CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

venerdì 1 settembre 2023

LA FUGA (3)

 









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RACCONTO DI UNA KAMLANIE 

 

 

Testo raccolto nell’ottobre 1896 lungo il fiume Korkodon, pubblicato in IOXEL’SON, Materialy; tradotto in LOT-FALCK, Textes. ‘Il vecchio Samsonov [uno degli informatori di Ioxel’son] aveva un figlio sciamano di nome Nelboš, morto qualche tempo prima. Pregai Samsonov di compiere per me la kamlanie per la guarigione di un malato. Egli dapprima si schernì sostenendo di non conoscere tutto il rituale e che sciamanizzare era peccato. Infine acconsenti. Portarono un vecchio tamburo, rimediarono alla meglio un copricapo sciamanico, in mancanza di un vero  caffettano sciamanico egli indossò un caffettano femminile e così ebbe inizio il rito sciamanico. Quando Samsonov ebbe finito, io trascrissi il testo sotto sua dettatura. Nella realtà il rito fu più ricco del testo. Inoltre, nel testo non poterono essere resi tutti i suoni di imitazione di animali ed uccelli. (Nota di Ioxel’son).




 C’era un uomo.

 

Quest’uomo si ammalò.

 

C’era uno sciamano. Fecero sciamanizzare questo sciamano. Egli si sedette a battere il tamburo. Dopo che ebbe cominciato a battere il tamburo, egli invoca le ombre degli animali-uccelli, cominciò a cantare.

 

Dopo aver cantato, disse:

 

‘Mio primo antenato, miei antenati, avvicinatevi, venite accanto a me affinché [mi] siate d’aiuto, conducete qui i miei abucape, xanbadaxce, jengecuope’.

 

[‘Miei figli, miei discendenti, perché ci tormentate?’.]




I parenti dell’uomo malato dissero:

 

‘L’uomo annega in una pozza d’acqua. Ti abbiamo posto per guardare’.

 

Lo sciamano disse:

 

‘La sua ombra se ne è andata per la strada che conduce al regno delle ombre, evidentemente’.

 

Questi uomini dissero:

 

‘Sii forte, non risparmiare energie’.





Lo sciamano si recò nel regno delle ombre; si allungò sul ventre. Sulla strada che conduce al regno delle ombre egli andò, incontrò una vecchia. La vecchia ha un cane. Il suo cane si mise ad abbaiare contro questo sciamano. La vecchia tenendo un anyazi uscì fuori, uscì dalla sua casa, cominciò ad interrogare lo sciamano:

 

‘Sei venuto per sempre, sei venuto per poco?’.

 

Lo sciamano disse ai suoi spiriti:

 

‘Non ascoltate le parole della vecchia, andate’.




Egli giunse fino al fiume del regno delle ombre, là c’è una barca. Lo sciamano guardò dall’altra parte del fiume, ci sono delle case. Le loro coperture di pelle biancheggiano, gli uomini vanno e vengono, gli ornamenti metallici [sui loro vestiti] tintinnano. Lo sciamano si siede in questa barca, passò dall’altra parte, si alzò, salì [sulla riva].




Quest’uomo malato aveva dei parenti morti da lungo tempo.

 

Questo sciamano entrò nella loro casa, trovò là l’ombra di quest’uomo malato. Egli la chiede ai suoi parenti:

 

‘Sono venuto a prendere l’anima dell’uomo che si trova presso di voi’.

 

I parenti si dispiacciono [non la dànno].

 

La prese con la forza.




Per tornare indietro, introdusse in sé l’ombra dell’uomo, chiuse le orecchie affinché l’ombra non uscisse. Lo sciamano allora, sdraiato, canta, quando canta, dice:

 

‘Miei raggi di sole, tiratemi!’.

 

Allora i suoi aiutanti lo sollevano per il caffettano. Sollevatolo, lo fanno girare tre volte contro il sole. Avendogli fatto fare tre giri, si fermano.

 

Dopo essere rimasto a lungo fermo, egli si solleva sulle sue articolazioni. Le fanciulle-ricettacoli degli spiriti sedevano là.

 

Allorché lo sciamano si alzò sulle sue gambe, [esse] strofinano le articolazioni delle sue gambe. In seguito lo sciamano salterà qui [accanto al malato].




 ‘Dalla strada che conduce al regno delle ombre ecco che sono giunto’

 

…dirà.

 

Venne qui [presso il malato]. Palpa la parte malata. Avendo terminato il palpamento, pone [in lui] la sua ombra. Dice ai suoi ‘invisibili’:

 

‘Sorvegliate la sua ombra, pregate’.

 

Volendo concludere, egli dirà:

 

‘Spiriti, andatevene’. 

(Testi sullo Sciamanesimo)




Sapeva non esser possibile che il vecchio potesse raggiungere da solo i villaggi degli sciamani, e che Anataj doveva essere stato sfiorato da qualche follia. Nel suo progetto c’era un punto oscuro che intuiva, ma al quale tentava di sfuggire per un istintivo terrore. Solo il guardare da quella parte lo spaventava e gli metteva il sudore freddo e l’agitazione.

 

Una notte si svegliò all’improvviso non aveva più sonno, come avesse dormito già chissà quanto sentì il vento che mulinava fuori dell’isba e ululava nel villaggio come un animale senza nome e senza volto. Era un mugolio di tormenta carico di gemiti e di guaiti, perché i lamenti dei cani o dei lupi della taiga vi si mescolavano e si impastavano, sviluppando un’unica modulazione sonora.

 

Era un succedersi di folate che investivano l’isba e si perdevano nel vuoto.




S’immaginò che il vento venisse dalla penisola delle foche bianche del Bajkal, venute dall’oceano gelato in epoche lontanissime, e rimaste in un’insenatura, nella parte più boreale del lago.

 

S’immaginò che fosse il sarma, il re dei venti della regione, a cui nessuno negava nel proprio pensiero una sinistra signoria sopra tutti gli altri.

 

Si figurò che fosse una di quelle notti in cui il ghiaccio si spezzava sul lago, con scricchiolii da terremoto e con angosciante pericolo per taràntas e stazioni di posta.

 

Pensò ai sogni d’incubo dei pescherecci nella morsa del ghiaccio, nei piccoli porti dove Gurka aveva lavorato per cinquant’anni poi finalmente si addormentò.

 

Non si sarebbe mai più dimenticato i sogni di quella notte, perché era diversa da ogni altra. Furono sogni strani, dominati dai colori che aveva visto da bambino.




Sognò i villaggi degli sciamani, la loro barba filiforme, gli impiastri che essi gli applicavano agli occhi, con gesti ripetuti e pronunziando formule incomprensibili. Lui si aspettava di tornare a vedere almeno un poco, almeno la forma delle cose, e invece non succedeva. Poco prima ci vedeva, pur sapendo di essere cieco, e adesso invece non accadeva più.

 

Non scorgeva più gli sciamani, non li sentiva, non avvertiva più le loro mani sopra i suoi occhi, né il fresco umido delle loro applicazioni. capì che le capanne erano vuote perché il suo passo risuonava sul pavimento di legno, e che gli sciamani se n’erano andati.

 

Lui era solo nel villaggio, a distanza immensa dal suo. Solo e cieco com’era non sarebbe tornato mai più perché in nessun modo avrebbe potuto recuperare la strada. Si svegliò di nuovo. Stavolta era giorno. Dieci volte tutte quelle cose sarebbero tornate nei nostri discorsi perché quello era uno dei giorni più ribaldi e disperati della sua esistenza; uno di quei giorni predatori e nefandi che calano dal cielo come un colpo di scure.




 Meditò se davvero gli sciamani erano capaci di guarire la cecità, o se era soltanto una favola. Tutta la mattina girandolò per l’isba inquieto e silenzioso. Quando sentì che il sole era al culmine, perché scaldava intensamente, prese il suo bastone e picchiando i gradini dell'isba e gli steccati dei cortili, raggiunse lentamente la casa di Anataj… 

(C. Sgorlon) 

 

Tutti i Tibetani credono che la morte sia l’inizio di un arduo percorso, pieno di pericoli, che l’uomo deve affrontare nell’intervallo che passerà fino alla sua prossima nuova reincarnazione nell’una o nell’altra delle sei categorie di esseri in cui lo porterà il suo viaggio. Le regioni che il defunto dovrà attraversare vengono descritte come i paesaggi familiari ai Tibetani.

 

Dovrà superare alte montagne lungo impervi burroni, attraversare a guado fiumi larghi e impetuosi, regioni aride e desertiche con, ovunque, demoni in agguato, come briganti. Devono dunque raccomandarsi a Dolma, la Protettrice dei viandanti...

 

Da persone pratiche, i Tibetani hanno il caritatevole pensiero di infondere forza al morente o al defunto, in vista del viaggio che si appresta ad intraprendere.




 Un’attenta lettura del Bar-do Thödol non mancherà di provocare, nel lettore, numerose riflessioni ispirate dai diversi episodi del singolare viaggio che l’autore di quest’opera fa fare al defunto disincarnato. Coloro che, per esempio, considerano che la somma delle cause generate dalle azioni di un individuo (il suo karma) abbia termine con la morte di questi e che non gli rimanga altro da fare che subire gli effetti provenienti da queste cause, sì stupiranno nel vedere il disincarnato fornito di una volontà che gli permette di decidere la propria sorte futura, senza apparentemente, tener conto del karma.

 

Avrà motivo di stupirsi anche per le occasioni da cogliere che si ripetono più volte nel corso del viaggio nel Bardo, come la ‘Liberazione’ dalle reincarnazioni, – il Nirvana – o come altre reincarnazioni felici.




Gli iniziati al rito del Bar-do dicono che le ripetizioni che si trovano non sono inutili e danno, a questo proposito, spiegazioni diverse di cui cercherò di condensare il senso. Per prima cosa occorre tener presente il continuo avvertimento dato all’ascoltatore del testo: il viaggio descritto nel Bar-do non è un viaggio reale, effettuato attraverso luoghi reali. Esso traduce in immagini i concetti che appaiono nella mente del defunto. A costui non è somministrato nessun “nuovo alimento”, egli ‘rumina’ semplicemente quelli, di tutti i tipi, che ha precedentemente ingerito.

 

Le ripetizioni che si trovano nel testo sottolineano che, nella memoria del defunto, i ricordi, i pensieri che lo spaventano, danno vita ad allucinazioni con differenti immagini. In breve, il viaggiatore è un ossessionato che gira e rigira nella propria mente una limitata gamma di impressioni. Questa è, almeno, una delle spiegazioni che mi è stata data. 

(David-Neel)




IL VIAGGIO 

 

Ora per i condannati Eretici cominciavano le vere difficoltà del Viaggio...”.

 

Da Mosca a Tomsk, per oltre tremila miglia, le condizioni di viaggio erano state più o meno europee; ma da quel momento in poi avremmo dovuto viaggiare esclusivamente su strada, strisciando da una stazione di sosta all’altra per brevi tappe. Nel terribile freddo siberiano, nel caldo torrido dell’estate, con qualsiasi tempo, indipendentemente dall’idoneità o meno della strada, da Tomsk vengono regolarmente inviati gruppi di un centinaio di prigionieri in giorni fissi della settimana, gruppi che consistono alternativamente in solo uomini e famiglie: uomini, donne e bambini.




La marcia giornaliera è una tappa che va dalle sedici alle venti miglia, e ogni terzo giorno è dedicato al riposo. A questo passo da tartaruga – in media circa tredici miglia al giorno – il lungo vagabondaggio dura molte settimane e mesi, nelle condizioni di vita più miserabili.

 

Nelle stanze umide delle stazioni dei convogli, la cui aria è carica di ogni cattivo odore immaginabile, i forzati giacciono stretti l’uno all’altro sulle nude assi dei due scaffali di legno inclinati, uno sopra l’altro, che servono da letti. . Questi brulicano invariabilmente di miriadi di parassiti; il sonno è probabilmente impossibile per metà della notte, e la mattina presto i prigionieri vengono condotti fuori per ricominciare la faticosa marcia.

 

Molto prima dell’alba il contingente criminale sarà schierato nel cortile, ad aspettare lì al freddo fino all’appello, e finalmente viene dato il segnale di partenza.




In testa al corteo marciano i criminali più anziani, per la maggior parte mascalzoni stagionati, gli “Ivan”. La maggior parte di loro ha già percorso questa strada più di una volta e conosce ogni ruscello e ogni bosco ceduo lungo la strada. Vanno a passo veloce, in ranghi serrati, e percorrono facilmente le loro quattro miglia all’ora, o anche di più. Dietro di loro gli altri criminali si trascinano faticosamente in gruppi irregolari separati da lunghi tratti di strada. Poi arrivano i carri con i malati, gli sfiniti e i bagagli; e infine gli ‘Eretici’ nelle retrovie, due o tre insieme su ciascun carro a un cavallo, sotto la responsabilità della loro scorta speciale.

 

…Abbiamo avuto molte occasioni, durante la nostra lunga marcia (per questo faticoso Viaggio o eretico Karma), di fare conoscenza con le persone le cui abitazioni sono lungo la grande strada maestra.

 

Ed in loro siamo rinati…




Spesso intorno a loro si percepiva una certa aria di comodità e benessere, e alcuni degli insediamenti più grandi avevano l’aspetto piacevole di una città di provincia...

 

Case spaziose, ben costruite, talvolta a più piani, decorate con intagli e dotate di siepi e cancelli ordinati, fiancheggiavano la strada a volte per diversi versti. Alle finestre si vedevano tende e vasi di fiori; le stanze erano spesso tappezzate e arredate in modo confortevole, a volte anche esposte il lusso dei mobili austriaci in legno curvato. Il bestiame, per quanto abbiamo potuto vedere, era più bello e meglio tenuto di quello usuale tra i contadini di ogni nazione terrena. 

(……)



 

Ad un Lama che aveva avuto, alla frontiera cino-tibetana, contatti con missionari cristiani, io posi questa domanda:

 

‘I Cristiani che seguono la religione di Issu (Gesù) andranno nel Bar-do?’.

 

‘Certamente’.

 

‘Ma essi non credono né agli Dei lamaici, né alle reincarnazioni, né a nulla di ciò che è descritto nel Bar-do Thödol’.

 

‘Essi andranno nel Bar-do, ma ciò che vedranno saranno Issu, angeli, demoni, il paradiso, l’inferno, etc.. Ritorneranno nella loro mente tutte le cose che sono state loro insegnate, alle quali hanno creduto. Faranno sorgere, davanti ad essi, visioni che li terrorizzeranno: il giudizio, i tormenti dell’inferno. Le immagini che popoleranno il sogno del loro viaggio e le immaginarie peripezie di costoro saranno diverse da quelle che conoscerà un Tibetano, ma sarà la stessa cosa. Le ‘memorie’ registrate nella vita dall’individuo, prenderanno forma e gli si presenteranno sotto un aspetto di quadri viventi e, un cristiano, come un tibetano, tenderà a considerare avvenimenti reali episodi che si succederanno solamente nella sua mente… 

(David-Neel)







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