine di ricavarne una figura per noi agevolmente fruibile ma anacronistica, deformata, pretestuosa.




Perché il Francesco-pace, il Francesco-natura, il Francesco-semplicità che tanto ci piacciono e che magari servono sovente da alibi retorici o demagogici hanno sì una loro realtà: ma solo se inseriti nel loro tempo e commisurati al modello del Cristo. Ma, poiché questo modello viene dai moderni reso implicito o minimizzato o respinto, è evidente che l’esperienza di Francesco sfugga loro.

 

Ai primi di giugno Francesco, abbandonato San Damiano, si recò presso Rieti dove esercitava la sua arte un medico molto esperto nelle malattie degli occhi: il cardinal Ugo gli aveva esplicitamente ordinato infatti di curarsi la vista. La testa coperta da un grande cappuccio al quale era cucita una fascia che gli copriva gli occhi, fu sistemato su una cavalcatura e raggiunse l’eremo di Fonte Colombo nella Valle Reatina.

 

Il tracoma gli procurava bruciori, pruriti e una continua lacrimazione sanguigna e purulenta: secondo le cognizioni mediche del tempo, tale flusso derivava da un eccesso di umori freddi e umidi, ai quali bisognava rispondere con un rimedio caldo e secco che ridonasse agli organi malati il loro equilibrio umorale. Quel rimedio era il ferro rovente, il cauterio. L’oftalmologo di fiducia del cardinal Ugo (al-Kamil avrebbe avuto di meglio da offrire al suo strano amico cristiano…) sentenziò che era necessario cauterizzare dalla mascella al sopracciglio: una lunga incisione, che avrebbe disseccato le fonti dell’umore. Francesco aveva paura; e, per vincerla, parlò al fuoco.

 

Fratello mio Fuoco, nobile e utile tra le creature dell’Altissimo, sii cortese con me in quest’ora. Io ti ho sempre amato, e ancora di più ti amerò per amore di quel Signore che ti ha creato. E prego il nostro Creatore che temperi il tuo ardore, in modo che io possa sopportarlo.




In pagine come queste sembra riemergere – pur attraverso il filtro di una fonte riflessa, che mai con certezza ci assicura che davvero certe parole siano state dette o che comunque rispondessero allo spirito di Francesco – un lato fra i più affascinanti ma anche inquietanti dei suoi.

 

Figlio di quell’area dell’Italia centrale che ha il suo centro nei Monti Sibillini fra Norcia e Ascoli Piceno, e che anche ai nostri giorni è una delle grandi riserve di cultura folklorica della penisola, Francesco sembra spesso pensare e agire in una temperie sospesa fra religiosità popolare e magia.

 

Nell’ordalia dinanzi al sultano come quando parla con gli animali; quando scrive per frate Leone assediato da una tentazione una chartula di benedizione che ha indubbi contatti formali con il ‘breve’ – la striscia di carta su cui si scriveva una formula magica e che, portata indosso, preservava da malattie e da pericoli – come quando pronunzia, qui appunto, una preghiera che sembra un incantesimo, egli ci lascia interdetti:

 

…sta ripercorrendo quasi istintivamente le vie di una religiosità sincera certo, ma sotto il profilo formale eclettica, quella propria dei laici illiterati del tempo che, senza alcuna intenzione ereticale, adattavano alla fede cristiana gesti e formule di essa ben più antichi, tramandati attraverso le generazioni?




Si può davvero credere che, dopo un ventennio dalla conversio, dopo aver frequentato papi e cardinali e aver partecipato magari ai lavori di un Concilio Ecumenico e senza dubbio a quelli dei Capitoli dell’Ordine, e dopo aver per giunta conseguito il diaconato, egli potesse restare ciò nondimeno attaccato a certe forme di religiosità popolare e acriticamente ricorrervi?

 

O si deve piuttosto ritenere che in quegli estremi momenti della sua vita riemergessero vecchie, tenere usanze familiari, parole e gesti che sembravano dimenticati?

 

Sta comunque di fatto che, come al di là di qualche somiglianza formale nessuna confusione può nascere tra atteggiamento di Francesco dinanzi alla natura e posizioni panteistiche, allo stesso modo nessun equivoco può sussistere riguardo a supposte componenti magiche della sua personalità e delle sue azioni. Sotto il profilo formale, è noto – ed è ovvio – che la preghiera e l’incantesimo si somigliano.




Quel che tuttavia le distingue è che il presupposto della prima si fonda unicamente sulla volontà di Dio: il fiat voluntas Tua è la necessaria premessa di qualunque preghiera, almeno nel mondo delle tre religioni monoteistiche, trascendenti e rivelate, scaturite dal ceppo abramitico.

 

Al contrario, il presupposto del rito magico è che le occulte connessioni fra le cose possano essere attivate e condizionate da riti adatti sulla base di un puro meccanismo di causa-effetto: se il mago conosce la natura e sa con quali parole e quali gesti a essa si comanda, può ottenere quel che vuole mediante la semplice esecuzione corretta del rito. Per questo preghiera e incantesimo, tanto simili sotto il profilo morfologico, sono opposti e inconciliabili sotto quello concettuale: almeno quando si crede in un Dio unico, Creatore e Signore della natura, onnipotente e assolutamente giusto e buono.




In questo caso ogni ricorso al fiat voluntas mea della magia è illusorio nella misura in cui la natura è soggetta solo al Creatore ed empio in quanto rappresenta una ribellione al volere di Dio. Se teniamo presente questa distinzione, ci renderemo conto che non può nascere alcuna ambiguità: quelle di Francesco sono sempre e soltanto ‘preghiere’ (seppure aggiungiamo, nella misura in cui la ‘preghiera’ è un fine e un successivo [futuro] ‘inizio’ per scacciare il ‘male’; ed in questo caso la natura della preghiera o della ‘formula magica’ per giungere al Pensiero e Dio [o Infinito], non contiene, fors’anche ‘contempla’, il maleficio della differenza da cui il karma della ‘materia’…).. 

(F. Cardini) 

 

* Nelle credenze dottrinale Bon si osserva come alla ritualità di tipo funerario sia attribuito uno specifico ambito. Infatti nel ‘quarto Veicolo o Via’ ovvero la ‘via dello gshen della esistenza’, si tratti per intero delle pratiche inerenti alla sfera della morte…

 

È fissato in dettagli il cerimoniale che un bon-po qualificato deve celebrare nel momento della morte di una persona. L’intero rituale si base sull’assunto che sia necessario prendere la capacità di evocare il principio cosciente del defunto così da riuscire, in virtù del potere del rito, ad orientarlo verso il raggiungimento della salvezza…

 

…A questo periodo, comunemente si fa risalire l’occultamento di una serie di scritti, attribuiti al grande maestro buddhista Padmasambhava, che furono poi riscoperti, nel XIV secolo, nei dintorni della montagna di ‘Gam-po-gdar, da Bla-ma Gling-pa, che era un seguace della tradizione rNying-ma-pa. Il gter-ma era il Kar-gling zhi-khro, e di esso faceva parte anche il Bar-do thos-grol ovvero ‘Liberazione attraverso l’udire durante il bar-do’ testo assai conosciuto in occidente con il nome di ‘Libro tibetano dei morti’.




Il Kar-gling zhi-khro rappresenta una fonte di insegnamenti di primaria importanza in Tibet ed ha come oggetto pratiche rituali connesse a divinità pacifiche ed irate oltre a costituire un ingente studio atto ad approfondire la conoscenza dello stato del bar-do, termine che designa genericamente lo stato che intercorre tra la morte di un individuo e la sua successiva rinascita. Originariamente la compilazione di questi testi veniva incontro alla scelta di realizzare delle vere e proprie guide al fine di aiutare il morente o colui che è già morto ad affrontare in modo risolutivo l’esperienza del rapporto con l’aldilà favorendo il raggiungimento della Liberazione finale o, se non altro, assicurando al defunto una felice rinascita nei regni di esistenza condizionata.

 

Stando alla visione buddhista e bon esistono, per la precisione, quattro differenti generi di bar-do.

 

Il Primo è il bar-do della nascita, detto anche bar-do della Natura. Questo è il periodo che intercorre tra la nascita e la morte. Gli esseri viventi possono nascere ed abitare in diversi luoghi dell’Universo. I Tibetani parlano di sei differenti regni in cui un essere può nascere e per la precisione questi sono: il regno degli esseri infernali, il regno degli spiriti affamati detti preta, il mondo animale caratterizzato dalla ignoranza, il mondo degli uomini, la sfera degli dèi gelosi detti asura e, da ultima quella degli dèi celesti.




Tutti questi mondi sono soggetti alla legge inesorabile del Karma e del samsara (ciclo di morti e rinascite). Solo la possibilità di conoscere e coltivare le discipline spirituali può condurre gli individui alla Liberazione, così da abbandonare, in modo definitivo, l’esistenza nei sei regni materiali…

 

Il secondo bar-do del momento della morte si riferisce al periodo intermedio dell’istante che inizia quando sorgono i primi manifesti della morte stessa fino al cessare delle pulsazioni interne. Gli elementi che costituiscono l’aggregato corporeo cominciano a separarsi e a ricongiungersi alla propria essenza: TERRA, ACQUA, ARIA E FUOCO tornano alla loro matrice materiale originaria. In questo momento la persona morente proprio per il fatto che sta perdendo il senso della propria unità fisica, è pervasa da un fortissimo senso di angoscia e disorientamento.

 

Il terzo bar-do della realtà essenziale delle cose sopraggiunge nell’ora in cui il defunto, che non è stato in grado al momento della morte di realizzare la Liberazione, può ancora tentare di raggiungerla, da morto. Il terzo genere di bar-do si manifesta come una dimensione di luce intensa espressione della concezione originaria dell’esistenza e dell’individuo stesso. Si manifestano raggi e suoni onnipervadenti e lentamente prendono forma visioni di divinità dall’aspetto pacifico ed irato. Anche se in preda al terrore per le apparizioni che si presentano, la persona deve saper riconoscere la loro natura chiara e pura, priva di esistenza intrinseca. Queste visioni non sono altro che la trasformazione delle passioni e delle emozioni nel loro aspetto illuminato…




 Il Testo a tale riguardo dice:

 

…adesso per me sta sorgendo il bar-do della dharmata, abbandonando ogni pensiero di paura e terrore, riconoscerò come mie visioni tutto quello che apparirà, sapendo che è illusorio. Giunto a questo punto cruciale, non mi lascerò impaurire dalla moltitudine delle forme pacifiche e infuriate, mie proprie visioni…

 

Per definire lo stato del bar-do del Dharmata il ‘Tantra della grande Segreta unione del Sole e della Luna’ usa queste parole:

 

Il corpo deteriorabile, fatto di carne e di sangue, non si manifesta, ma appare il ‘corpo di luce’. In questo momento qualsiasi cosa si presenti come oggetto dei sensi appare come mandala dei cinque raggi di luce. Queste apparizioni, se osservate dall’esterno, appaiono chiare all’interno. Se osservate dall’interno splendono chiare all’esterno: senza esterno né interno, al di là dei limiti della materia. Si può passare attraverso di esse il loro colore è luminoso e splende distintamente, senza mescolarsi. Splende senza ostruzioni in maniera uguale… 

(M. Nicoletti)




 ED ANCORA… 

 

Bar-do della dharmata (dharmata = la vera natura incondizionata di tutte le cose) Questo bar-do ha tre fasi, che sono altrettante possibilità di realizzazione.

 

1° fase: Luminosità, Paesaggio di luce Il Divino, estremamente compassionevole, si fa per noi natura, creazione, la manifestazione più vicina all'uomo. Ci viene proposto un mondo fluido, vibrante di suoni, luci colori paesaggio luminoso non determinato in dimensioni o direzioni. Se cogliamo questa espressione come divino, realizziamo l’unione, altrimenti usciamo (seconda possibilità) e passiamo alla fase successiva…

 

2° fase: Unione, le Divinità Il Divino assume allora forma umana, tra noi e le Divinità sottilissimi raggi di luce uniscono il nostro cuore al loro. Ciascuno le vede rappresentate come quelle a lui familiari: il Cristo, i Santi, la Vergine, il Buddha.C’è puro amore tra noi e la forma divina: se la riconosciamo e ci entriamo siamo realizzati (terza possibilità); E’ in questa fase che si manifestano i sensi di colpa: vedremo personificate le nostre debolezze (ira, gola, lussuria, cattive abitudini.) e anche le nostre qualità (carità, compassione, generosità.). Le scritture le chiamano Divinità pacifiche o irate.

 

3° fase: Saggezza Se neppure nella forma antropomorfa il Divino viene riconosciuto, ci vengono offerte 5 visioni: le qualità. Se ne cogliamo una, realizziamo il Divino (quarta possibilità).Le qualità sono rappresentate da ‘tappeti di luce’, sfolgoranti, composti da palline sferiche (tiklè), sono le manifestazioni delle cinque saggezze. La saggezza onnicomprensiva, dello ‘spazio che tutto accoglie’, in cui nulla manca e nulla è al di fuori di esso. La saggezza della equanimità, simile a specchio, l’assoluta serenità in ogni circostanza. La saggezza unificante, una sola natura per tutte le cose. La saggezza del discernimento, il riconoscimento della propria vera natura.



La saggezza che tutto compie, Dio si prende la responsabilità di ogni atto, è unico attore. Se anche l’ultima possibilità viene persa, il Divino ci restituisce tutto ciò che avevamo al momento della morte nel cosiddetto ‘corpo mentale’ , che però è privo dell’intelletto discriminante, ed entriamo nel….Monastero di Greccio di cui ravvivo l’accogliente visita in un quadro della Natura unico nel suo genere…..