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alla vetta (17)
Secondo la
cosmografia mistica dei Tibetani e le più antiche tradizioni indiane, il Kailasa (6600 m. circa) è il centro dell’universo;
ai suoi quattro lati si distendono quattro continenti, e dalla bocca di quattro
animali favolosi, agli angoli di un lago che si allarga alla sua base,
fluiscono quattro grandi fiumi: la Ganga
(Gange), il Brahmaputra, la Satlej e la Sita.
L’esplorazione
geografica della contrada, cominciata da Strachey e seguita da Sven Hedin, ha
rintracciato le sorgenti di questi fiumi, e i miti antichi hanno ceduto di
fronte alla investigazione scientifica moderna, ma sta di fatto che alcuni dei
massimi sistemi fluviali dell’Oriente scaturiscono proprio nelle immediate
vicinanze di questa montagna, che è forse la più sacra dell’Oriente. Tanto
sacra che la gente ci va in pellegrinaggio dai confini della Cina e della
Mongolia e dalle più lontane province dell’India: oggi come forse agli albori
del vivere civile; e se anche altri monti dell’Asia, e specialmente della
catena himalayana, sono considerati particolarmente sacri per la favoleggiata
presenza di Dio, non c’è dubbio che a nessun altro si gira intorno con tanta
devozione.
Prima
ancora che il Tibet si convertisse al Buddismo e col Buddismo accettasse molte
tradizioni religiose indiane, il Kailasa era
forse il massimo Dio fra la gente di pastori nomadi e predoni, che popolava con
i suoi mobili accampamenti lo squallore dei deserti circostanti. Il culto della montagna è elemento fondamentale nelle
religioni di tutte le stirpi himalayane: ed è naturale, perché proprio i
montanari sono i più sensibili alle ineffabili bellezze di queste cime che
toccano il cielo, e ne temono le insidie, e ne conoscono la terrifica maestà
quando la tempesta si scatena sui dirupi, e il tuono urla di giogo in giogo, e
i fulmini scoppiano sulle guglie mai violate dall’uomo.
Lo dovevano chiamare Tise, e il nome è restato anche oggi: poi i Bonpo, che precedettero con la loro religione i Buddisti favoleggiarono che sulle vette ghiacciate abitasse una coorte di 360 deità dette ghicòd, forse simbolo e immagine dei 360 giorni dell’anno roteanti intorno all’asse del mondo.
Gli Indiani
lo conoscono come il Kailasa, e lo venerano come
il paradiso di Sciva: sul picco adamantino che sembra lambire il cielo di
turchese è il palazzo del supremo Dio dell’olimpo indiano: alle sue solitudini
ed ai suoi silenzi i fedeli oranti e meditanti trassero fin dagli albori della
civiltà indiana. Fu anche identificato spesso con la montagna mitica chiamata
Meru o Sumeru, che è come la colonna o il pilastro intorno a cui si svolgono i
mondi e sulla quale, per piani successivi, si succedono i paradisi e le sedi
degli Dei.
Questa è la montagna a cui, in cerca di pace, muovono gli eroi della guerra mahabharatiana: i Panduidi, stanchi alfine delle dure lotte, la sciano il regno a Paricscit e vestiti da asceti cominciano, sotto la guida del pio Iudistira, la difficile e lunga ascesa delle catene himalayane verso il sacro monte oltre le cui nevi ed i cui ghiacci albergano, in sedi accessibili soltanto al puri, le schiere celesti; poco alla volta, incapaci di resistere alle fatiche del viaggio e alla disciplina dello yoge, fratelli cascano al suolo lasciando solo Iudistira col suo cane fedele.
Più aspra si fa la strada, ma l’eroe non cede: ed alfine le porte del cielo gli si aprono. Ma quando gli Dei gli annunciano che non può entrarvi in compagnia di un animale impuro, come è il cane, Iudistira è pronto a rinunciare al cielo piuttosto che abbandonare il compagno, ed allora il cane miracolosamente si tramuta nella figura della Giustizia, e l’eroe, vinta anche quest’ultima prova, è degno del supremo godimento delle più alte beatitudini.
Insomma la tradizione indiana ha sempre considerato questi paesi come il centro del mondo e la porta del cielo.
I Buddisti
poi immaginarono che al Kailasa albergasse Samvara
simbolo di una delle supreme esperienze mistiche aperte all’asceta: e nel Tibet
chiamarono la montagna Kanrinpocè ‘la gemma di ghiaccio’, nome che è passato
oramai sulle nostre carte.
Io di montagne ne ho viste e ne ho scalate tante, che debbo essere creduto quando affermo che il Kailasa esercita su chi lo vede la prima volta profilarsi all’orizzonte un’impressione di superba bellezza che non si può dimenticare. E si comprende come i pellegrini indiani, che affluivano dalle pianure attraverso le aspre gole himalayane, piegassero le ginocchia alla prima vista di questa montagna e la celebrassero come dimora dei loro Dei.
Il cono
adamantino del Kailasa si scopre per la prima
volta da un arido costone che separa il lago Manosarovar dal Raksas Tal: si
vede lo scintillare della cima superba sotto un cielo di turchese, quasi
solitaria vedetta fra un lento ondeggiare di altri giganti che fuggono verso
nord in un indefinito inseguirsi di guglie e di picchi. Visibile da molti punti
del Manosarovar, a Barka appare in tutta la sua magnificenza; Barka è una casa
in mezzo ad accampamenti di pastori e di nomadi, sulla pianura che si protende
immensa come una landa sconfinata.
A Darchin il Kailasa non si vede già più: gli si è proprio sotto. Darchin è una casa, o meglio un fortilizio in cui vive con i suoi scherani un prefetto di polizia, il quale deve tenere a bada le bande di briganti che scendono dai Passi a nord e ad est, e rapinano gli accampamenti e le mandrie dei pastori. Pellegrini, mercanti e pastori s’aggruppano intorno alla casa del Prefetto, quasi in cerca di protezione e di difesa: vivono in squallide tende insieme col loro gregge e le loro merci. Sani e malati, pastori e laici, venuti quassù, su questa terra santa, a mercantare e a pregare, a elemosinare e a rubare.
Indiani e
Tibetani, gente di tutte le favelle e di tutti i costumi: ma divisi per
province, raggruppati secondo i paesi da cui vengono. C’è un fiume che scorre
quasi sotto la casa del Prefetto e divide la zona, diremo così, propriamente
tibetana da uno spiazzato largo su cui piantano le tende soltanto i pellegrini
indiani.
Io pure mi sono accampato vicino agli Indiani, perché il terreno è più alto e più pulito, e meglio ci si difende dall’assalto dei mendicanti e dei lebbrosi, che vengono ad implorare la carità, e non sono mai soddisfatti, e ritornano con la petulanza di cani famelici. Ma ogni momento scendiamo fra i Tibetani, in cerca, ora di libri, ora di oggetti preistorici che, trovati scavando la terra, si crede siano piovuti dal cielo, e sono perciò cuciti sulle vesti come talismani infallibili. Chi ne possegga nove è così munito contro gli assalti delle forze cattive e così ben corazzato, che si crede porti fortuna a tutto il villaggio in cui, per caso, venga a trovarsi. Chi vuole far raccolta di oggetti preistorici deve, nel Tibet, andare in cerca di cose cadute dal cielo: se no, nessuno l’intenderebbe.
Darchin è luogo di sosta: qui fanno capo le carovane di pellegrini, e di qui partono le colonne per compiere la circumabulazione della montagna: giro che i Buddisti e gli Indù fanno tenendo la montagna sempre destra ed i Bonpo invece in senso contrario. Le persone che ci vedevamo venire incontro durante il nostro cammino erano perciò tutte seguaci di questa religione, che sta quasi per scomparire.
Il circuito
del Kailasa si può benissimo compiere in due o
tre giorni al massimo: ma io ce ne ho messi di più perché ho voluto visitare i
monasteri che pietà di fedeli e munificenza di principi hanno costruito nelle sue
gole.
Qui i monasteri sono davvero quello che il nome tibetano significa: dgon pa, cioè luogo solitario e silenzioso, Si tratta infatti di veri e propri romitori, che, quando le istituzioni monastiche si sono diffuse nel Tibet, hanno preso le proporzioni di modesti conventi. Modesti perché in mezzo a questi deserti rocciosi, lontano dai centri abitati o dai grandi bazar, non potrebbe che vivere una popolazione numerosa di monaci; piccole comunità di persone meditanti, che nei silenzi di queste gole remote cercavano realizzare le supreme esperienze.
Adesso, in
quel generale decadimento che ha soffocato ogni slancio di vita spirituale e
distrutto ogni gloria politica di questa terra sacra alla memoria del Buddismo,
i monaci sono scarsi e gli asceti più rari e vivono speculando sui ricordi di secoli
passati ove vi conseguirono la loro perfezione spirituale.
La paura dei predoni che infestano le valli vicine e possono scendere da un momento all’altro dai valichi imminenti induce i pellegrini a cercare rifugio in questi monasteri che si tramutano in alberghi e dormitori chiassosi, nei quali favelle e religioni si confondono e si affratellano sotto la minaccia dei briganti.
I monaci
sono lieti di concedere questa ospitalità, che non solo è opera umana e
caritatevole, ma frutta ad essi ed al convento non dispregevoli prebende. Ché
anche qui i Lama sono avidi di danaro e bramosi di mercatare. Ecco perché i
monasteri sono quasi deserti: i monaci sono scesi nelle fiere a vendere,
barattare, fare affari, impartire benedizioni e strologare.
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