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POI SI E’ ALZATO UN GELIDO VENTO
E poi un giorno vidi una carta con sentieri che
non avevo mai visto prima, una carta dell’Europa trasfigurata da linee
colorate, frecce predatorie simili all’avanzare di eserciti che attraversavano
confini, passavano sulla terra e sul mare, collegavano regioni e culture che
nella mia mente sembravano separate: latini e slavi, continentali e costieri, nordafricani
ed europei meridionali. Quei corridoi misteriosi avevano nomi seducenti quanto
la Via della Seta o il Camino de Santiago: Mistral, Tramontana, Föhn, Scirocco,
Bora. Ce n’era uno persino nell’Inghilterra settentrionale, dal brusco nome di
Helm. La carta mostrava le rotte dei venti locali, che soffiavano con forza
tremenda in particolari periodi dell’anno – solitamente nel passaggio da una
stagione all’altra, per esempio quando l’inverno diventa primavera – e, come
scoprii con grande interesse, si diceva influenzassero tutto, dall’architettura
alla psicologia. Il fatto che quelle forze invisibili avessero dei nomi,
anziché semplici indicazioni dei punti cardinali di provenienza, attribuiva
loro un senso di maestosità, quasi un preciso carattere. Sembravano personaggi
che avrei potuto incontrare. Quelle frecce che si avventavano e si tuffavano
suggerivano rotte che potevo seguire, itinerari mai percorsi prima. Appena vidi
quella carta lo seppi: avrei seguito i venti.
Ma da dove vengono i venti, e dove vanno?
E si può davvero dire che “vanno” nello stesso
senso in cui chi cammina va da qualche parte, o una strada da un posto
all’altro?
E se così è, che fine fanno una volta che ci sono
arrivati?
In fin dei conti, che cos’è il vento?
Ma innanzitutto sarebbe opportuno cominciare con
una domanda ancora più fondamentale: che cos’è l’aria?
Per quanto mi vergogni ad ammetterlo, prima di
cominciare questo libro ritenevo – come sospetto facciano in molti – che in
fondo l’aria non sia niente, non esista allo stesso modo in cui esistono la
terra o l’acqua. La consideravo un’assenza, un nulla in attesa di essere
riempito, e fu quindi una rivelazione scoprire che l’aria è qualcosa di per sé.
L’aria è un gas, o un miscuglio di gas: più che altro azoto e ossigeno, con piccole quantità di anidride carbonica, argon e vapore acqueo. Come ogni gas è composta da molecole, a loro volta composte da atomi. Quindi l’aria non solo ha sostanza, ma anche peso – la seconda rivelazione – e il termine corretto per definire il peso dell’aria, i suoi miliardi di molecole combinate, è “pressione atmosferica”. Proprio come la pressione in fondo all’oceano è maggiore che in superficie, a causa del volume d’acqua sovrastante, la pressione atmosferica è maggiore ai livelli più bassi – perché gravati da un peso maggiore – e inferiore ad alta quota, dove c’è minor peso. La pressione dipende dalla temperatura: quando fa caldo l’aria sale, creando aree di bassa pressione, e quando fa più fresco scende, creando l’effetto opposto. Quando le “particelle” d’aria vicine fra loro sono sottoposte a pressioni diverse, l’atmosfera deve “livellarsi”; quindi l’aria che si trova nelle aree di alta pressione è costretta verso quelle di bassa pressione, per bilanciarle. Viene risucchiata, più che soffiata: ecco la terza rivelazione.
O quanto meno questa è la risposta fornita dalla
nostra cultura.
Altre culture hanno fornito risposte diverse, creando storie complicate e differenti fra loro quanto lo sono i venti stessi.
Gli antichi greci assegnarono al vento una sua
posizione fin dall’inizio del tempo: quando la dea Eurinome, madre di tutte le
cose, emerse nuda dal Caos e separò il mare dal cielo, la sua danza mise in
moto l’aria e creò il vento del Nord, che divenne il serpente Ofione (il quale
in una successiva incarnazione appare come dio Borea). Eurinome, accoppiandosi
con quel sinuoso e fluente serpente di vento e prendendo quindi forma di
colomba, depose l’uovo universale dal quale ebbe origine tutta la vita.
Vento e vita: le due cose sono collegate ai livelli più profondi del
linguaggio. I termini per indicare lo
“spirare” del vento, il “respiro” e lo “spirito” sono uguali in molte lingue, tra cui l’ebraico ruach e l’arabo ruh. La parola
greca per vento, anemos, dà origine
al latino anima, la forza che dà vita – anima, appunto – alle
creature che respirano, gli animali. Un’altra parola latina, spirare, che
significa “soffiare”, “respirare”, è all’origine di “spirito” come pure di
“respirazione”.
E per i greci, nelle parole dello scrittore e traduttore
Xan Fielding,
‘le brezze venivano chiamate zoogonoi, generatrici di vita animale, e psychotropoi, nutrici di anima; e i progenitori mitologici della razza umana adorati ad Atene... erano sia spiriti del vento che progenitori, sia respiri che anime’.
Io volevo seguire quei respiri, quelle anime, ma
da dove cominciare?
Nell’antichità chi avesse aspirato a camminare con
i venti avrebbe potuto consultare un aeromante o, meglio ancora, un
austromante: il primo è colui che predice il futuro interpretando il tempo e il
secondo è più specificatamente un indovino che si basa sui venti (dal latino
auster, sud, che attribuisce una particolare enfasi ai venti provenienti da
mezzogiorno).
Il vento si rendeva visibile con nuvole di polvere
o di semi lanciate in aria, e il loro movimento veniva interpretato come un
linguaggio; nei boschi sacri gli indovini ellenici traevano le loro predizioni
dalla percussione di gong a opera di bacchette mosse dal vento, empie
divinazioni che furono condannate dai cristiani venuti in seguito. La scienza,
o magia, dell’aeromanzia fu demolita dal teologo medievale Alberto Magno, anche
se non si può escludere che egli avesse fatto confusione con la negromanzia,
passatempo assai più sinistro.
Oggi le nostre previsioni possono basarsi anche sull’apporto di immagini satellitari e su modelli computerizzati incredibilmente complessi, ma il dato di partenza è sempre lo stesso: si interpretano gli schemi invisibili dei venti per comprendere il futuro. Da un punto di vista estetico i risultati sono affascinanti; guardare in internet una carta del tempo significa osservare un mondo di meravigliosi disegni psichedelici in continua evoluzione, uno spettro in movimento di viola, verdi, gialli, blu e arancio, punteggiati dagli aguzzi triangoli azzurri e dalle mezzelune rosse dei fronti freddi e caldi.
Il vento diviene una topografia di spirali
concentriche da far girare la testa: i profili di isotache e isobare – che
rappresentano le linee lungo le quali i venti hanno eguale velocità e pressione
– e le bandiere di vento, linee direzionali che aggiungono un ardiglione per
ogni cinque nodi di incremento, vorticano nell’atmosfera come grappoli di note
musicali. Hanno l’aspetto di rune, illeggibili per chiunque non abbia acquisito
le conoscenze necessarie per interpretarle. Sono una specie di alfabeto, così
come il vento è una specie di voce.
Nell’estate del 2015, prima di cominciare i miei cammini del vento, andai ad Atene a cercare un edificio che si chiama Torre dei Venti. Costruito duemila anni fa dall’astronomo Andronico di Cirro nell’antica agorà romana, si tratta di una torre ottagonale di marmo alta quanto una casa di tre piani, che raffigura, su ciascuno dei suoi otto lati, gli Anemoi: gli dèi del vento.
Definirli dèi del vento potrebbe sembrare poco
accurato, come a suggerire che lo controllino. Per gli antichi greci – e, avrei
scoperto in seguito, per molte altre culture – venti e dèi erano inseparabili,
come lo erano dai punti cardinali dai quali provenivano.
Xan Fielding lo spiega bene in Aeolus Displayed:
‘Poiché il vento si identifica con il respiro, il respiro con la
vita, la vita con l’anima, e l’anima con la divinità, non c’è da sorprendersi
che i venti venissero personificati come dèi’.
Il fregio della Torre dei Venti li raffigura come uomini alati, alcuni in sandali e altri scalzi, in volo orizzontale e recanti oggetti simbolici che rappresentano il loro potere.
Da nord proviene Borea, il feroce vecchio che scatena l’inverno –
incarnazione corrucciata del lussurioso serpente Ofione – brandendo una
conchiglia a simbolo del suo ululato.
Da sud viene Noto, il distruttore di raccolti, che regge in mano un vaso
rovesciato simbolo della pioggia.
Da est proviene Euro, lo sfortunato, associato a cieli scuri e tempeste.
Da ovest proviene Zefiro gentile – da cui l’omonima brezza – con il
mantello ricolmo di fiori primaverili (sebbene la sua soave reputazione sia in
parte macchiata dall’uccisione dell’eroe Giacinto, colpito alla testa da un
disco soffiato da Zefiro).
Sono queste le divinità cardinali, schiacciate tra i loro fratelli ordinali: Skiron da nordovest che rovescia sul mondo la sua urna di ceneri ardenti, Kaikias da nordest con il suo scudo ricolmo di grandine, Lips da sudovest, che reca l’ornamento di poppa di una nave – da lui salvata o forse distrutta – e da sudovest Apeliote, senza barba e che porta frutta, come il perfetto ospite di un banchetto.
Un tempo coronata da una banderuola con la forma
del dio Tritone, che ruotava a indicare la divinità in quel momento predominante,
la torre è un’antica combinazione di arte e scienza. Oltre a essere un luogo
sacro, fungeva da “rosa dei venti”, una rappresentazione della direzione dei
venti utilizzata per la navigazione molto prima della bussola magnetica, e
quello stesso schema di base – un cerchio suddiviso in quattro, otto, sedici o
trentadue segmenti che si irraggiano da un punto centrale – venne copiato dai
cartografi nei secoli successivi.
Sulle carte medievali i venti cardinali erano raffigurati come facce iraconde che soffiano folate d’aria – ‘Soffiate, o venti, fino a farvi lacerar le gote!’ come grida Lear nella brughiera desolata – e negli esemplari più elaborati Borea soffia vento e neve, Euro dalla pelle scura soffia soli cocenti, Zefiro fiori in boccio e i venti “insalubri” effondono raffiche di teschi umani.
Ma sotto quell’iconografia le rose dei venti erano
strumenti pratici, i primi tentativi di schematizzare qualcosa che sembrava
privo di schema. ‘Una rosa dei venti può domare l’aria’ scrive Alexandra Harris
in Weatherland. ‘Ogni vento occupa la propria sezione della bussola, è
ordinatamente e utilmente etichettato con una lista poliglotta di nomi, e
ciascuno di loro soffia dalle gote gonfie di una faccia. La rosa dei venti
somiglia a un orologio astrologico e rassicura i marinai facendo sembrare che
l’aria funzioni come un orologio’.
Le rose dei venti tuttora in uso sono improntate a questa logica manageriale, somigliano a diagrammi a torta più che a rappresentazioni del divino. Scomparse le facce di cherubini minacciosi, scomparse le gote gonfie: velocità e direzione dei venti sono frecce computerizzate in colori vividi e amichevoli, le cui diverse lunghezze denotano la loro frequenza. Nondimeno, il loro schema di base somiglia a quello che ho osservato, alla base dell’Acropoli. L’estetica può essere cambiata, ma il concetto resta lo stesso.
Avevo compiuto il mio pellegrinaggio a quella
torre per orientarmi, l’avevo immaginata come l’epicentro dal quale avviare la
mia ricerca. Invece la trovai affogata nelle impalcature, le divinità nascoste
sotto il velo di una rete verde: per mia somma sfortuna, la Torre dei Venti era
in restauro. Un avviso informava che le antiche decorazioni erano state
danneggiate non solo dai proiettili di secoli di guerre ma, ironicamente,
proprio dai venti: Noto aveva sacrificato buona parte dei suoi lineamenti
all’inquinamento da azoto e anidride carbonica che gli soffiavano in faccia da
sud, mentre Apeliote si sbriciolava per l’umidità soffiatagli addosso da
sudest. Se dèi e venti erano la medesima cosa, allora le disastrate condizioni
della torre suggerivano un lento suicidio.
Poiché avevo attraversato l’intera città per arrivare fin lì, mi misi comunque a sedere alla base della torre. Era una calda giornata di giugno. Atene ronzava accecante, uno smog rosato aleggiava nel cielo sopra il Partenone e la luce si rifletteva abbagliante sugli specchietti degli scooter di passaggio. Ma c’era una lieve brezza, così tirai fuori la bussola che mi portavo appresso per scoprirne la provenienza. Soffiava da nordest, il dominio di Kaikias.
Mentre guardavo, grato per l’aria fresca, la
brezza si rafforzò e cambiò direzione fino a diventare un vento da nord – Borea
– che faceva ondeggiare i cipressi scuri e costringeva un olivo a esporre prima
un lato e poi l’altro delle sue foglie, in lampi verdi e argentei. I turisti
erano costretti a socchiudere gli occhi per difendersi dalla polvere.
Erba e fiori proiettavano ombre in movimento.
Poi cambiò di nuovo e un vento contrario cominciò a emergere da sud, dal regno di Noto. Non era altrettanto forte, ma il suo flusso era costante; fece coricare l’erba in un’altra direzione, accarezzò contropelo un gatto randagio in agguato fra i cespugli. Infine, anche la rete che ricopriva la torre cominciò a incresparsi e sollevarsi, muovendosi in liquide onde e regalando alla struttura una nuova espressività. L’oggetto inanimato prese vita; non c’era altro modo di vederlo.
Di colpo tutto si trasformò. Non avevo potuto
vedere i venti sulla pietra, come mi aspettavo, ma il modo in cui la rete
adesso si gonfiava, fluttuando con minuscoli movimenti a ogni variazione
d’aria, rivelava le facce degli dèi meglio di quanto avrebbe mai potuto fare il
marmo. Con la certezza di un austromante che legge il disegno dei semi lanciati
nell’aria, o di un meteorologo che scruta isotache e isobare, mi resi conto che
potevo vedere il vento. Ora non mi restava che seguirlo.
Meltemi, Halny, Scirocco, Tramontana, Levante, Košava, Marin: in Europa sono dozzine i venti con un nome proprio, ma io decisi di seguirne quattro, in ossequio ai proverbiali quattro venti e ai quattro punti cardinali.
(N. Hunt)
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