Precedenti capitoli circa la:
Vibrazione dell'Universo [6/1]
Prosegue per una
successiva rinascita (8)
Il giorno 8 arriva da Kham a Gartok
un famosissimo Lama che è diretto a Gargunsa per ritirarsi in meditazione in
uno dei suoi zamcan.
Il garpon approfitta
della sua venuta per ospitarlo con grande onore e fargli compiere cerimonie
speciali che li tengono insieme occupati per quasi tutte le ore del giorno e
della notte. Il suono roco del kunlin, il tintinnare del campanello, il
frastuono lugubre del tamburello magico rompono il silenzio di questa
solitudine infinita.
Il Lama è
un celebre asceta della setta dei rDsogs c’en, “i
perfetti” che hanno conservato notevoli sopravvivenze bonpo e
riconoscono come loro sommi maestri Padmasambhava e kLon c’en.
È il discepolo preferito del famoso Palden Devaghiazò morto or è qualche anno in Purang, da tutti venerato come dutòp, e compagno dell’altro celebre Lama Namcà Gimè dorgè che incontrai a Lippa nel mio viaggio del 1931.
Siamo
riusciti a stringere amicizia con il Lama di Kham. Si chiama Nagcenghelòn: la
gente dice che abbia conseguito perfezioni rare e poteri miracolosi. Accocolati
per terra parliamo della mistica buddhistica, su questo pianoro sconfinato, che
all’estremo orizzonte, verso il Ladakh, pare si confonda con il cielo.
Il mondo in
queste solitudini sembra un Sogno lontano come si l’incantesimo di qualche Lama
ci abbia trasportato in altre sfere; uno di quei rari momenti in cui il nostro
Io pare liberarsi dal legame della realtà contingente.
L’asceta, accortosi che uno di noi può seguirlo in queste sue confessioni e rivelazioni di esperienze, ci conduce per piani inesplorati di mistiche realizzazioni, per quei mondi abissali del nostro Essere in cui si muovono, spesso incomposte e contraddittorie, forze possenti che, sebbene non affiorino sempre alla viva luce della coscienza, costituiscono il fondo della nostra individualità; egli ci spiega sistemi di dominio e di governo che allacciando il mondo fisico a quello psichico, operano – secondo la tradizione indo-tibetana – una palingenesi mistica.
E ci mostra
come praticamente si possono inviare quegli Ideali di cui uno di noi ha tanto
letto nei vecchi manoscritti tibetani, che senza una chiave resterebbero
scritture enigmatiche e simboli strani.
Ed alla
fine vorrebbe darci l’investitura spirituale, purché andassimo con lui, com’è
d’uso per ogni buon discepolo, a meditare sotto la sua guida, per dodici anni,
in qualche grotta del Tibet. Questa cifra ci riconduce d’un tratto alla realtà
delle cose. I tibetani, come gran parte degli orientali, ignorano il tempo, non
sanno che cosa sia questo tirannico, fatale trapassare di un’ora in un’altra
verso quell’istante che non potremo più contare.
Ma quando l’umanità è divisa in queste due grandi sezioni: l’una che nega e l’altra che afferma, l’una che opra e l’altra che medita, e tutte e due vivono e pongono in atto questa loro visione, quale altro criterio di scelta potremmo avere per seguire l’una piuttosto che l’altra via, se non la voce istintiva e irrazionale di quella psiche collettiva dalla quale fummo foggiati?
L’asceta si incammina solo per il suo Eremo tibetano e noi andiamo a riordinare la carovana per riprendere la via del ritorno.
(G. Tucci)
Sia nel
buddhismo sia nel bon le dottrine tantriche sono
state custodite dalla reticenza dei loro detentori, poiché per la natura arcana
e simbolica possono essere fraintese e vilipese, come avviene con le mistificazioni
orientate al profitto della New Age. Dan Martin se ne è occupato con l’indagine
sul mitico re dello Zhang zhung.
La reale storicità dello Zhang zhung come luogo e come entità statale, sebbene scarsamente nota, è solida al di là di ogni ragionevole dubbio, ma la sua lingua, l’etimologia del nome, le strutture e pratiche della società in generale rimangono misteriose; possiamo solo accennare qui che, pur appartenendo al medesimo gruppo linguistico tibeto-birmano, mentre il tibetano si avvicina all’antico linguaggio di Burma detto ‘pyu’, la lingua zhang zhung è molto più connessa ai dialetti cosiddetti ‘dharma’ dell’Himalaya occidentale.
I confini
dello Zhang zhung sarebbero
approssimativamente: ad est la valle dello Yar klungs, nucleo originario del
regno tibetano, e la Cina; a sud il nordovest indiano; ad ovest il bordo
orientale dell’altopiano iranico, il sTag gzig, e l’Oḍḍiyāna (O rgyan, la valle dello Svāt in Pakistan); a
nordovest Gilgit (Bru sha); a nord Khotan (Li). Il monte Ti se (Kailāsa)
sarebbe il monte g.Yung drung dGu brtsegs, fulcro dello Zhang zhung e centro della regione di ’Ol mo Lung ring da cui
proverrebbe nella narrativa tradizionale del bon la leggendaria figura di sTon
pa gShen rab Mi bo (d’ora in avanti abbreviato in gShen rab) ritenuto maestro
(ston pa) dell’attuale eone cosmico, riformatore e sistematizzatore del bon
arcaico.
La collocazione di ’Ol mo Lung ring è molto dibattuta la tradizione bonpo associa l’influenza dello Zhang zhung sui territori delimitati ad ovest e nordovest dalla Persia e dal Karakorum rispettivamente, che costituirebbero lo ’Ol mo Lung ring, al centro dello Zhang zhung, e non parte del sTag gzig/Persia.
Nel
presente scritto la sezione sulle origini del bon precede l’introduzione dei
principi soteriologici del tantra materno, analoghi a quelli della “Totale Perfezione”, per comprendere come le dottrine
bonpo si organizzarono e in parte si assimilarono alle buddhiste al fine di
garantire l’autorevolezza testuale e di lignaggio alla tradizione autoctona, successiva alla seconda diffusione del buddhismo in Tibet dall’XI secolo. Dopo essere scampati alla Rivoluzione Culturale e
alla tendenza modernizzante delle scuole, è possibile attingere agli
insegnamenti degli esperti tuttora viventi.
La vera
cesura nella ricerca sul bon, come nel destino del Tibet, è nel 1959. Nel 1950-51,
l’esercito cinese entrò in Tibet; la mediazione del Dalai Lama, che nel
settembre 1954 si recò in Cina per
incontrare Mao, fallì. Nel 1956
iniziò la confisca di derrate alimentari e armi da fuoco e l’attacco alla
religione nel Kham, area cinese adiacente al Tibet orientale, abitata da circa
mezzo milione di tibetani.
Tra 1958 e 1962, con la politica del ‘Grande balzo’ e la requisizione dei beni alimentari, il Tibet subì uno stato di penuria mai vissuto prima. La resistenza fu tenace anche nelle quattro vaste province della Cina occidentale in cui è più diffusa la componente tibetana: Gansu, Qinghai, Yunnan e Sichuan. L’insurrezione di Lhasa (10 marzo 1959) fu sgominata dal massacro (marzo-ottobre) di circa novantamila civili nel solo Tibet centrale. Si istituirono i thamzing, ‘sessioni di lotta’ (linciaggi pubblici di denuncia e autodenuncia) cui era obbligo partecipare, rinnegando la propria cultura.
Monasteri e
templi vennero chiusi e distrutti, le più minute espressioni critiche
perseguitate come qualsiasi manifestazione di fede religiosa; i dissidenti
vennero deportati nei campi di lavoro forzato che sorsero ovunque sul
territorio tibetano.
Dal 1966-67 si verificò l’annientamento della
Rivoluzione Culturale con sterilizzazioni forzate per le donne,
ridicolizzazione, umiliazione e uccisioni. Dei quasi seimila delubri e
monasteri solo tredici scamparono alla distruzione delle Guardie Rosse.
Dal 1959 oltre centomila tibetani fuggirono dal Tibet e raggiunsero l’India. I rifugiati vennero insediati in campi profughi, dalla regione himalayana allo stato indiano del Karnataka. Di oltre centomila esiliati circa l’un per cento erano i tibetani professanti il bon: dopo l’esodo si avviarono le prime relazioni dirette tra i bonpo e gli studiosi europei. Da quel momento lo studio sul bon mutò sino all’ampia diffusione attuale grazie al contatto con i testi della tradizione e con i suoi rappresentanti costretti all’esilio e sovente ospiti dell’accademia occidentale.
L’approccio buddhista, il più accreditato accademicamente, pone la tibetologia nell’ambito degli studi religiosi e linguistici, in esso il bon è una versione eterodossa del buddhismo tibetano; il modello sciamanico, cui si riconosce di rimarcare l’importanza dello sciamanesimo, è espresso nei lavori del Samuel sull’interazione tra il monachesimo buddhista e lo sciamanesimo dell’Asia centrale; quello nativista la cui visione nel presente scritto è significata dall’avverbio tradizionalmente è rivolto al primo periodo della storia tibetana e al rapporto (tuttora di incerta verificabilità storica) tra i regni dello Zhang zhung e di Yar klungs. La sua lettura del bon quale tradizione indigena evidenzia l’identità tibetana, recuperando le voci regionali sommerse un tempo dall’egemonia buddhista e ora dalle costruzioni della New Age.
Secondo Géza Uray (1921-1991) e Giuseppe Tucci (1894-1984), bon è connesso a gsol (chiedere/offrire/dare a un dio o a un sovrano) e anche ‘un dio o un sovrano riceve/prende/ottieneʼ e sarebbe probabile la relazione con zlo (mormorare/recitare incantesimi/invocare/chiamare) (Tucci 1973, 271; Tucci, Heissig 1973).
Namkhai rammenta che il termine arcaico gyer (salmodiare) fu impiegato come il verbo ’don pa (scandire o ripetere ritmicamente e/o continuamente) e attualmente bon pa e gyer ba significano bzla ba (recitare/ripetere) e ’don pa rispettivamente. Mediante la risonanza vibrativa della recitazione dei mantra, cioè suoni o sillabe che possono condizionare determinate sfere energetiche – intendendo per energia ‘la dimensione vitale, strettamente legata alla respirazione, alla voce e alla funzione dei cinque elementi interni ed esterni che in ogni essere collega il corpo alla mente’ – anticamente i bonpo si ponevano in ascolto e in contatto con le energie invisibili e le forze che regolano la natura allo scopo di controllarle, equilibrarle e consentire l’interazione armoniosa con la sfera d’esistenza umana.
I testi canonici del bon sono catalogati in inventari (dkar chag) e ricadono in due categorie: bka’ ’gyur e brten ’gyur. Il primo è considerato emanazione diretta della parola (bka’) di gShen rab codificata dai suoi discepoli subito dopo la morte del maestro (Martin, Kværne, Nagano 2003).
Tradizionalmente
la maggior parte del canone non godette di una trasmissione ininterrotta, ma fu
celata in tempi nefasti e in tempi propizi ritrovata come ‘tesoroʼ (gter). L’occultamento dei testi sacri per
preservare i preziosi tesori spirituali in essi racchiusi accomuna la
tradizione bonpo a quella dei rnying ma pa; ma mentre per questi ultimi si
ritiene che Padmasaṃbhava (VIII d.C.) e i suoi discepoli avessero
celato i testi religiosi perché i seguaci non erano ancora spiritualmente
maturi, affinché essi ricomparissero in momenti più propizi alla loro
trasmissione, nel caso dei bonpo ciò accadde per le persecuzioni seguite alla
diffusione del buddhismo.
La comparsa dei gter ma nella visione tradizionale è associata alla prima e alla seconda diffusione del bon in Tibet. La prima diffusione (snga dar), scaturita dagli insegnamenti di gShen rab nello Zhang zhung (Karmay 1972, 15-71), leggendariamente va dall’epoca del primo re tibetano gNya’ khri bTsan po (non databile, ma forse prima del III secolo a.C., nell’ipotesi attualmente non verificabile storicamente) sino alla persecuzione di Gri gum bTsan po (stesso discorso del mitico predecessore, forse tra III e II secolo a.C.).
La seconda diffusione va dal regno del figlio
di Gri gum bTsan po, ’Od lde sPu rgyal, restauratore del bon, alla storica
persecuzione di Khri srong lDe’u btsan (755-797), sul finire dell’VIII secolo.
La terza
propagazione
della dottrina (phyi dar) è strettamente connessa alla formazione del canone
bonpo e si ritiene inizi nel 913 con
la scoperta di alcuni gter ma, presso bSam yas, da parte di tre monaci erranti
dal Nepal.
La
preponderanza dei testi rivelati distingue il canone bon da quello buddhista.
Si ignora quando il canone venisse definitivamente assemblato, ma probabilmente
non prima della fine del XIV secolo,
dal momento che il testo più recente è
datato al 1386.
Per Karmay il periodo oscuro del bon (come per la storia tibetana tout court dalla fine della monarchia nell’842 al X-XI secolo) va dalla persecuzione di Khri srong lDe’u btsan alla scoperta dei gter ma di gShen chen Klu dga’ nel 1017; la codificazione dei testi e la costituzione del canone datano a gShen chen Klu dga’. Snellgrove le ascrive al X secolo.
La
partizione del canone è tradizionalmente attribuita a gShen rab sul volgere
della sua esistenza terrena e annovera gli insegnamenti e i rituali raccolti ne
‘Le Quattro serie più la Quinta detta il Tesoro’ (sgo bzhi mdzod lnga) e nei
‘Nove Veicoli’ (theg pa dgu) del bon: essi sono analoghi nel buddhismo rnying
ma pa, essendosi bon e buddhismo pervasi, sebbene neghino il debito contratto
l’una con l’altra. Il brten ’gyur contiene opere non ascritte a gShen rab, ma
‘fermamente basateʼ (brten) sulla sua parola
(bka’), note come bka’ brten. Non si può stabilire il terminus ad quem per la
sua formazione, ma gli ultimi testi inclusi in esso sono i commentari redatti dal
grande organizzatore del bon monastico su ricordato Shes rab rGyal mtshan.
Il bon si reputa erede della religione indigena (la religione ‘senza nome’ teorizzata da Stein 1986, 202-3), l’insieme di queste pratiche rientra nella definizione (Stein 1986) di ‘religione senza nome’; per la denominazione – che riguarda anche gli studi antropologici sulle tradizioni himalayane e tibetane non buddhiste – Charles Ramble (1998, 124) ritiene più adeguata la qualificazione di ‘pagana’ per i culti antichi.
Compito dei
sacerdoti bon, scacciare e sottomettere i demoni (gsas drag), richiamare la
buona fortuna (phya klags) e la mantica (mo btab), come ricorda Lalou (1958), a
proposito del PT 1285 ove sono menzionati cento gshen po e cento gshen mo che
praticano la divinazione; in questi testi non compare il sacrificio di esseri
viventi. Stein critica la traduzione di gShen ‘sciamanoʼ (basata sulla relazione con la lingua dei Keto o Ostiachi,
popolo siberiano, suggerita da Hoffmann 1944, 341; 1950, passim) e seguita da
Haarh (1969) e da Tucci (1955-56, 199). Bon po e gshen non sono mai presentati
come ‘invocatoreʼ e ‘sacrificatoreʼ a Dunhuang e anzi il PT 1194 attesta uno gshen che espone un
racconto; il loro ruolo sarebbe analogo. Parallelamente Stein considera assai
prossimi i canti, le recite (smrang) e i riti di guarigione e funebri, che presentano
i medesimi elementi, l’eliminazione dei demoni attraverso un sacrificio di riscatto
(glud), la purificazione dalle contaminazioni e così via.
Il nome di gShen rab è collegato allo Zhang zhung e compare in più occorrenze a Dunhuang (Pha gShen rab(s) kyi myi bo che, anche se non è tra gli gshen nominati più frequentemente), non per il riformatore della tradizione posteriore, ma come un bonpo che comunica tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti uno specialista in rituali di cura e funebri (gshen rab), o un uomo (myi bo) esperto nei riti, proveniente dal clan degli gShen (gshen rabs).
Allora il
nome della religione antica fu bon o gtsug?
Il bon
(adattatosi al buddhismo dal X secolo)
andrebbe distinto (Tucci 1973) dal substratum della tradizione popolare non buddhista
(mi chos, ‘la religione/legge degli uomini’), che ancora impronta la visione
religiosa tibeto-himalayana, cioè ‘la tradizione/la religione senza nome’.
Il nucleo originario dell’antica religione bon è formato dalla natura numinosa dei re e dalle loro divinità, specialmente quelle delle montagne (sku bla), e i rituali bon, eseguiti da sacerdoti gshen e bonpo, ne furono parte essenziale). Per Namkhai il bon è l’insieme dei culti e delle tradizioni magiche, rituali e religiose basate molto probabilmente su elementi comuni al patrimonio dello sciamanismo pan-asiatico. Sicuramente alcuni tipi di Bön erano basati su principi e pratiche simili a quelle dello sciamanismo: ciò è provato da numerosi elementi che ancora sopravvivono nei riti Bön e nei riti buddhisti derivati dal Bön. Ad esempio il tema dell’anima (bla) rapita dagli spiriti e riconquistata grazie al potere dello sciamano (del bon po in questo caso) è comune a molte tradizioni sciamaniche non solo asiatiche.
Elementi delle tradizioni sciamaniche eurasiatiche nel bon sono ben evidenziati da Tucci (1946; 1949; 1970; 1973), per cui la soggiogazione all’ambiente nativo spiega l’adorazione tibetana degli spiriti naturali e il ricorso a magia e divinazione. Al riguardo vorrei ricordare un’affermazione di Paolo Daffinà su questi temi: l’esistenza di pratiche sciamaniche avvicina l’antica religione degli Indoeuropei a quella dei popoli dell’Asia centrale e settentrionale, molto più che non a quella dei popoli dell’Oriente anteriore antico.
(F.
Maniscalco)
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