Precedenti capitoli dell'
8 Settembre... (7)
Prosegue con la...:
lingua degli Dèi [9]
Fra spelonche
e caverne (10/1)
Dunque la vacuità è la vera essenza di tutte le
cose…
Che
significa questo?
Significa
che normalmente attribuiamo una definizione, un’etichetta, un nome (e un giudizio anche e soprattutto a fenomeni
associati, come abbiamo letto precedentemente, all’erronea interpretazione di Diavoli
e Dèmoni, i quali [assieme a ‘sorella morte’ che li accompagna in nuova ‘vita’]
‘popolano’ la nostra ed altrui ‘sacra cultura’ secondo schemi certamente mutati,
e/o evoluti, ma saldamente stratificati nelle coscienze non meno dei ‘riti’ che
più ci appartengono; i quali, ci dovrebbero ‘distinguere’ sempre in merito e
per conto*
di quel progresso di cui teniamo il dovuto conto* [* e si badi bene questo non è un ‘doppio
errore grammaticale’ per chi si vuol porre alla cattedra della propria ed
altrui cultura e natura, ma una semplice constazione, giacché si continua a
negare, oggi non meno di ieri, il ‘conto’ dei veri dèmoni uniti in una più
vasta corte assisa e connessa attentare la vita..], almeno che questo non sia
solo uno strumento, assieme all’intera evoluzione, misurato o peggio contato e
coniato nell’araldo della cieca ostinazione dell’economico traguardo… nei
secoli della Storia occidentale… assommata…) a tutto ciò che incontriamo
nella vita di ogni giorno.
Questi pensieri che sovrapponiamo a tutta la nostra ed altrui esperienza compongono dunque la realtà apparente delle cose; e a questo punto non ci sfiora più il sospetto che tutte quelle che ci appaiono come cose, persone e situazioni realmente esistenti in sé e per sé – dalla loro propria parte – siano in realtà costruite dalle nostre percezioni, dal nostro modo personale di percepire e di reagire a tutto quello che ci circonda. In tutto ciò che facciamo, diciamo e pensiamo, siamo guidati dalla nostra mappa personale del mondo – a la mappa di ciascuno è diversa da quella di tutti gli altri e, qualsiasi caso, la mappa non coincide mai con il territorio. Il mondo che abbiamo costruito, quello a cui reagiamo con maggiore o minore impeto emotivo, con maggiore o minore gioia, attaccamento, rabbia, noia, delusione, paura, indifferenza o dolore – a seconda dei casi e degli individui – è un prodotto del nostro karma, cioè dell’immenso bagaglio di esperienze e tendenze abituali soggettive, sia consce che inconsce… ma anche e soprattutto il grado della nostra ed altrui… conoscenza infatti secondo taluni dettami del Buddhismo...
IL
PRIMO DEI DODICI ANELLI: L’IGNORANZA FONDAMENTALE…
Il primo dei dodici anelli è l’ignoranza (in alto ‘a ore dodici’,
spostato verso la destra di chi guarda), rappresentata
da una vecchia bendata che brancola nella confusione e nel disorientamento più completi.
Il primo anello, la causa prima di tutto il samsara (ammesso che si possa parlare di
una ‘causa prima’) è l’ignoranza, cioè la
non–conoscenza…
…Naturalmente
questa è anche la causa fondamentale di tutta la sofferenza che gli esseri
senzienti sperimentano: e questo è già di per sé molto interessante, o degno di
riflessione – specialmente se paragoniamo il Buddhismo ad altre tradizioni religiose
in cui si afferma che la causa di ogni sofferenza è il male.
Il male in quanto entità indipendente, nel Buddhismo non è neppure menzionato: se un male assoluto (un principio di completa malvagità intrinseca) esistesse, indovinate cosa farebbe? La prima cosa che farebbe è distruggere se stesso, perché cos’altro potrebbe fare qualcuno o qualcosa che è male o diabolico?
Viceversa, nel Buddhismo affermiamo che tutti gli
esseri, senza alcuna distinzione, desiderano la felicità e cercano di evitare la
sofferenza; questo fondamentale desiderio o ricerca della felicità personale è di fatto il contrario del male – anzi
è forse una scintilla della nostra natura di Buddha, un bagliore della nostra ‘bontà
fondamentale’…
Purtroppo, però, una cosa è desiderare un oggetto (come la felicità), altro è riuscire ad ottenerlo. È la confusione, o ignoranza, che spinge gli esseri a pensare, parlare e agire in maniera totalmente controproducente rispetto alla propria felicità.
Gli esseri
– accecati dall’ignoranza – pensano di poter raggiungere la felicità
danneggiando gli altri (che, come loro stessi, desiderano la felicità), per
esempio truffando, imbrogliando, prevaricando, rubando, uccidendo,
approfittando di chi è più debole, usando ogni forma di violenza diretta o
indiretta per essere i primi ad ottenere qualcosa alle spese degli altri.
Ma questo non funziona – mai! – e i carnefici sono in realtà le prime vittime del proprio stesso comportamento; perché una cosa è certa: nella vita, l’energia che investiamo è quella con cui veniamo ricompensati e, di conseguenza, chi danneggia o si comporta male con gli altri è automaticamente e simultaneamente “punito” per le proprie azioni… con l’impossibilità di trovare la pace della mente e un’autentica felicità.
Non c’è bisogno
di credere a questo per atto di fede, basta guardarsi attentamente intorno per
verificare – sulla base di esempi concreti, presi dalla vita di ogni giorno –
se tutto ciò è vero o meno.
Il motore
che mette in movimento la ruota del samsara
è dunque l’ignoranza.
Ma ignoranza di cosa?
Negli
insegnamenti Dzogchen parliamo di
ignoranza (o non – conoscenza) della base. La base è la condizione primordiale
di tutti i fenomeni, animati e inanimati; è la condizione primordiale della
nostra mente e di tutto ciò che esiste.
‘Primordiale’ qui si riferisce a qualcosa che esiste
fin da un tempo senza inizio, qualcosa che è connaturato all’esistenza stessa – e anche all’inesistenza, poiché
queste due sono inseparabili, come due facce della stessa medaglia. Dunque il
termine primordiale, in ambito
buddhista, non significa ‘fin dall’inizio di tutte le cose’, per il semplice fatto
che un inizio di tutte le cose non c’è mai stato.
Dunque la base è la condizione primordiale di
tutti i fenomeni, di tutti i mondi e di tutti gli esseri che li abitano.
La base è lo stato primordiale della nostra mente; la conoscenza diretta di questa base costituisce il punto di vista, o anche visione.
Il punto di vista si sviluppa attraverso
tre livelli di progressivo rafforzamento:
1) comprensione intellettuale: è quella che
si può ottenere leggendo, ascoltando, riflettendo e studiando. Costituisce una
tappa fondamentale, il punto da cui bisogna partire;
2) esperienza: è quella che si raggiunge
attraverso la pratica della meditazione. È accompagnata da un senso di
beatitudine interiore, di chiarezza e di libertà dal pensiero concettuale – ma,
se non la si coltiva, può essere perduta o dimenticata;
3) realizzazione: è il frutto della pratica ed è irreversibile, una condizione che non può più andare perduta e rimane stabilmente con il praticante – al di là di ogni distinzione fra meditazione e non meditazione.
(Dzogchen Nyingthig; il ‘corsivo’ del curatore del blog)
“Laudato sii, o mio Signore/, per nostra sora
Morte corporale/, dalla quale nessun uomo vivente può scampare/. Guai a quelli
che morranno nel peccato mortale/. Beati quelli che si troveranno nella tua
volontà/ poiché loro la morte non farà
alcun male/”.
….La morte appunto….
Cerchiamo di approfondire senza divergere confondere e/o difettare nella pretesa del ‘sapere’ confuso per dotta sapienza, dalla quale, per altro, il santo si distinse per sua umiltà, ed in questa stessa umiltà rileviamo talune simmetrie oppure universalità che dovrebbero rendere la disquisizione riflessa nella conoscenza di ciò di cui ‘intuito’ nella propria luce ‘onda e particella’ senza precipitare in qualsivoglia paradossale condizione a cui il ‘valente dotto’ - oggi più di ieri - assente alla moneta di Dio pur scalando ugual vetta… E di cui sovente, infatti, difetta per propria ricchezza: non un caso abbiamo aperto ‘tre tomi’ così come l’antica ed uguale sacralità voleva, ma forse per paura di medesimo male ci aggrappiamo ad una antica teologia e ‘formula’ confusa e perseguitata per magia… rimembrando e celebrando Frate Sole e Sorella Luna*….
Fu sempre
durante i circa due mesi di soggiorno in San Damiano per dar un qualche
sollievo al suo fisico ammalato che Francesco avrebbe scritto le Laudes creaturarum o Laudes Domini de Suis creaturis:
quella composizione in volgare che, con il nome di Cantico
delle Creature o Cantico di Frate Sole, viene considerata la prima opera
poetica della letteratura italiana.
Le sue sofferenze, durante la degenza in San Damiano, si erano fatte acutissime. La ‘quartana’ lo assaliva con i suoi accessi febbrili che dovevano dar spesso luogo a forme di allucinazione; il tracoma gli impediva ormai di distinguere se non qualche ombra confusa; la notte non riusciva a prendere sonno. Secondo la Compilatio Assisiensis fu all’alba di una di queste notti terribili, ricevuta in spirito l’assicurazione del premio che lo attendeva, che egli compose il Cantico.
Quel che
più colpisce noi moderni, figli di una civiltà tesa tutta a negare un senso al
dolore, alla malattia, alla morte, è questa capacità di lodare Iddio per il
sole e il fuoco da parte di un uomo al quale la luce era rifiutata; questa
capacità di lodarLo per le sofferenze non già quando esse erano lontane e tale
lode poteva sembrare un esercizio teologico, ma proprio mentre esse gli
straziavano le carni.
Uno degli
inni più belli e pieni alla vita, alla gioia, al mondo che siano mai stati
composti è nato dalle piaghe e dal dolore.
Qui sta
l’esemplarità di Francesco; qui la sua irraggiungibile incomprensibilità per
noi moderni, che appare evidente quando ci si renda conto di quanto illegittima
sia l’estrapolazione di questa o di quella caratteristica in apparenza più
vicina a noi e ai nostri tempi al fine di ricavarne una figura per noi
agevolmente fruibile ma anacronistica, deformata, pretestuosa.
Perché il Francesco-pace, il Francesco-natura, il Francesco-semplicità che tanto ci piacciono e che magari servono sovente da alibi retorici o demagogici hanno sì una loro realtà: ma solo se inseriti nel loro tempo e commisurati al modello del Cristo. Ma, poiché questo modello viene dai moderni reso implicito o minimizzato o respinto, è evidente che l’esperienza di Francesco sfugga loro.
Ai primi di
giugno Francesco, abbandonato San Damiano, si recò presso Rieti dove esercitava
la sua arte un medico molto esperto nelle malattie degli occhi: il cardinal Ugo
gli aveva esplicitamente ordinato infatti di curarsi la vista. La testa coperta
da un grande cappuccio al quale era cucita una fascia che gli copriva gli occhi,
fu sistemato su una cavalcatura e raggiunse l’eremo di Fonte Colombo nella
Valle Reatina.
Il tracoma
gli procurava bruciori, pruriti e una continua lacrimazione sanguigna e
purulenta: secondo le cognizioni mediche del tempo, tale flusso derivava da un eccesso
di umori freddi e umidi, ai quali bisognava rispondere con un rimedio caldo e
secco che ridonasse agli organi malati il loro equilibrio umorale. Quel rimedio
era il ferro rovente, il cauterio. L’oftalmologo di fiducia del cardinal Ugo
(al-Kamil avrebbe avuto di meglio da offrire al suo strano amico cristiano…)
sentenziò che era necessario cauterizzare dalla mascella al sopracciglio: una
lunga incisione, che avrebbe disseccato le fonti dell’umore. Francesco aveva
paura; e, per vincerla, parlò al fuoco.
Fratello mio Fuoco, nobile e utile tra le
creature dell’Altissimo, sii cortese con me in quest’ora. Io ti ho sempre
amato, e ancora di più ti amerò per amore di quel Signore che ti ha creato. E
prego il nostro Creatore che temperi il tuo ardore, in modo che io possa
sopportarlo.
In pagine come queste sembra riemergere – pur attraverso il filtro di una fonte riflessa, che mai con certezza ci assicura che davvero certe parole siano state dette o che comunque rispondessero allo spirito di Francesco – un lato fra i più affascinanti ma anche inquietanti dei suoi.
Figlio di
quell’area dell’Italia centrale che ha il suo centro nei Monti Sibillini fra Norcia e Ascoli Piceno,
e che anche ai nostri giorni è una delle grandi riserve di cultura folklorica
della penisola, Francesco sembra
spesso pensare e agire in una temperie sospesa fra religiosità popolare e
magia.
Nell’ordalia
dinanzi al sultano come quando parla con gli animali; quando scrive per frate
Leone assediato da una tentazione una chartula di benedizione che ha indubbi
contatti formali con il ‘breve’ – la striscia di carta su cui si scriveva una formula magica
e che, portata indosso, preservava da malattie e da pericoli – come quando
pronunzia, qui appunto, una preghiera che sembra un incantesimo, egli ci lascia
interdetti:
…sta ripercorrendo quasi istintivamente le vie di
una religiosità sincera certo, ma sotto il profilo formale eclettica, quella
propria dei laici illiterati del tempo che, senza alcuna intenzione ereticale,
adattavano alla fede cristiana gesti e formule di essa ben più antichi,
tramandati attraverso le generazioni?
Si può davvero credere che, dopo un ventennio dalla conversio, dopo aver frequentato papi e cardinali e aver partecipato magari ai lavori di un Concilio Ecumenico e senza dubbio a quelli dei Capitoli dell’Ordine, e dopo aver per giunta conseguito il diaconato, egli potesse restare ciò nondimeno attaccato a certe forme di religiosità popolare e acriticamente ricorrervi?
O si deve
piuttosto ritenere che in quegli estremi momenti della sua vita riemergessero
vecchie, tenere usanze familiari, parole e gesti che sembravano dimenticati?
Sta
comunque di fatto che, come al di là di qualche somiglianza formale nessuna
confusione può nascere tra atteggiamento di Francesco
dinanzi alla natura e posizioni panteistiche, allo stesso modo nessun equivoco
può sussistere riguardo a supposte componenti magiche della sua personalità e
delle sue azioni. Sotto il profilo formale, è noto – ed è ovvio – che la
preghiera e l’incantesimo si somigliano.
Quel che tuttavia le distingue è che il presupposto della prima si fonda unicamente sulla volontà di Dio: il fiat voluntas Tua è la necessaria premessa di qualunque preghiera, almeno nel mondo delle tre religioni monoteistiche, trascendenti e rivelate, scaturite dal ceppo abramitico.
Al
contrario, il presupposto del rito magico è che le occulte connessioni fra
le cose possano essere attivate e condizionate da riti adatti sulla base di un
puro meccanismo di causa-effetto: se il mago conosce la natura e sa con quali parole
e quali gesti a essa si comanda, può ottenere quel che vuole mediante la
semplice esecuzione corretta del rito. Per questo preghiera e incantesimo,
tanto simili sotto il profilo morfologico, sono opposti e inconciliabili sotto
quello concettuale: almeno quando si crede in un Dio unico, Creatore e Signore
della natura, onnipotente e assolutamente giusto e buono.
In questo caso ogni ricorso al fiat voluntas mea della magia è illusorio nella misura in cui la natura è soggetta solo al Creatore ed empio in quanto rappresenta una ribellione al volere di Dio. Se teniamo presente questa distinzione, ci renderemo conto che non può nascere alcuna ambiguità: quelle di Francesco sono sempre e soltanto ‘preghiere’ (seppure aggiungiamo, nella misura in cui la ‘preghiera’ è un fine e un successivo [futuro] ‘inizio’ per scacciare il ‘male’; ed in questo caso la natura della preghiera o della ‘formula magica’ per giungere al Pensiero e Dio [o Infinito], non contiene, fors’anche ‘contempla’, il maleficio della differenza da cui il karma della ‘materia’…)..
(F. Cardini)
* Nelle
credenze dottrinale Bon si osserva come alla ritualità di tipo funerario sia
attribuito uno specifico ambito. Infatti nel ‘quarto Veicolo o Via’ ovvero la ‘via dello gshen della esistenza’,
si tratti per intero delle pratiche inerenti alla sfera della morte…
È fissato
in dettagli il cerimoniale che un bon-po
qualificato deve celebrare nel momento della morte di una persona. L’intero
rituale si base sull’assunto che sia necessario prendere la capacità di evocare
il principio cosciente del defunto così da riuscire, in virtù del potere del
rito, ad orientarlo verso il raggiungimento della salvezza…
…A questo
periodo, comunemente si fa risalire l’occultamento di una serie di scritti,
attribuiti al grande maestro buddhista Padmasambhava,
che furono poi riscoperti, nel XIV
secolo, nei dintorni della montagna di ‘Gam-po-gdar, da Bla-ma Gling-pa,
che era un seguace della tradizione rNying-ma-pa. Il gter-ma era il Kar-gling
zhi-khro, e di esso faceva parte anche il Bar-do thos-grol ovvero ‘Liberazione attraverso l’udire durante il
bar-do’ testo assai conosciuto in occidente con il nome di ‘Libro tibetano
dei morti’.
Il Kar-gling zhi-khro rappresenta una fonte di insegnamenti di primaria importanza in Tibet ed ha come oggetto pratiche rituali connesse a divinità pacifiche ed irate oltre a costituire un ingente studio atto ad approfondire la conoscenza dello stato del bar-do, termine che designa genericamente lo stato che intercorre tra la morte di un individuo e la sua successiva rinascita. Originariamente la compilazione di questi testi veniva incontro alla scelta di realizzare delle vere e proprie guide al fine di aiutare il morente o colui che è già morto ad affrontare in modo risolutivo l’esperienza del rapporto con l’aldilà favorendo il raggiungimento della Liberazione finale o, se non altro, assicurando al defunto una felice rinascita nei regni di esistenza condizionata.
Stando alla
visione buddhista e bon esistono, per la precisione, quattro differenti generi di bar-do.
Il Primo è il bar-do della nascita, detto anche bar-do della Natura. Questo è il periodo
che intercorre tra la nascita e la morte. Gli esseri viventi possono nascere ed
abitare in diversi luoghi dell’Universo. I
Tibetani parlano di sei differenti
regni in cui un essere può nascere e per la precisione questi sono: il
regno degli esseri infernali, il regno degli spiriti affamati detti preta, il mondo animale caratterizzato
dalla ignoranza, il mondo degli uomini, la sfera degli dèi gelosi detti asura e, da ultima quella degli dèi
celesti.
Tutti questi mondi sono soggetti alla legge inesorabile del Karma e del samsara (ciclo di morti e rinascite). Solo la possibilità di conoscere e coltivare le discipline spirituali può condurre gli individui alla Liberazione, così da abbandonare, in modo definitivo, l’esistenza nei sei regni materiali…
Il secondo bar-do del momento della morte
si riferisce al periodo intermedio dell’istante che inizia quando sorgono i
primi manifesti della morte stessa fino al cessare delle pulsazioni interne.
Gli elementi che costituiscono l’aggregato corporeo cominciano a separarsi e a
ricongiungersi alla propria essenza: TERRA, ACQUA, ARIA E FUOCO tornano alla
loro matrice materiale originaria. In questo momento la persona morente proprio
per il fatto che sta perdendo il senso della propria unità fisica, è pervasa da
un fortissimo senso di angoscia e disorientamento.
Il terzo bar-do della realtà essenziale delle
cose
sopraggiunge nell’ora in cui il defunto, che non è stato in grado al momento
della morte di realizzare la Liberazione, può ancora tentare di raggiungerla,
da morto. Il terzo genere di bar-do si manifesta come una dimensione di luce
intensa espressione della concezione originaria dell’esistenza e dell’individuo
stesso. Si manifestano raggi e suoni onnipervadenti e lentamente prendono forma
visioni di divinità dall’aspetto pacifico ed irato. Anche se in preda al
terrore per le apparizioni che si presentano, la persona deve saper riconoscere
la loro natura chiara e pura, priva di esistenza intrinseca. Queste visioni non
sono altro che la trasformazione delle passioni e delle emozioni nel loro
aspetto illuminato…
…adesso per
me sta sorgendo il bar-do della dharmata, abbandonando ogni pensiero di paura e
terrore, riconoscerò come mie visioni tutto quello che apparirà, sapendo che è
illusorio. Giunto a questo punto cruciale, non mi lascerò impaurire dalla
moltitudine delle forme pacifiche e infuriate, mie proprie visioni…
Per
definire lo stato del bar-do del Dharmata il ‘Tantra della grande Segreta
unione del Sole e della Luna’ usa queste parole:
Il corpo deteriorabile, fatto di carne e di sangue, non si manifesta, ma appare il ‘corpo di luce’. In questo momento qualsiasi cosa si presenti come oggetto dei sensi appare come mandala dei cinque raggi di luce. Queste apparizioni, se osservate dall’esterno, appaiono chiare all’interno. Se osservate dall’interno splendono chiare all’esterno: senza esterno né interno, al di là dei limiti della materia. Si può passare attraverso di esse il loro colore è luminoso e splende distintamente, senza mescolarsi. Splende senza ostruzioni in maniera uguale…
(M. Nicoletti)
Bar-do della dharmata (dharmata = la vera natura incondizionata di
tutte le cose) Questo bar-do ha tre fasi, che sono altrettante possibilità
di realizzazione.
1° fase: Luminosità, Paesaggio
di luce Il Divino, estremamente compassionevole, si fa per noi natura,
creazione, la manifestazione più vicina all'uomo. Ci viene proposto un mondo
fluido, vibrante di suoni, luci colori paesaggio luminoso non determinato in
dimensioni o direzioni. Se cogliamo questa espressione come divino, realizziamo
l’unione, altrimenti usciamo (seconda possibilità) e passiamo alla fase
successiva…
2° fase: Unione, le Divinità Il
Divino assume allora forma umana, tra noi e le Divinità sottilissimi raggi di
luce uniscono il nostro cuore al loro. Ciascuno le vede rappresentate come
quelle a lui familiari: il Cristo, i Santi, la Vergine, il Buddha.C’è puro amore tra noi e la forma divina:
se la riconosciamo e ci entriamo siamo realizzati (terza possibilità); E’ in
questa fase che si manifestano i sensi di colpa: vedremo personificate le
nostre debolezze (ira, gola, lussuria, cattive abitudini.) e anche le nostre
qualità (carità, compassione, generosità.). Le scritture le chiamano Divinità
pacifiche o irate.
3° fase: Saggezza Se neppure nella forma antropomorfa il Divino viene riconosciuto, ci vengono offerte 5 visioni: le qualità. Se ne cogliamo una, realizziamo il Divino (quarta possibilità).Le qualità sono rappresentate da ‘tappeti di luce’, sfolgoranti, composti da palline sferiche (tiklè), sono le manifestazioni delle cinque saggezze. La saggezza onnicomprensiva, dello ‘spazio che tutto accoglie’, in cui nulla manca e nulla è al di fuori di esso. La saggezza della equanimità, simile a specchio, l’assoluta serenità in ogni circostanza. La saggezza unificante, una sola natura per tutte le cose. La saggezza del discernimento, il riconoscimento della propria vera natura.
La saggezza che tutto compie, Dio si
prende la responsabilità di ogni atto, è unico attore. Se anche l’ultima
possibilità viene persa, il Divino ci restituisce tutto ciò che avevamo al
momento della morte nel cosiddetto ‘corpo mentale’ , che però è privo dell’intelletto
discriminante, ed entriamo nel….Monastero di Greccio di cui ravvivo
l’accogliente visita in un quadro della Natura unico nel suo genere…..
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