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Le Carceri,
con la povera vita che vi si svolgeva, ci appare come il tipico esempio di
insediamento romitoriale francescano che privilegia grotte naturali, caverne,
spechi, tuguri, spelonche del tutto analoghe a quelle nelle quali si erano
svolti gli eventi della vita di Cristo. Lo stesso toponimo delle Carceri deriva
dalla consuetudine che avevano i primi seguaci di Francesco di ‘carcerarsi’,
cioè di rinchiudersi, provvisoriamente ciechi e sordi al mondo, nelle grotte
del Subasio o in quelle di altre remote e solitarie contrade.
La
costruzione dei conventi che vediamo oggi, frutto della sistematica opera di
fondazione di Bernardino da Siena, ha obliterato l’aurorale esperienza fatta
dai seguaci di Francesco, fra il primo e il secondo decennio del XIII secolo, i quali vivevano nella
più stretta consonanza evangelica e cercavano ospitalità nel nudo grembo della
natura o presso le genti più umili.
Per quanto spesso dimenticati o ridotti a mera curiosità turistica, i ricetti naturali legati a quell’esperienza originaria – le grotte, gli anfratti, le caverne, gli spechi – sono comunque ancora oggi rintracciabili in prossimità o all’interno della maggior parte degli eremi divenuti dei conventi, dalla Verna, a Montecasale, a Monteluco, a Greccio, a Fonte Colombo, e hanno lasciato traccia di sé perfino negli appellativi, come dimostrano lo Speco di Narni o quello di Poggio Bustone, le Celle di Cortona o la Romita di Cesi.
Tutti
questi luoghi hanno una grotta, un anfratto, un tugurio sul quale, o nei cui
pressi, sarebbe sorta una struttura conventuale stabile, glorificando con la
solidità delle mura, ma nella realtà trasformandola radicalmente, la Regola
francescana delle origini che non prevedeva né stabilità, né troppo rigida
organizzazione, né possesso diretto o indiretto di beni e tanto meno di terreni
o di costruzioni.
Gli eremi delle origini, cioè gli anfratti offerti dalla natura, sono l’emblema della primitiva precarietà perseguita da Francesco e ne costituiscono la tangibile testimonianza. Simili alle ‘mistiche spelonche’ della Terrasanta, quelle grotte primordiali sussistono come reliquie di un’epica esperienza evangelica. La grotta, il letto, lo speco e altri anfratti della leggenda francescana sono dei reperti archeologici incastonati nelle fisse strutture conventuali. Nella loro sussistenza spesso negletta, nelle rimpicciolite dimensioni in cui ci appaiono i così detti ‘letti’ di Francesco, nel disagio fisico che comunicano, nella gelida, buia umidità in cui sussistono, narrano un’avventura spirituale e corporale estrema, quasi inconcepibile, per la cui commisurazione non esistono altri parametri che non siano quelli delle Sacre Scritture.
Nelle loro originali conformazioni che nulla hanno di artefatto, queste località eremitiche narrano una storia che è più antica di quella evangelica alla quale, loro tramite, Francesco si richiama. Con le loro grotte, queste località rappresentano il grembo oscuro, ctonio, abissale attraverso il quale la natura si lascia indagare e nel quale Francesco penetra, si raccoglie, si nasconde cercandovi rifugio nei momenti di meditazione. Il suo vivo senso del luogo, che è già di per sé una categoria del pensiero precristiano, percepisce in quei misteriosi squarci della roccia, in quegli anfratti, la connessione con una remota sacralità che vi si è sedimentata, con un’ancestrale vocazione votiva che è parte integrante dell’eredità pagana. Anche in questo suo far propria la sacralità latente dei luoghi, Francesco mostra tutta la sua originalità.
Egli infatti rigetta la cultura del suo tempo portata a demonizzare qualsiasi residuo cultuale pagano e per la quale grotte, selve, rovine, deserti sono luoghi ostili nei quali sono andate a nascondersi le antiche divinità che la religione cristiana ha trasformato in demoni. In nome della natura intesa da sempre come manifestazione divina, Francesco mette in atto la transizione non violenta dalla sua sacralità pagana a una sacralità cristiana. Allo stesso tempo tuttavia, dalla Verna, a Greccio, a Poggio Bustone, quasi tutti gli eremi si affacciano su spazi aperti, aerei, sconfinati, spazi che sembrano evocare l’altro aspetto dell’esistenza quotidiana di Francesco, il suo apostolato, il suo migrare senza requie, il suo sollecito accorrere in aiuto dei bisognosi. In questo senso, le imprescindibili soste con le pause meditative nelle latebre della natura non sono avulse da quelle distanze luminose che sembrano attendere la sua parola e la sua azione.
Dopo la valle di Assisi e il complesso montuoso della Verna, non c’è località che, come la valle di Rieti, o Valle Santa, conservi intatta un’ampia messe di memorie trasmesse dalle cronache francescane. La valle custodisce quattro romitori che si trovano sulle alture circostanti: Greccio, Fonte Colombo, Santa Maria della Foresta e Poggio Bustone. Ognuno dei romitori riflette un capitolo della vita di Francesco che volle fare di grotte e anfratti dei luoghi di meditazione trasformandoli, secondo la consuetudine che gli era cara, in insediamenti fittizi.
Nella sua
vita peregrinante, egli percorse le antiche strade romane, la Salaria, la
Flaminia, la Tiberina, ma si inerpicò spesso per le mulattiere che si
svolgevano lungo i crinali o risalivano le pendici dei monti del Ternano e del
Reatino. Nella Vita prima Tommaso da Celano riferisce che quando Francesco, attorno al 1208, decise di suddividere
la comunità in gruppi di due confratelli, per andare ad annunciare ‘la pace e
la penitenza in remissione dei peccati’ nelle più varie contrade, scelse per sé
e per il suo compagno la valle di Rieti.
La prima biografia di Francesco ci dice quindi che il Reatino fu uno dei primi territori di espansione dei frati Minori. Pur essendo Francesco contrario all’edificazione o all’uso di sedi stabili, è comunque certo che i confratelli usavano ritrovarsi in luoghi o ricetti provvisori – grotte, anfratti, spechi – ben definiti e ricorrenti nella biografia francescana. Tommaso da Celano fa riferimento specifico a due insediamenti nel territorio reatino: Greccio e Poggio Bustone. Fonti storiche successive aggiungono il romitorio di Fonte Colombo. Occorre ricordare che questi insediamenti, che oggi ci appaiono in totale solitudine, avulsi da qualsiasi contesto abitativo, al tempo di Francesco non erano lontani da nuclei produttivi e da incastellamenti di un qualche rilievo. Con il tempo, questi centri si sarebbero impoveriti per l’inurbamento degli abitanti nella città di Rieti. Non per caso si legge nella biografia redatta da Tommaso da Celano che Francesco faceva di tutto per ricondurre sulla retta via i riottosi e irrequieti abitanti del paese di Greccio.
Fu a ridosso di questi tracciati che Francesco dette vita a sparuti cenobi situati a poca distanza da incastellamenti e quindi di facile raccordo con le comunità circostanti. Fra questi figura l’eremo di Greccio, che appare aggrappato alle pendici del monte Lacerone, nei pressi del borgo medievale omonimo. Di lassù, a sommo dell’altura, nel piazzale dell’eremo dove si giunge salendo una lunga scalinata intagliata nella rupe, lo sguardo abbraccia tutta la valle di Rieti irrorata dal fiume Velino. Sullo sfondo di questo panorama si vede la mole solenne del Terminillo e più oltre, sulla linea dell’orizzonte, si profila la sagoma del Gran Sasso.
Circa la fondazione dell’eremo, Tommaso da Celano afferma nel 1228: ‘Oggi quel luogo (Greccio) è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare poi divenuto una chiesa in onore del Santo Francesco’.
Con l’appellativo di Betlemme francescana, l’eremo è noto in tutto il mondo perché, nel dicembre del 1223, Francesco vi mise per così dire in scena la rappresentazione corale della nascita di Cristo insieme ai confratelli, i contadini, i pastori e i loro animali, con i ceri e le fiaccole che illuminavano la notte. La celebrazione del Natale di Greccio è strettamente collegata al ruolo centrale che Francesco attribuisce all’incarnazione come manifestazione umana del divino, una visione del Dio fatto uomo in cui la corporeità esprime tutte le sue ineludibili istanze.
Tramite
tale rievocazione, Francesco intendeva, come narra Tommaso da Celano, ‘far
memoria del Bambino che è nato a Betlemme, e vedere con gli occhi del corpo i
disagi per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in
una greppia e come fu posto sul fieno fra il bue e l’asino’. Ma Greccio
costituisce anche una sorta di drammatico spartiacque fra la movimentata,
precaria esistenza di Francesco, e il sofferente ripiegamento interiore causato
dai contrasti con le nuove leve di confratelli propensi allo sviluppo di sedi
stabili, e dai malanni sempre più acuti e laceranti che gli squassano il corpo.
Le mura scabre e gli archi di sostegno torreggianti sul baratro petroso fanno di Greccio, sorto nelle forme attuali attorno al 1246, il prototipo dell’eremo conventuale di ogni epoca. Come nella maggior parte degli insediamenti costruiti a ridosso del monte, le pareti si saldano alla roccia che sembra accettarne di buon grado l’intrusione. C’è chi l’ha paragonato addirittura a un pipistrello gigante inchiodato alla rupe. Il complesso si sviluppa su più livelli e la nuda pietra accompagna lo stretto corridoio che penetra nella parte più antica.
Vi si
incontra dopo pochi passi il refettorio con l’antico lavabo, due affreschi del
XVI secolo e il dormitorio con la celletta, detta ‘sacro Speco’, scavata nella
roccia dove riposava Francesco. Il dormitorio fu realizzato interamente in
legno nel XIII secolo, al tempo di
Bonaventura da Bagnoregio, generale dell’Ordine. Esso è costituito da uno
stretto corridoio che dà accesso a quindici piccole celle e alla primitiva
chiesa del santuario intitolata a Francesco e a Bonaventura risalente alla
prima metà del Duecento.
È divisa in due parti da una grata sormontata da un crocifisso di legno del XIV secolo che pende dal soffitto. Un dipinto cinquecentesco di scuola umbra, un affresco trecentesco, San Francesco e l’angelo che gli annuncia la remissione dei peccati, un pregevole tondo quattrocentesco attribuito a Biagio d’Antonio e raffigurante la Madonna con il Bambino impreziosiscono l’ambiente. Gli stalli del coro, un leggio e un supporto girevole con lanterna che permetteva di illuminare le pagine del corale e altri pregiati arredi lignei creano una calda, mistica atmosfera.
Non alterata da chi vi ha abitato per secoli, la pietra accompagna i sinuosi passaggi, le strettoie, i pertugi con sporgenze vertiginose e massi aggettanti che formano le grotte e i rudimentali giacigli dei primi, occasionali abitatori di questa ruvida costa. Diceva infatti Tommaso da Celano che ‘nei giacigli e nei letti era così in onore la povertà, che chi aveva poveri panni distesi sulla paglia, credeva di avere un letto sontuoso’. Lo stesso sentiero che dalla valle sale al convento con strappi repentini, fra boschi di lecci e pareti di roccia, è a un tempo lettera e metafora del cammino del pellegrino. Ancor più doveva esserlo quando, all’alba del Novecento, per giungere all’eremo, a quel tempo disabitato, si doveva risalire, come narrano i viaggiatori, il letto sassoso di un torrente ridotto a esiguo rigagnolo.
Narra la
Leggenda Maggiore che tre anni prima di morire, durante il periodo natalizio,
Francesco era in viaggio nelle vicinanze di Rieti con l’intenzione di fermarsi
a Greccio. Volendo rendere grazia a Dio, chiamò Giovanni Velita che possedeva
molte grotte e terre e che era caro al santo perché, pur essendo nobile e
onorato in quella regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella
della carne. Francesco gli rivelò che era suo desiderio celebrare a Greccio il
Natale di Gesù, utilizzando ciò che l’ambiente offriva.
Questa rappresentazione avrebbe permesso di vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui il Bambino si era trovato, adagiato sul fieno di una greppia tra il bue e l’asinello. Il pio Giovanni avrebbe dovuto preparare la scena in una grotta della montagna indicata dal santo, non lontana dall’eremo. La notte di Natale gli uomini e le donne del luogo, tutti insieme, avrebbero pregato nella grotta, giacché il Bambino Gesù, dimenticato nei cuori di molti, per grazia di Dio rinasceva alla presenza di tutti.
Nel corso
della visita a Greccio, fuori dell’edificio si scorge un crepaccio della rupe
incorniciato dagli stipiti di una porta a cui si accede da due scalini. In alto
si distinguono due goffi, antichi affreschi: un monaco che dalla bocca lascia
uscire un fumetto con la scritta Silentium e un Volto Santo incoronato.
Sarebbero stati entrambi scoperti sotto la mano d’intonaco. Sulla soglia della
porta si legge la parola Clausura. Tramite questa porta si entra in una caverna
dove regna la notte. Un poco alla volta, l’occhio scopre delle cavità, o
nicchie, ricavate nei muri: probabilmente i giacigli naturali dei primi
compagni di Francesco. Come altrove, anche qui il suo riposo ignorava le
comodità più elementari. Francesco venne in questo luogo martoriato
dall’operazione agli occhi che aveva subito a Fonte Colombo e i suoi fratelli
furono i primi a cercare di mitigare tanta sofferenza. Un’altra porta, che si
trova nella medesima parete rocciosa, introduce nel corridoio che porta alle
celle.
Al piano inferiore, proprio sotto il dormitorio, c’è la grotta nella quale Francesco e i suoi frati consumavano i pasti. Ma i muri possenti, tirati su nel corso dei secoli per sostenere l’edificio, l’hanno in parte alterata Lo stesso destino è toccato alla cappella del Presepio, ossia la grotta in cui, nel 1223, si svolse la scena evangelica. L’anfratto non dà più all’aperto come in passato, ma si trova all’interno del convento, sulla sinistra del corridoio d’ingresso. Ciò malgrado, quello che resta della grotta primitiva è pur sempre una testimonianza che, come ricordano i pellegrini, parla al cuore e all’immaginazione. In questo piccolo oratorio, detto cappella di San Luca, il visitatore si rende conto che la rievocazione della scena di Betlemme, improvvisata qui dal genio di Francesco, è stata come una seconda nascita del cristianesimo.
(Brilli/Neri)
[PROSEGUE... IL DIFFICILE CAMMINO]
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