Precedente capitolo:
I nostri primi sogni i nostri primi pensieri (13)
Dopo l'inevitabile per quanto lunga
premessa, mi ricollego ai motivi di questa Lettera, perché come Lettera o
meglio Epistola si è generata questa nostra disquisizione, da cui si è evoluta
una spirale di argomentazioni tutte connesse fra loro, è inevitabile essere
puntuali sulla Genesi di questo nostro Creato e quanto da noi Creato!
E visto anche che i ghiacciai ‘proposti’ non
a caso nel precedente Post, con le
belle immagini che lo accompagnano, oltre che ‘episodi’ onirici di possibile ed
imminente futuro rappresentano anche scenari di possibili e probabili cataclismi
mentali che si riversano (e si sono riversati) sul nostro presente passato e futuro: cataclismi
psicologici e mentali in cui la Natura malata, certo non a causa dell’uomo, ma
altresì più certamento vero, l’uomo più malato di sua Madre…; riprendo la
strada con te iniziata è ripropongo degli interessanti articoli in schede qui
riportate… (Dal tuo articolo ‘La necessità di una visione e di una cura
integrate’ pag. 4/8)
… Prendo spunto dal passo sottolineato a pag.
8 per una breve simmetria rilevata: sia per le date dedotte cui fanno
riferimento, sia per la precisione dei dati riportati… e leggo:
‘Una
delle cause più frequenti dell’eccessiva mortalità infantile è la diffusa
pratica, nelle zone industriali, di narcotizzare pericolosamente i bambini
piccoli, in modo che essi possano essere messi da parte più comodamente quando
si presentano occupazioni più lucrative di quella di allattare il bambino. A
questo scopo, centinaia di galloni di oppio sotto varie forme sono vendute
settimanalmente in molti distretti del Paese. E non è probabile che questa
pratica venga fermata fino a che le giurie non potranno essere indotte a
considerare una cosa grave le improvvise fatali disgrazie che questa sorta di
avvelenamento cronico non di rado produce’.
… Quindi, conclude il tuo bell’articolo, la
Depressione non nasce dal nulla ma è frutto di un elemento scatenante, pagine
direttamente riconducibili a quelle altrettanto illuminanti del tuo bel saggio
e riporto per intero nelle schede di seguito….. (Dal tuo libro: ‘La bilancia
dello stress’ schede libro pag. 32/33/34/35)
…..
Ecco sono proprio i tratti di quell’elemento che motivano la fonte filosofica
dei miei e tuoi pensieri, e rispondo alla tua precisa e nitida volontà di
attingere alla
‘Galleria’ del nostro
comune
‘passato’ con altrettante
valide argomentazioni…, prendendo atto come il tuo saggio sia più che
‘dettagliato’ nel raccogliere ‘informazioni’ sul male su cui disquisisce…. e replico…
Il filo logico che mio malgrado cede ai
‘deliri’ della letteratura in una visione creatrice di mondo mi conduce alla
mistica verità di una poesia, di una pittura, di un sogno; tanto duraturo
quanto infinito, inspiegabile e bello, perché entro la logica di ciò che non
appare razionale (nel supposto loro raziocinio). Ma veleggia nel bagaglio di una
memoria antica senza tempo.
Sono partito all’inizio del ‘Viaggio’ certo di
appartenere alle false verità di ‘Danceman’, mi domando ora quasi alla fine del
tempo divenuto certezza entro la logica del limite, se la vita vera di noi
‘androidi’ è un sogno non sognato. Perché la vita come è o dovrebbe essere, è
solo un miraggio desiderato da pochi ed incivili ‘disadattati’se non
addirittura schizofrenici personaggi, quale io (assieme ad altri) appaio. In
tutte le opere che ho creato nei secoli e che continuo ad ammassare in una
stratigrafica visione che mi consegna all’incertezza di una certezza nuova
vista attraverso l’intuizione ma priva di parola; percepita come un sogno
antico e appartenuto (non solo all’uomo), dove sembra diventarne estraneo. Ad
un vortice infinito di creazione, nella parola, che diviene mistero e limite di
se stessa. Il mistero della migrazione di un semplice animale mi conduce verso
la percezione di ‘povertà di mondo’.
Nel momento in cui sogno il suo volo (ed il
volo sogna di me) ed il desiderio che si cela nella sua ricchezza, esprimo un
concetto onirico di lontana memoria. Il volo privo dell’espressione della
coscienza spiega la semplicità dell’esserci ed appartenere con la percezione
inconsapevole di esso (mondo), perché parte di esso e tutt’uno. Rimaniamo
prigionieri del limite della parola che attraverso l’analisi e lo studio tenta
una probabile spiegazione, una probabile equazione, che possa sollevare nelle
ali di un volo eterno, condizione e percezione.
Se taglio il nastro, si rese conto, il mio
mondo scomparirà. La realtà continuerà a esistere per gli altri, ma non per me.
Perché la mia realtà, il mio universo, mi viene da questa minuscola unità.
Analizzata e poi diretta al mio sistema nervoso centrale man mano che questo
nastro si snoda a passo di lumaca. Sono anni che questo nastro si va svolgendo,
concluse. Prese i vestiti, li indossò, si sedette nella sua grande poltrona, un
lusso importato nel suo appartamento dagli uffici principali della Tri-Plan, e
accese una sigaretta. La mano gli tremò mentre poggiava l’accendino con le sue
iniziali; piegandosi all’indietro, soffiò il fumo davanti a sé, creando una
nuvoletta grigia. Devo procedere per gradi, si disse. Cosa sto cercando di
fare? Scavalcare la mia programmazione? Ma il computer non ha trovato alcun
circuito di programmazione. Voglio interferire con il nastro della realtà? E se
sì, perché? Perché penso, se controllo il nastro, io controllo la realtà. O
almeno, la realtà che mi riguarda. La mia realtà soggettiva… L’unica realtà che
esiste. La realtà oggettiva è una costruzione sintetica, che ha a che fare con
un’ipotetica universalizzazione di una moltitudine di realtà soggettive. Il mio
universo scorre tra le dita, capì improvvisamente. Se riesco a comprendere come
funziona questo dannato meccanismo… Ciò che avevo stabilito di fare all’inizio
era cercare di localizzare il mio circuito di programmazione così da poter
ottenere un vero funzionamento omeostatico: il controllo di me stesso. Ma con
questo… Con questo non avrebbe avuto soltanto il controllo di se stesso;
avrebbe controllato tutto. E ciò mi rende diverso da qualsiasi altra umano sia
mai vissuto e morto, pensò con serietà.
(P.K. Dick, La formica elettrica)
Così da uno, divento mille, centomila… tutto….. Talvolta il
sogno dell’androide diviene allucinazione e desiderio inconsapevole di una
umanità incompiuta di essere ciò che non è possibile nella realtà divergente di
una differente utopia totalitaria; e se il nastro della vita scorre immutabile,
io provo a praticare dei fori per rallentarne il meccanismo nel circuito
prestampato che legge la memoria. Ed è vero …, seduto, in un angolo della mia
prigione di cemento ecco apparire tutti i disegni, i colori, i voli, le corse,
gli odori, le percezioni, di una vita antica. Una vita che mi è appartenuta nel
momento in cui ero un tutt’uno con essa nella costante dimensione di una realtà
in cui ero una sol cosa per stupirmi della grandezza al contrario della nostra
piccolezza. Se abbiamo imparato a cacciare perché il ricordo e la paura sono
nel nostro bagaglio genetico e la volontà di sopravvivenza detta le
condizioni. Poi abbiamo scorto i limiti
che sono nella nostra natura attraverso il dono della coscienza,
dell’intelligenza; abbiamo misurato la distanza fra il calco e la forma nel
progressivo cedere all’istinto le ragioni di un probabile pensiero.
Ma ciò ha giocato sempre a nostro
favore?
Non sempre.
Ha contribuito ad elevarci, ma non a volare.
A camminare, ma non a correre.
Ad osservare, ma non a vedere.
A pregare, ma non a parlare con Gaia.
A sognare per non vedere.
Credere nel destino ed abdicarlo ad un nastro
della realtà.
Così nella differenza fra quella povertà e
ricchezza cosa posso dire: loro sono il mondo, noi le eccezioni per cantarne la
regola. Ma anche la regola sembra sempre sfuggirci perché è nostra prerogativa
inventarne una e non sottostare a quella che da sempre esiste. Noi siamo gli
abitatori cosiddetti evoluti con il miracolo della vita e il dono
dell’intelligenza alla ricerca di una ipotesi; ci perdiamo in una folta
boscaglia che la via, come il poeta disse, è smarrita. E’ smarrita tutte le
volte che non riconosco la compatibilità con le ragioni della vita stessa negli
ecosistemi ambientali e nelle fragili connessioni, nelle ragioni dell’uno sul
tutto e del tutto sull’uno. Gli equilibri sono dettati da questi principi.
Possono mutare nel tempo nel momento in cui l’uomo, unico essere vivente, può
far a meno di questa logica riducendo il mondo ad una sorta di serbatoio di
materie prime da dover sfruttare in ragione della sua esclusiva sopravvivenza.
Il principio è il medesimo dell’animale, suo antenato, non simile. Nella
differenza, però, che l’animale, pur avendo in sé quella percezione ‘limitata’
di mondo vive la propria esistenza con il minor danno possibile (eccetto rari
casi) per sé e gli altri suoi simili.
Noi al contrario, possiamo vivere
attraverso nuovi usi e costumi della comunicazione che ci danno la percezione
di quella totalità limitante di vita che è il progresso nella sua forma più
meccanicistica, cosicché osserviamo il mondo attraverso questi moderni oblò, e
per farlo, alterare in maniera irreparabile equilibri dettando logiche che non
sono confacenti con quelle eterne della natura. L’apparenza inganna la vista e
se in 250 anni posso dire o pensare di aver acquisito nuova ricchezza e con
essa progresso, in realtà la ‘verità velata’ ci appare ingannevolmente falsa.
Possiamo ammirare affascinati i successi della tecnologia e non solo, in
splendide vetrine, ma certamente dietro a quella logica di profitto non si
manifesta il volto del mondo. La bellezza della natura in tutte le
manifestazioni che la caratterizzano diviene una verità nascosta dietro
apparenze che tentano di riprodurne l’armonia originaria; la vediamo attraverso
la sua riduzione in un qualcosa di mutato per sempre a danno della forma
originaria, che, come la verità, viene celata agli occhi del nuovo osservatore
ricco di mondo ma irrimediabilmente povero dei suoi contenuti, trasposti in
elementi per la nuova creazione. Quello che vediamo è il risultato dell’essere
per appartenere e riconoscersi nel mondo per poi celebrarne una nuova ed
assoluta mitologia. Esistiamo in base a ciò che la ‘merce’ esposta ci invita a
partecipare, nella costante imitazione e inversa trasposizione. Noi ‘poveri’ di
mondo difficilmente comprendiamo ciò perché la realtà è traslata attraverso
diversi messaggi e simboli che costruiamo nella volontà di profitto in eccesso
immutata nei millenni di aumentare una probabile e duratura ricchezza virtuale.
Assimilare, al contrario, quella ricchezza di
mondo attraverso tutti gli elementi diviene capacità di gioia ritrovata. Di
quanto affermo ne conserviamo innumerevoli prove soprattutto nell’arco degli
ultimi 200 anni. Il problema dell’uomo che si rapporta con la natura è evidente
e simmetrico ieri come oggi. Ieri come oggi la natura muta il suo aspetto a
causa dell’uomo. Quel ‘maschio demoniaco’non opera solamente danni nei
confronti dei suoi simili per ragioni di potere, ma si rapporta sempre nei
confronti dello spazio occupato con medesima ignoranza ed incuria che lo rende
padrone degli elementi. Non consapevole del reale rapporto che intercorre fra i
suoi bisogni e quelli dell’ambiente che lo circonda.
Colla scomparsa delle foreste ogni cosa
vien cambiata, tutte le armonie della natura vengono turbate. In una stagione
il terreno perde il suo calore per mezzo della radiazione in un cielo aperto;
in un’altra riceve un caldo smodato dai raggi non intercettati del sole. Quindi
il clima diviene estremo ed il suolo è alternativamente riarso dal calore
estivo e irrigidito dal rigore dell’inverno. I venti freddi strisciano senza
ostacolo sulla superficie; portano via la neve che la ripara dal gelo, e
asciugano la sua scarsa umidità. La precipitazione diviene irregolare come la temperatura
; le nevi dimoranti e le piogge primaverili, non più assorbite da un terreno
vegetale poroso e spugnoso, scorrono sulla superficie gelata e si versano giù
nelle valli verso il mare, invece di inzuppare un letto di terra ritentiva, e
conservare una provvista di umidità onde alimentare le sorgenti perenni. Il
suolo è nuotato del suo tappeto di foglie, spezzato e reso leggiero
dall’aratro, privo delle radichette fibrose che tenevano insieme le sue parti,
prosciugato e polverizzato dal sole e dal vento, ed alla fine esaurito per
nuove chimiche combinazioni.
(
G.P. Marsh, L’uomo e la natura 1864)
L’Antropocene nasce con l’Ottocento e la
rivoluzione industriale, e a metà del secolo scorso supera una soglia
importante: l’attività umana non si limita più a influenzare l’ambiente
globale, ma ne decide le sorti. L’ozono è un gas di colore blu dall’odore
pungente, costituito da molecole che contengono 3 atomi di ossigeno, molto
attivo chimicamente,che assorbe la radiazione ultravioletta, soprattutto quella
di lunghezza d’onda inferiore a 310 nanometri. Si concentra in una fascia
compresa tra 15 e 30 chilometri, dove l’atmosfera è più rarefatta dell’aria che
respiriamo. Qui è rarefatto anche l’ozono: compresso e portato alle condizioni
di pressione e temperatura che si trovano nei pressi della superficie
terrestre, formerebbe uno strato di appena 3 millimetri. Nonostante sia così
rado, è un filtro che protegge noi e le altre forme di vita dai raggi Uvb, i
più penetranti e nocivi per la nostra salute perché causano ustioni e,
talvolta, cataratte e tumori della pelle. L’ozono si forma quando la radiazione
solare a bassa lunghezza d’onda colpisce una molecola di ossigeno e la spezza
in due atomi. Ognuno di questi si lega
poi a un’altra molecola di ossigeno e la trasforma in una molecola di ozono.
Nell’Antropocene, abbiamo interferito con questo processo naturale: la
produzione di gas inquinanti l’ha fatto aumentare nell’aria che respiriamo e
nella troposfera in generale.
(P.J.Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene!)
La faccia della terra non è più una
spugna, ma un mucchio di polvere, e le correnti che le acque del cielo le
riversano sopra, si precipitano lungo le
sue pendici, trasportando sospese grandi quantità di particelle terrose che
aumentano la forza meccanica della corrente e la sua azione erosiva, ed
accresciute dalla sabbia e dai ciottoli delle frane cadenti riempiono i letti
dei ruscelli, divergendole in nuovi canali ed ostruendone gli sbocchi. I
rivoletti, mancanti della loro primiera regolare provvista, e privi dell’ombra
protettrice dei boschi, si riscaldano, si evaporano, e rimangono così diminuite
le loro correnti estive, cangiandosi in torrenti devastatori nell’autunno e
nella primavera. Da queste cause ne viene una costante degradazione delle terre
elevate, ed in conseguenza un sollevamento dei letti dei fiumi e dei laghi per
causa del deposito delle materie minerali e vegetali trascinate giù dalle
acque. I letti dei grandi fiumi di vengono impraticabili alla navigazione, i
loro estuari si colmano, ed i porti, ove una volta si riparavano grosse flotte,
si riempiono di pericolosi banchi di sabbia. La
terra privata del suo terriccio vegetale, va dividendo man mano meno
feconda, ed in conseguenza meno acconcia a proteggere se medesima col
riprodurre un nuovo reticolato di radici che tengano collegate le sue
particelle, o un nuovo tappeto di erbette che gli faccia schermo contro il
vento, il sole, e la pioggia spazzante: grado grado la terra diviene sterile
affatto. La erosione del suolo dei monti per mezzo della pioggia lascia nude le
prominenze di roccia arida, e il ricco terriccio organico che li ricopriva,
portato giù dai terreni bassi ed umidi, promuove una abbondante vegetazione
acquatica, che colla sua putrefazione alimenta le febbri e altre insidiose
forme di malattie mortali, e così la terra si fa disadattata dimora per l’uomo.
La vendetta della natura per la violazione delle sue armonie, sebbene lenta,
non è meno certa, e il progressivo deterioramento del suolo e del clima in
queste regioni eccezionali avverrà tanto sicuramente per la distruzione delle
foreste, come qualunque effetto naturale segue la sua causa.
(G. P . Marsch, L’uomo e la natura 1864)
I clorofluorocarburi usati dall’industria
hanno portato al ben noto buco dell’ozono , che fu scoperto nel 1985, quando un
gruppo di ricercatori del British Antartic Survey, guidato da Joe Farman,
rilevò che a quote comprese tra 12 e 22 chilometri l’ozono era quasi scomparso.
Si è formato un ‘buco’ in una regione dove, naturalmente, il gas era abbondante
e, si credeva, praticamente inerte. Nessuno se lo aspettava, sebbene la
pericolosità dei clorofluorocarburi per l’ozono ad altitudini maggiori fosse
già stata messa in evidenza da due
chimici, il messicano Mario Molina e l’americano Sherwood Rowland. Anche la
Nasa, l’agenzia spaziale statunitense, fu presa in contropiede. In Antartide, i
suoi satelliti avevano registrato valori molto bassi ancor prima
dell’esperimento britannico. Quei dati, però, erano troppo strani e
inspiegabili per l’epoca: furono considerati erronei e scartati. Il buco
dell’ozono giunse come una brutta sorpresa, ma si conoscevano da anni le
reazioni chimiche che lo causavano e fu subito chiaro che era dovuto alla
presenza di clorofluorocarburi nell’atmosfera.
(P. J. Crutzen, Benvenuti
nell’antropocene! 2005)
Dovremmo rivedere gli interi valori su cui poggiano le
moderne civiltà ed in base a questi fare il punto della situazione. Tutto ciò
può avvenire semplicemente in forza della cultura della comprensione e
tecnicamente parlando, riconversione. Si può cercare di contenere il danno così
come è possibile contenere un certo tipo di
alimentazione in termini diversi da quelli principalmente carnivori a
cui siamo abituati. L’uomo saprà gradualmente risolvere ogni problema ma certamente
danni in ragione di una certa economia continueranno ad evolvere in proporzione
ad un fabbisogno non misurato secondo i reali bisogni nel concetto distinto e
mal interpretato di povertà e ricchezza. La cosa che mi lascia sbalordito come
dalla storia poco si impara rispetto quanto dovremmo aver recepito, la
‘circolarità’di eventi è una caratteristica dell’uomo non della natura.
Possiamo conoscere bene i meccanismi dell’economia o delle telecomunicazioni,
capirne funzionamenti ed equilibri, ma fintanto rimaniamo privi di tutte quelle
ricchezze che appartengono al reale, cioè di quegli elementi che dettano le
capacità di poter vivere e sopravvivere in essa nella lunga durata del
godimento di un bene, noi quanto i nostri nipoti, non avremmo mai penetrato i
segreti dell’economia né tantomeno avremmo scoperto tutte le connessioni di una
probabile comunicazione.
Questo ‘esserci’ nel mondo, è in realtà
povertà di esso.
Come spesso e troppe volte ripetuto.
Rovesciare alcuni schemi precostituiti che la cultura attraverso la civiltà
impone è dovere logico per colui che interpreta l’evoluzione intesa come
progresso neurologico dell’uomo. Ragione per cui, fin tanto che non subentra
questa graduale evoluzione anche alla periferia di un contesto apparentemente
civile e progredito nei suoi meccanismi formali, non potremmo raggiungere quei
nessi di civiltà sperata che comportano una graduale ricostruzione storica
dell’essere e divenire. Fin tanto che non si opera sull’essere e tutte le
ragioni nell’esserci, non potremmo vedere o percepire gli stimoli di un diverso
dispiegarsi della storia e le sue evoluzioni ‘circolari’. Quella
‘circolarità’che non ha nulla a che vedere con la natura del divino o di un
probabile Dio a cui appelliamo il credo, la coscienza, il sapere. Perché è
proprio il nostro sapere che si appella a Lui nel momento di presa di coscienza
di un limite nell’interpretazione della vita nello svelare quel mistero dove
siamo cantori ma anche limitatori della stessa.
Quel doppio appartenere a lei
nel momento in cui non riusciamo a percepirla o ad essere coerenti con le sue
realtà. Fuggire, significa per il vero tornare alla vita. Fuggire tutte quelle
condizioni che negano la sua percezione nel momento in cui una insana economia,
che non appartiene più all’essere né al sul suo spirito, rende l’esistenza puro
concetto meccanicistico. Singole interconnessioni meccanicistiche, probabili
creatrici di vita. In ciò dissento. Se non è data possibilità all’’essere’ la
comprensione della misura del vivere, cioè esserci, esistere, ed appartenere,
gli è negata oltretutto (e di conseguenza) la capacità di pensiero riflesso
nello spazio che occupa. Concetto diverso dal ‘numero’ a cui lo stesso pensiero
si può adeguare nella perfetta progressione (il pensiero è la vita riflessa nella
logica dell’Universo creatore di forme), anche in forza della semplice
matematica abbiamo cognizione solo nell’apparente meraviglia ultima dei suoi
frutti e traguardi. Non avendo comprensione dell’intima natura che è legame
alla natura stessa dell’uomo e del creato ammiriamo solo le forme ultime e
apparentemente perfette di un mandala che nulla ha in comune con la figura
originaria riconducibile allo spirito umano. Come l’esempio della matematica,
molti altri ci possono servire per dimostrare tutte le distanze dalle cose vere
alle virtuali che pensiamo reali, confondendo la vita mentre celebriamo la
morte. Questo rovesciamento di logica razionale impone una distanza incolmabile
tra noi e la verità. Lei non è più velata ma distrutta e completamente sostituita
nei suoi schemi più elementari, sicché l’uomo non è più in grado di porre in
essere la ragione, elemento insostituibile per il grado di evoluzione, ma al
contrario, convinto della sempre maggiore evoluzione, che tutti quei sistemi
gli riconosco, tende ad una irreversibile e graduale regressione verso forme
primitive di essere, dove le stesse realtà mitologiche di allora vengono
gradualmente sostituite e frapposte con gli stessi istinti che ci appartengono
da sempre in una probabile logica demoniaca per diversi scopi e fini. L’indole
rimane la medesima, anzi viene coltivata affinché non si estingui, e gli
elementi scatenanti vengono di volta in volta sostituiti affinché gli istinti
non mutino in altro ma rimangono entro valori primordiali di violenza. Non vi è
quella conversione che la natura, la logica, e la storia, impongono dopo secoli
di progresso. Il progresso è indice di staticità per taluni che si vogliono
elevare ad interpreti della vita ma in realtà sono solo probabili cantori di
morte. La loro musica si misura e quantifica in tutte quelle statistiche che
vedono lo scenario del mondo immutato nelle sue barbarie, e in tutti quegli
incidenti di percorso che causano morti e disastri, siano essi in ragione di
una guerra, di una carestia, di povertà, o di incuria dovuta all’urgenza o
all’errato calcolo dell’uomo sulla natura.
Così se lascio la pista battuta, la strada
asfaltata, il sentiero, e mi avventuro verso il
passato, non compio una regressione ma al contrario una graduale e lenta
evoluzione che agli occhi del prossimo appare qualcosa di incomprensibile. Non
riconoscendomi nella società devo constatarne i meccanismi in avaria che si
riflettono sulla mia persona, sul mio essere, così come quando ammiro un
ghiacciaio ne verifico tutti i sintomi di dissesto che non appartengono al
normale evolversi dei ‘periodi’, ma sono il frutto della nostra logica e con
lei del traguardo del progresso. Posso riconoscermi in lui e cercare tutti quei
legami che ancora rimangono oscuri, scavare nella memoria biologica le
motivazioni della vita, non solo la mia, ma anche quella da dove traggo
sostentamento e ragione di esistenza. Se taluni osservano come la società ha
sempre imposto il sigillo della continuità in un comportamento ritenuto ‘sano’
dall’intera collettività preservando dal morbo della pazzia (sinonimo di
malsano), allora sono orgoglioso in questa società malata di esserlo,
evidenziando altresì la cecità e l’incapacità congenita di distinguo fra sano e
malato (la storia è piena di pazzi che hanno composto il proprio ed altrui
tempo costringendo la verità ai roghi dell’ignoranza o all’esilio
dell’abbandono), cosicché i frutti della normalità non mi appartengono.
La storia che cosa ci insegna a tal
proposito?
Che nella banale normalità si uccide (va) e
relega (va) in nome di una razza verso una estinzione forzata, una sistematica
cancellazione. A tutt’oggi tali condizioni non sono mutate; l’aggressività
umana ha bisogno di dissetare e dissetarsi su uguali bugie per confermare i
propri limiti sociali. “Se le motivazioni di un popolo di fronte alla vita, la
stessa per tutti, sono differenti, è ‘loro’ interesse che diventino patrimonio
di un unico codice genetico”. Chi alimenta le ragioni degli uni contro gli
altri non compie una intelligente opera di evoluzione, ma al contrario,
credendo di padroneggiare i meccanismi della conoscenza se ne serve per ragioni
del tutto personali che nutrono i soli motivi dell’economia in virtù della
ricchezza del singolo. Singolo inteso come riflesso di una singola economia.
L’evoluzione la possiamo riconoscere nel momento in cui la differenza
conflittuale fra diverse culture e specie vengono superate come una componente
non estranea al mondo animale. Gli animali vivono anche loro questa
conflittualità fra specie differenti, ma nella presunta aggressività possiamo
riconoscere solo comportamenti di sopravvivenza. Ragione per cui, rimane ancora
importante il contesto sociale e comportamentale nel momento in cui ne studiamo
le dinamiche riscoprendo quell’universo adamitico e primordiale dimenticato
dalla memoria collettiva. Violenza
dettata da altre motivazioni il cui seme germoglia nella diversità, ed in ciò
ci riconosciamo peggiori degli animali. Coltiviamo i nostri odi razziali con
incredibile memoria e intelligenza, istinto che l’animale non conosce.
Se il mio cane, non dal casuale nome di Vela,
che tante volte è stato nominato, ha ragione di essere in queste pagine, non è
per una apparente rottura con il genere umano. No! Troveremmo nella psicologia
una falsa giustificazione di ciò. Ma perché lei ha dimostrato un legame
imprescindibile con la natura, è un (suo) panorama riflesso nella costanza del
tempo in cui misuro il mio ed il suo essere. Le mie e le sue necessità, le mie
e le sue gioie, il mio ed il suo ‘esserci’ nel mondo. E’ il tramite della vita che la nostra
cultura riporta ad una dimensione bestiale con l’urgenza di manifestarsi ed
insegnare …, mai imparare. La nostra cultura che tratta le ragioni dei bestiari
medievali come materia storica, ma di fatto nei comportamenti è peggiore della
bestialità citata. Se Vela corre come una pazza per infiniti sentieri al
margine di boschi secolari, è perché si è riappropriata del suo mondo, è
ridiventata ricca di esso. Se abbaia e pone le regole da capobranco non
sottomettendosi alle mie ragioni, è perché l’istinto della natura gli impone
ciò, è svincolarsi da una realtà che non appartiene ad entrambi perché tende a
distruggere non a costruire. Quel flusso di vita che gli sgorga come un fiume
in piena è tutt’uno con lei. Se poi tenta di sfamarmi come farebbe una buona
madre, pescando al volo qualche pesce nel fiume, riesco a leggere il libro
della vita. Il meccanismo si è inceppato, quell’ubbidienza in ragione della
verità è venuto meno. La morale comune (totalitaria) la vuole docile ed addomesticata,
se così fosse, la mia intelligenza (democratica) non avrebbe mai potuto
cogliere lo spettacolo della natura che reclama la propria legittimità ad
esistere. Essere ed appartenere a quel mondo che è vita. Debbo ringraziare
quella povertà di mondo che mi ha condotto verso quella ricchezza che prima mi
era preclusa, e, a prescindere cosa il futuro mi riserva o riserverà, posso
dire di aver visto la verità e di averla assaporata, mentre gli altri tentano
di braccare la preda con sorprendente organizzazione mentre cercano negli
arcani rifugi della psicologia le risposte dei loro fallimenti. Io godo lo
spettacolo della loro bugia di ogni giorno. Della loro menzogna portata a piene
mani ed offerta come nettare di un ultimo avamposto del progresso, rispetto al
mio costante rifiuto. Rifiuto di accettare di bere il veleno di una realtà che
non vuole conoscere neanche la sua filosofia, madre del pensiero, non di un
pensare qualsiasi ma al contrario della
capacità di anteporre la logica, al fare. All’istinto del fare. Questa
realtà che si aggira con personaggi ‘creatori di mondo’, piccoli ‘agenti
segreti’di Conradiana memoria che vagano in mondi sotterranei con l’illusione
di manipolare esseri ed eventi. Ne faccio volentieri a meno sia di loro che
delle loro creazioni. Che il linguaggio della fiera natura torni ad insegnaci
qualcosa di utile e duraturo rispetto alla precarietà di un pensiero moderno.
(G. Lazzari)
METISTOFELE: Questo è davvero un camminare? Ma ora, dimmi,
che ti piglia? Scendi in mezzo a questi spaventi fra sbadigli orridi di scogli?
Io li conosco bene. Ma non qui: perché il fondo dell’inferno era così.
FAUST: Leggende idiote non te ne mancano
mai. Ricominci a elargirne.
METISTOFELE: Quando il signore Iddio, e so anche bene il
perché dai cieli esiliò nell’abisso più fondo dove dal centro, tutt’intorno,
ardendo si consumava di sue fiamme un fuoco eterno, ci si trovò, con tanta
profusione di lumi, pigliati in una posizione molto scomoda. Cominciarono i
diavoli tutti quanti a tossire, a sfiatare assai forte e di sopra e di sotto.
Di fetore sulfureo e di acidi l’inferno si gonfiò. Che gas era! E così
spaventevole che la piatta crosta dei continenti, per quanto spessa si
schiantò. E ora tutto è alla rovescia, quel che un tempo era fondo ora è vetta.
Anche su questo fondano la corretta opinione che s’abbia a tramutare il basso
in alto. Così dal carcere di fuoco siamo evasi verso il regno dell’aria libero
smisurato. Un aperto mistero, ben serbato e solo tardi rivelato ai popoli.
FAUST:
Per me la massa dei monti è silenzio solenne. Non chiedo di ‘dove’. E
neppure ‘perché’. Quando natura ebbe a formare se stessa arrotondò esattamente
la terra: delle vette, delle gole lieta schierò rupi su rupi, montagne su
montagne poi formò le colline degradanti a valle con dolcezza in placido
pendio. La verdeggia, la cresce e per essere in letizia di certi sciocchi
mulinelli ne fa a meno.
METISTOFELE: Lo dite voi! E vi par chiaro
come il sole. Ma la sa differente, chi c’era. Io c’ero quando laggiù ribolliva
gonfio l’abisso e levava torrenti di fiamme;
Quando il martello di Moloch la rupe alla rupe forgiava e schegge di
monti scagliava lontano. E’ ancora irta la terra di estranei blocchi enormi.
Tanta potenza eruttiva, chi arriva ad intenderla? Il filosofo, lui, non sa
spiegarlo. ‘Il sasso è la, la bisogna lasciarlo. Ci siamo già rotti la testa a
pensarci’ …….
(Goethe, Faust)