CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

venerdì 27 febbraio 2015

IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE: il Divino Intelletto (10)










































Precedenti capitoli:

Il ruolo dell'Intellettuale (9)

Prosegue in:

Il ruolo dell'Itelletuale: il Divino Intelletto (11)













E’ certo che in quell’epoca l’orgoglioso compiacimento dei Greci per la ragione umana raggiunse la sua più aperta espressione. Dobbiamo abbandonare, diceva Aristotele, l’antica norma di vita che consigliava l’umiltà e ordinava all’uomo di pensare in termini mortali, perché l’uomo ha in sé una cosa Divina, l’Intelletto, e nella misura in cui sa vivere mantenendosi a quel livello di esperienza, può vivere come se non fosse mortale….




…. Per dare credibilità alla loro rappresentazione, Zenone e Crisippo risalirono di proposito oltre Aristotele e oltre Platone, fino all’ingenuo Intellettualismo del V secolo; il conseguimento della perfezione morale, dicevano, non dipende né dalle doti naturali né dall’assuefazione, dipende invece unicamente dall’esercizio della Ragione.
A questa psicologia e a questa etica razionaliste, corrispondeva una religione razionalizzata, per il Filosofo, la parte essenziale della religione non stava più negli atti del culto, ma nella contemplazione silenziosa del Divino e nella Coscienza dell’affinità fra il Divino e l’uomo.




(Nell’Evoluzione di questo pensiero, nell’Atto di Sophia di voler perseguire tali intenti e finalità, la Filosofia, evoluta dal lontano Oriente, ha perseguito ugual intento, motivando un percorso ben definito all’interno del Cristianesimo, il mito si è Evoluto entro questa Spirale, per poi di nuovo, dopo il grande ed unico esercizio della Ragione, tornare al punto in cui il Neo e Medioplatonismo lo pone (a ragione a o torto), pur per taluni un regresso, in realtà una nitida ed efficace, per quanto unica trasposizione della ricerca della medesima Verità, di cui la cronologia storica attesta la volontà perseguita protratta e continuata nei secoli. La subordinazione o il rifiuto o il superamento dell’Etica cristiana con le sue componenti giudaiche, attesta e certifica una continuità Storica in cui la Ragione e, l’Intelletto con il Divino che lo compone, perseguono ugual finalità, non, a mio avviso nella caduta di Sophia, ma nella sua coerente manifestazione e volontà di obiettivi ed intenti motivati fin dall’origine dei Tempi. Lo Gnosticismo ne è un più che valido esempio. Dove non solo l’intelletto si evolve in un nuovo e più profondo mito, che tende a rifiutare la teoria del capro espiatorio, ma anche, fondare le basi su cui la moderna psicologia costruirà i suoi simboli.




Il ruolo del giudaismo nei confronti del Cristianesimo con le sue visioni e rappresentazioni, può essere trasposto in una tragedia teatrale dove la figura del capro espiatorio, condizione necessaria e sufficiente nell’evoluzione di una società fin dai tempi più remoti, a detta di taluni, ma anche eterno limite per il perseguimento della Verità e della Ragione, manifesta i suoi limiti ed intenti nell’Irrazionale di cui i Greci hanno rappresentato con ugual miti ed intenti, una definizione Intellettuale con le dovute evoluzioni attraverso i secoli, definendo un preciso e parallelo percorso, definendo un probabile percorso Eretico, e simmetrico a questo, una Ortodossia ben manifesta e rappresentata fino all’Impero Bizantino.).





MACBETH Se tutto finisse, una volta fatto, sarebbe
bene farlo subito. Se l’assassinio potesse
intramagliare le conseguenze, e avere
successo con la sua fine –
che questo colpo fosse tutto
e la fine di tutto! Qui, soltanto
qui, su questa sponda e secca del Tempo,
salteremmo l’Eterno. Ma in questi casi
è qui che si è dannati – e non facciamo
che insegnar sangue, e il sangue appreso torna
a impestare l’artefice.
Questa giustizia equanime spinge le nostre labbra
a cercare  veleni che abbiamo sciolti nel calice.
Egli è qui tutelato due volte: primo,
perché gli sono parente e suddito,
due forti motivi contrari all’atto; poi
sono il suo ospite, e all’assassino dovrei
sbarrare la porta in faccia, e non
trarre il coltello io stesso. Inoltre,
questo Duncan è stato un re talmente
mite, così immacolato nel suo alto
ufficio, che le sue virtù arringheranno
come angeli dalle voci di tromba, contro
la dannazione profonda del suo omicidio;
e la Pietà (accompagnata dalla futura Verità)
come un neonato nudo
che cavalca l’uragano…….
















sabato 21 febbraio 2015

IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE: 'Solo' nella ricerca della verità (9)


















Precedenti capitoli:

Il ruolo dell'Intellettuale (1)  (2)  (3)  (4)  (5)  (6)  (7)  (8)

Prosegue in:

Il ruolo dell'Intellettuale (10)














Nel 1255 le opere di Aristotele entrarono ufficialmente alla facoltà delle Arti di Parigi: poco dopo, lo studio dei commenti dell’arabo Averroè innestò nella tematica della filosofia cristiana un processo e sospetto ai più. Ciò avveniva principalmente per due motivi: la trasformazione delle Arti da facoltà preparatoria dove si insegnava il metodo dialettico in facoltà di fatto autonoma, mirata alla ricerca filosofica; il carattere del sistema averroista, che appariva estraneo alla tradizione cristiana di discendenza agostiniana. E’ proprio all’interno di questo sistema che si trovarono gli stimoli a disegnare una nuova figura di intellettuale il profilo teorico e la cui funzione nella prassi dell’insegnamento contrastavano vivamente con l’immagine tradizionale del maestro.
In che consiste la differenza più notevole?
Credo sia in un singolare momento di autocoscienza professionale: Sigieri di Brabante, Boezio di Dacia tentano di far coincidere per la prima volta il progetto ideale del filosofo con la professione quotidiana alla facoltà delle Arti. Sigieri scive: ‘compito del filosofo è di esporre l’insegnamento di Aristotele (o altri filosofi la cui verità assommata all’esperienza è vera), non correggere o nascondere il suo pensiero, anche quando è contrario alla verità (teologica). Questa semplice affermazione distingue nel modo più chiaro i differenti ambiti professionali e di ricerca. Una concezione questa che non poteva essere accertata da chi condivideva con la tradizione l’idea della cultura cristiana come unità globale. Il contenuto diverrà evidente nella condanna del 1277, dove molte tesi uscite dalle Arti e congeniali all’insegnamento aristotelico-averroista furono censurate dal vescovo Tempier. Veniva colpito un indirizzo che aveva connivenze anche alla facoltà di Teologia: persino Tommaso d’Aquino era coinvolto. Ma tutto ciò apparterebbe più alla storia delle idee che a quella dell’intellettuale se non ritrovassimo fra le tesi condannate proposizioni come queste: ‘non c’è condizione di vita più eccellente del dedicarsi alla filosofia’ o ‘sapienti, a questo mondo, sono solo i filosofi’.




Non ebbi peraltro il tempo di osservare il loro lavoro, perché ci venne incontro il bibliotecario, che già  sapevamo essere Malachia da Hildesheim. Il bibliotecario ci presentò a molti dei monaci che stavano in quel momento al lavoro. Di ciascuno Malachia ci disse anche il lavoro che stava compiendo e di tutti ammirai la profonda devozione al sapere e allo studio della parola divina. Conobbi così Vananzio da Salvemec, traduttore dal greco e dall’arabo, devoto di quell’Aristotele che certamente fu il più saggio di tutti gli uomini. Bencio da Upsala, un giovane monaco scandinavo che si occupava di retorica. Berengario da Arundel, l’aiuto del bibliotecario. Aymaro da Alessandria, che stava ricopiando opere che solo per pochi mesi sarebbero state in prestito alla biblioteca, e poi un gruppo di miniatori di vari paesi, Patrizio da Clonmacnois, Rabano da Toledo, Magnus da Iona, Waldo da Hereford.




Il resto è vista di un mondo che ci è proibito vedere, ammirare, contemplare. E’ solo l’immagine di quel Dio, di cui i nostri occhi debbono celebrare in eterno la sua venuta, la sua figura, il suo martirio. Gli occhi  di quel Dio riflessi nella sua sostanza, nell’ icona e sacrificati per sempre alla sua opera creata. Ma con il tempo l’opera creata ha mosso i nostri animi, i nostri spiriti, la segreta volontà non del tutto assopita di conoscenza. Nella rigida regola del nostro Eremo, ci è concesso celebrare il – Verbo – incarnato in diversa maniera . In questo fratello – Eraclio -, ci ha sempre stimolato, insegnato, e poi comandato. Nella regola del nostro vivere , del nostro tempo, oltre alle tre funzioni giornaliere, abbiamo la possibilità di prestare la nostra ignoranza alla – Sacra – conoscenza. La biblioteca diviene spesso il nostro rifugio.  Diviene la fuga, lo sguardo, la vista. La voglia di vivere dinnanzi ad una non manifesta cecità.  In quanto pur cechi, tutti noi, almeno quando prestiamo attenzione alle scritture, sembriamo vedere.  Ma dalla cecità, in realtà troppo spesso passiamo solo ad una forte miopia. Raramente ci è concessa la vista.  Quando io, ed altri miei fratelli vi riusciamo, cerchiamo di nascosto a fratello – Eraclio – di coniugare la luce interiore con quella esteriore.  Così imparammo, in nome di una più segreta verità, dei meschini rimedi. Dei segreti modi per riuscire in ciò che l’istinto non era ingannato, o del tutto assopito e rassegnato.  Fu l’istinto in cerca della ragione che dalla cornice di un quadro una mattina ci portò al perimetro del nostro giardino, per rubare un po’ di luce …. ed in segreto camminare in cerchio.  Osservati  dalla prima sostanza, dalla prima luce di fratello – Eraclio -. Visti senza poter vedere, perché l’occhio di fratello – Eraclio- è solo la vista dell’Altissimo a cui tutti noi aspiriamo. Ma nel nostro lento deambulare, come ogni giorno la regola ci insegna e comanda, abbiamo imparato in essa la segreta essenza  dell’inganno, abbiamo meditato in noi stessi l’essenza  di questo principio, ed in ultimo in tacito assenso siamo convenuti, io, ed i miei umili e pochi confratelli, che mentre fratello – Eraclio- ci spiava con gli occhi, gli occhi dell’ – Onnipotente – si intende, noi  cercavamo la stessa immutabile sostanza per altri – dove- .  La misura dell’ – Invisibile – iniziava così a prendere forma e misura. Non solo la misura delle proporzioni che costantemente cercavamo, studiavamo e paragonavamo, ma la misura di una più probabile verità contro un – Dio – che non riuscivamo più a vedere ne sentire.



Nasce, fondata sulla meditazione dell’Etica a Nicomaco di Aristotele, una nuova figura di uomo: ‘il suo piacere consiste nella speculazione, ed esso è tanto maggiore quanto più nobili sono gli oggetti dell’intelletto. Perciò il filosofo conduce una vita colma di piacere’. Il filosofo è il vero nobile: ‘secondo la perfezione della natura umana i filosofi che contemplano la verità sono più nobili dei re e dei principi’. La pressione dei tradizionalisti e della maggioranza contro questo nuovo tipo di professore che ‘nella conoscenza del vero trovava una vera fonte di gioia’ fu forte. Uomini di tal genere apparivano strani e pericolosi. C’è amarezza nelle parole di Giacomo di Douai: ‘Molti credono che i filosofi, che si danno allo studio e alla contemplazione filosofica, siano uomini malvagi, increduli e non sottomessi alle leggi, e che pertanto vadano legittimamente espulsi dalla comunità – così dicono; e a causa di ciò ‘tutti quanti si danno allo studio e alla contemplazione filosofica sono DIFFAMATI E SOSPETTI’.

(J.Le Goff, L'uomo medievale; U. Eco, Il nome della rosa; G. Lazzari, Dialoghi con Pietro Autier) 
















IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE: 'Solo' nella ricerca della verità (7)






































Precedenti capitoli:

Il ruolo dell'Intellettuale (6)

Prosegue in:

Il ruolo dell'Intellettuale (8)














Mentre salivamo vidi che il mio maestro osservava le finestre che davano luce alla scala. Stavo probabilmente diventando abile come lui, perché mi avvidi subito che la loro disposizione difficilmente avrebbe consentito a qualcuno di raggiungerle. D’altra parte neppure le finestre che si aprivano nel refettorio parevano facilmente raggiungibili, dato che sotto di esse non vi erano mobili di sorta.
Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione orientale, allo scriptorium e quivi non potei trattenere un grido di ammirazione. Il secondo piano non era bipartito come quello inferiore e si offriva quindi ai miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte, sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun torrione; otto finestre alte e strette, infine, lasciavano che la luce entrasse anche dal pozzo ottogonale interno….
… Vidi altre volte e in altri luoghi molti scriptoria, ma nessuno in cui così luminosamente rifulgesse, nelle colate di luce fisica che facevano risplendere l’ambiente, lo stesso principio spirituale che la luce incarna, la claritas, fonte di ogni bellezza e sapienza, attributo inscindibile di quella proporzione che la sala manifestava…. Quale apparve ai miei occhi, in quell’ora meridiana, esso mi sembrò un gioioso opificio di sapienza…..




Nelle pagine di Bonaventura e Tommaso è implicito, pur nella cautela delle dichiarazioni, il senso della distanza che separa le due attività umane. Nella realtà sappiamo che si trattava però di due gruppi di uomini, coloro che lavoravano e coloro che studiavano. La separazione veniva sottolineata dagli eruditi: non c’è da scegliere entro una vasta gamma di atteggiamenti. Si va dal più esplicito e sprezzante come quello di Guglielmo Conches che già nel secolo XII bollava con l’epiteto di ‘cuoco’ chi non aveva capacità di studiare, ad Alberto Magno che chiamava ‘bruto’ chi non capiva, a Ruggero Bacone che parlava di ‘ventosa plebs’, alla condiscendenza bonaria di Bartolomeo Anglico che affermava di scrivere anche per i ‘rudes ac simplices’. La convinzione di fondo è quella espressa con scherzosa brutalità dagli studenti nei ‘Carmina Burana’: ‘L’illeterato è come il bruto, essendo all’arte sordo e muto’.



  
…. Vidi poi in seguito a San Gallo uno scriptorium di simili proporzioni, separato dalla biblioteca, ma non come questo bellamente disposto. Antiquarii, librarii, rubricatori e studiosi stavano seduti ciascuno al proprio tavolo, un tavolo sotto ciascuna delle finestre. E siccome le finestre erano quaranta, quaranta monaci avrebbero potuto lavorare all’unisono, anche se in quel momento erano appena una trentina. Severino ci spiegò che i monaci che lavoravano allo scriptorium erano dispensati dagli uffici di terza, sesta e nona per non dover interrompere il loro lavoro nelle ore di luce, e arrestavano le loro attività solo al tramonto, per il vespro.
I posti  più luminosi erano riservati agli antiquari, gli alluminatori più esperti, ai rubricatori e ai copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando con un coltello sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli per tracciare le linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto ad ogni scriba, o al culmine del piano inclinato di ogni tavolo, stava un leggìo, su cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostro d’oro e di altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e trascrivevano appunti su loro privati quaderni o tavolette.





Nel lento camminare del giardino chino ammiro la vita della foglia che trasuda la sua umidità invernale. Prego lei, fra la sua e la mia litania. In questo girare in tondo, qualche libro abbiamo foderato nel segreto della biblioteca e abbiamo nascosto agli sguardi attenti dei fratelli. Così ora anche di giorno, riesco a leggere qualcosa della radice della pianta, mia sola compagna, mia sola amica, mia sola anima, di questo Inverno che si preannuncia severo.  Ma i primi freddi alle ossa sono il nulla di fronte ai brividi della caverna che scende, fino alle volte insperate di panorami di altri secoli.  Quello di cui io ora sono testimone, e di cui spero mai mortificare il mio umile spirito dentro queste carni già sofferenti , è la costanza dell’Assoluto, divenuto parola attraverso il mio confratello -  Eraclio - .  Nel lento deambulare e girare attorno noi stessi, abbiamo imparato che la sua parola è più della nostra vita, che il suo dire è più della luce che riusciamo a vedere ogni mattina, che il suo pensare è un conversare con Dio, a cui  noi ancora non ci è ….. e mai sarà concesso. Il tramite del nostro parlare con la.....












mercoledì 11 febbraio 2015

IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE (3)



















Precedente capitolo:

Il ruolo dell'Intellettuale (2/1)

Prosegue in:

Il ruolo dell'Intellettuale (4)   (5)   (6)













Ragion per cui una evoluzione confacente con l’essere ed appartenere al mondo, nella povertà e ricchezza che l’uomo e la Natura posseggono nei loro ruoli immutati e connessi con la sua graduale Evoluzione, e come dicevo all’inizio della presente, è indispensabile una attenta osservazione al micro-scopio di questo ‘corpo, o singolo elemento, nella totalità dell’indispensabile funzione organica del ‘corpo  malato’; ed osservare il contesto dove è inserito con tutte le sue funzioni vitali che svolge, dalle più inutili alle più utili: tutti quei fattori da te rilevati (prima il tuo ruolo era ed è identificabile con la figura del    ‘Teologo/Sciamano’ poi del ‘Filosofo’ scritti come ben sai nel ‘Libro Rosso’ di questa venuta) possano essere esaminati nel contesto di un corpo più vasto, dove, tutte le funzioni hanno conseguito la maggiore specificità richiesta grazie ad una lenta e graduale Evoluzione e conseguente perfezione (nella loro operatività), un po’ come quel primo anfibio da cui discendiamo: lentamente con lo scopo di raggiungere e mantenere la luce e la vita ha mutato e perfezionato per adattamento taluni organi predisposti per la sua sopravvivenza.
Sicuramente tale intento rivolto verso la vita rimane il medesimo.




E’ indispensabile questa opera di medicina generale, in un contesto dove la psicologia svolge un ruolo determinante ed efficace, che, come già detto, può e deve superare le singole funzioni accademiche più o meno specifiche al microscopio del ‘corpo (e mente)  malato’, per elevarsi non più e solo all’umano ma perseguire un intento ‘divino’ che coinvolge il corpo e soprattutto l’anima. Un tempo (giammai superato), gli eretici o i dissidenti, vengono colpiti all’anima per raggiungere quegli obiettivi contrari ad un ortodosso e monolitico intento.
Divina è la vita, divina la Natura, divino il pensiero o l’idea o l’opera di ogni singolo essere pensante e non, con la sua povertà o ricchezza di mondo, per essere violata o torturata al calvario della vita. Divino ogni singolo essere vivente. Chi viola deliberatamente questa verità immutabile, è il primo malato della Storia, ed incarna quel male avverso alla vita ed alla verità. E’ quel male che supera la definizione del ‘male’ gnostico descritto dagli Eretici per elevarsi nelle sue singole funzioni, ad un elemento malato, un cancro che divora e seppellisce, non solo con un singolo aspetto, derivato dai tanti (Stress), ma in ogni aspetto sociale che attacca un corpo sano.




Sacra è la vita di ogni essere, dicono talune filosofie e teologie, per essere violata in maniera indiscriminata, per essere offesa o solo modificata dalle originarie condizioni di vita, nella graduale Evoluzione che l’organismo con l’anima che lo presiede debba o possa essere sollecitato in modo non confacente con le naturali sue predisposizioni. La Natura grazie alla costante e immutevole opera dell’uomo conosce sia gli aspetti positivi di interventi graduali atti alla prevenzione e conseguimento della sua sopravvivenza (nel contesto del suo ‘organismo’), sia, tutti quegli interventi manifestazione di quella violenza che è propria dell’uomo, quale essere non ‘Povero di mondo’,  ma al contrario, ‘Ricco di mondo’, il quale disconosce, però la fonte della sua grande ricchezza.
Le conseguenze, come quello ‘Stress’ da te studiato e monitorato sono gravi non solo per il cervello, quindi, ma l’intero organismo dove questo opera e presiede tutte le funzioni del corpo. I Tempi dove questa opera si snoda entro un Pensiero Divino o una Spirale Equiangolare (priva accidentalmente o solo casualmente della Divina Idea) matematicamente proiettata su ogni singola opera dell’uomo si svolge entro le ‘parentesi’ o ‘curvatura’ Spazio/Temporali del Tempo; Tempo che svolge ruolo determinante per tutti quegli assestamenti e graduali Evoluzioni in cui la Natura opera sempre al meglio per un lento contesto scritto entro il ‘numero’ dell’Evoluzione (nel limite che sottintende il termine … vedi Godel), e come direbbe Bergson, forzare quei Tempi, significa lo Stress innaturale da te studiato al Microscopio della tua disciplina. 




Ma anche, costretti dal Limite stesso che il Tempo svolge nel contesto della sua Opera incessante, in quanto, impossibilitati alla reale definizione comprensione e ‘contenimento’  delle e nelle Dimensioni in esso percepite (quindi pur gli sforzi e i traguardi nella costante ‘povertà di mondo’ con tutte le conseguenti frustrazioni che ne conseguono); e nell’Eterno dubbio che la materia, che in esso opera conta e svolge nella irreversibilità accertata; in altre dimensioni a noi sconosciute, conosca una Reversibilità fuori dalla parentesi detta e qui enunciata, caratteristica dell’Anima umana, ed anche trascritta nei suoi Geni.
In poche parole, fuori da quella parentesi, e dal Dio creata ed annunciata, vi è un Primo Dio Straniero che opera contrario alla Materia (l’Intelletto), e Primo ad essa, trovare i motivi a cui la nostra Anima o psiche è la disciplina da te come altri perseguita (giammai perseguita), non è solo opera Biochimica, ma anche Divina appartenente ad una Filosofia antica.  Certo quanto da me enunciato potrà apparire utopistico, soprattutto detto in una realtà come quello odierna, ma per prevenire il farmaco, sia esso alcolico, vegetale/oppiaceo o artificiale, occorre una efficace opera di prevenzione che possa raggiungere con la semplicità di una Preghiera contro il Male che avanza, non una litania, io ad esempio ho provato con la Rima e la Poesia…, ecco credo che questo sia molto utile al linguaggio primordiale dell’Uomo.  Non un farmaco, neppure oppio, ma una sana terapia come la semplicità di una poesia nella Rima della Vita…




Ed a questo punto non introduco, entro questa ‘parentesi’ una Rima, ma nello svolgersi del Tempo ripetuto e ciclico riflesso nell’Universo Gnostico, propongo una importante definizione, un rintocco del comune Tempo condiviso: te proiettato nell’Ortodossia della vita, io invece confinato nell’Eretica Verità dell’Eterodossia, e quali uomini di cultura, anche perché per quello che mi riguarda adopero tutte le ragioni della cultura, giammai della violenza, traccio e scandisco il rintocco geologico (le fondamenta) di questa vasta terra nella stratigrafia in cui ha maturato il suo ‘dire’ e talvolta, come detto, anche il suo eterno apostrofare contro ogni Eresia. Lo svolgersi del Tempo, perché la nostra comune cultura così come conservata, tradotta e studiata, e così come arrivata e maturata fino a noi, è frutto di quei laboratori del sapere nati (anche) nel Medio-Evo, di cui non solo, gli aspetti di intollerante memoria, vanno rilevati, ma anche, il grande potere mediatico che si protrasse fino alla Storia Moderna, e di cui, volente e nolente, ne furono i ‘curatori’ (più o meno fedeli) di una Memoria che andava conservata salvaguardata studiata ed approfondita (da ogni parte dove questa manifesta e manifestava le ragioni di quella Evoluzione detta…).

















lunedì 9 febbraio 2015

IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE

















Prosegue in:

Il ruolo dell'intellettuale (2)












A questo punto l’Epistola si interrompe e nasce un diverso dibattito, più ampio, su più piani connesso, così come è la Natura del mio dire, della mia ‘scienza’ che non si limita allo studio ‘micro’ o ‘macro’ dell’oggettivo e soggettivo argomento trattato, ma fedele a quei canoni di Universalità che rendono il Sapere e la cultura, connessi, con più stratificazioni dall’origine (dei tempi) fino alla formazione e successive modificazioni o evoluzioni che ne caratterizzano la struttura. E come già detto, il nostro essere anche nelle diverse manifestazioni di ‘stress’, quindi, dell’ambiente malato in cui questa sintomatologia manifesta le sue cause. Perciò un diverso confronto fra l’ortodosso (scienziato) e l’Eretico filosofo. Le argomentazioni potrebbero quasi apparire un pretesto, e sicuramente lo sono (di cui te, come altri autori, offri stimolo - consapevole o non - e riflessione, nel vasto laboratorio del Sapere non ortodossamente espresso nel panorama della Storia; e di cui offri un’immagine del Tempo. Io che tal principio disconosco, mi limito, come espresso nello Straniero, ad offrire buon albergo non lontano da critiche, o se vuoi, meditazioni o solo accenni ironici o autoironici che addetti ai lavori sapranno e avranno colto), o forse solo, una volontà di ‘provocazione’ (in senso costruttivo, se proiettata nella ‘chiralità’ e successiva ‘achiralità’ del mondo vivente… come già detto…); perché le argomentazioni che affiorano non come iceberg, ma singole o collettive stratificazioni (con intenti sicuramente ‘positivi’ - come lo furono le Rime di quel Cecco arso al rogo di ugual intolleranza - nel doppio senso del termine così come comunemente adoperato nella grammatica del sapere ad uso scientifico quanto teologico e non per ultimo filosofico) celano ampie considerazioni che superano le premesse delle argomentazioni dell’Epistola stessa. Sia riflessa nelle singole motivazioni che l’hanno originata, sia gli argomenti trattati, come ‘scusante’ per studiare con ugual acume scientifico da te adoperato, immutate connessioni (e, come detto e rilevato, monolitici arroccamenti Ortodossi).




Argomento, quest’ultimo, più volte oggetto e spunto di riflessioni nella sua verità storica accertata e presente nell’humus culturale di una società non ancora immune da questa visione della realtà (la verità si nasconde, ho spesso imparato, nei fatti meno manifesti o volutamente celati come quel Dio aspirazioni dei molti che pretendono essere i tramiti di una singola ‘Parola’, cancellate le ‘false’ a beneficio di un opposto Cristo, che come un Tempo veniva identificato nelle alte gerarchie ecclesiastiche - o scientifiche - la sostanza del principio non muta i termini discorsivi o parametri della futura equazione che andrò ad introdurre). Argomento questo, che ripeto e traduco in termini matematici nella verità storica accertata, - considerando la Storia come la manifestazione e l’evolversi di quella spirale da cui la Terra, luogo delle nostre mortali esistenze, ha avuto origine, se posta entro i termini di una parentesi di cui la Storia rappresenta la curvatura di contenimento (io sostengo che in realtà vi è Storia anche là dove non vi sono prove documentali, ma bagaglio più o meno rilevato nei nostri Geni così come nel nostro subconscio in cui manifesta l’essere ed appartenere al mondo non solo con le ‘evoluzioni’ evidenti dell’organismo con i suoi successivi adattamenti e sviluppi in milioni di anni, ma anche con connessioni talvolta invisibili con lo stesso Spirito o 'Anima mundi' che ci ha generato, quindi un’Anima Immortale….), si apre con una curvatura (spazio temporale - nell’ortodossa visione dell’inizio dell’Universo…) e si conclude con ugual premessa (se i termini non vengono abbreviati dalla Natura umana in questa ‘presunta evoluzione’ che include anche successive ‘visioni cosmologiche’ non Einsteiniane, compresa quella Meccanica Quantistica che ha rivoluzionato il nostro bagaglio scientifico), entro un simbolo, un numero, una parola (che ne delineano anche il limite stesso e l’impossibilità entro la parentesi della vera conoscenza e successivo sviluppo) che raccoglie forma e sostanza della Storia.




Ma, come detto, la Storia è monopolio dei Vincitori (giammai della verità, neppure quella scientificamente accertata, perché oggetto costante di aggiornamento evoluzione o errata interpretazione, così come le teorie più geniali che hanno caratterizzato il nostro Sapere, sempre mutevoli di fronte ad una variabile che naviga fra un’onda ed una particella, inesprimibile di fronte alla verità di quel Dio, conteso fra una particella di monolitica e profetica certezza, e un’onda di Duplice Prima verità) e nell’ambito di questo singolo contesto sociale inteso come Vita Terrena si sviluppano tutti i rintocchi del Tempo, inteso come Secoli, che caratterizza la sua imperturbabile immutabilità nelle espressioni ‘evolutive’ accertate entro il numero che lo evidenzia caratterizza conta e contiene, impossibilitato e/o limitato, però, dal limite stesso della sua specifica funzione, come ebbe ad evidenziare Godel in una verità scientifica espressa nel Tempo e che noi connettiamo al Tempo di una verità Scientifica al servizio della Storia.
Ragione per cui, fedele al tuo linguaggio, non certo immune, traduco il tutto entro i termini di una equazione ed abdico alla parentesi il ruolo storico di contenere i numeri della nostra comune Memoria entro quella verità accertata ma più volte tradotta e conservata nella grande Biblioteca della comune Parola intesa come numero ad uso dei vincitori, quindi limitata al valore oggettivo del limite stesso che la contiene o vorrebbe contenere. 
















sabato 7 febbraio 2015

I NOSTRI PRIMI SOGNI I NOSTRI PRIMI PENSIERI (14)



















Precedente capitolo:

I nostri primi sogni i nostri primi pensieri (13)













Dopo l'inevitabile per quanto lunga premessa, mi ricollego ai motivi di questa Lettera, perché come Lettera o meglio Epistola si è generata questa nostra disquisizione, da cui si è evoluta una spirale di argomentazioni tutte connesse fra loro, è inevitabile essere puntuali sulla Genesi di questo nostro Creato e quanto da noi Creato!
E visto anche che i ghiacciai ‘proposti’ non a caso nel precedente Post, con le belle immagini che lo accompagnano, oltre che ‘episodi’ onirici di possibile ed imminente futuro rappresentano anche scenari di possibili e probabili cataclismi mentali che si riversano (e si sono riversati) sul nostro presente passato e futuro: cataclismi psicologici e mentali in cui la Natura malata, certo non a causa dell’uomo, ma altresì più certamento vero, l’uomo più malato di sua Madre…; riprendo la strada con te iniziata è ripropongo degli interessanti articoli in schede qui riportate… (Dal tuo articolo ‘La necessità di una visione e di una cura integrate’ pag. 4/8)





                                                 
                                               










… Prendo spunto dal passo sottolineato a pag. 8 per una breve simmetria rilevata: sia per le date dedotte cui fanno riferimento, sia per la precisione dei dati riportati… e leggo:

‘Una delle cause più frequenti dell’eccessiva mortalità infantile è la diffusa pratica, nelle zone industriali, di narcotizzare pericolosamente i bambini piccoli, in modo che essi possano essere messi da parte più comodamente quando si presentano occupazioni più lucrative di quella di allattare il bambino. A questo scopo, centinaia di galloni di oppio sotto varie forme sono vendute settimanalmente in molti distretti del Paese. E non è probabile che questa pratica venga fermata fino a che le giurie non potranno essere indotte a considerare una cosa grave le improvvise fatali disgrazie che questa sorta di avvelenamento cronico non di rado produce’.

… Quindi, conclude il tuo bell’articolo, la Depressione non nasce dal nulla ma è frutto di un elemento scatenante, pagine direttamente riconducibili a quelle altrettanto illuminanti del tuo bel saggio e riporto per intero nelle schede di seguito….. (Dal tuo libro: ‘La bilancia dello stress’ schede libro pag. 32/33/34/35)

















  ….. Ecco sono proprio i tratti di quell’elemento che motivano la fonte filosofica dei miei e tuoi pensieri, e rispondo alla tua precisa e nitida volontà di attingere alla ‘Galleria’ del nostro comune ‘passato’ con altrettante valide argomentazioni…, prendendo atto come il tuo saggio sia più che ‘dettagliato’ nel raccogliere ‘informazioni’ sul male su cui disquisisce…. e replico…






Il filo logico che mio malgrado cede ai ‘deliri’ della letteratura in una visione creatrice di mondo mi conduce alla mistica verità di una poesia, di una pittura, di un sogno; tanto duraturo quanto infinito, inspiegabile e bello, perché entro la logica di ciò che non appare razionale (nel supposto loro raziocinio). Ma veleggia nel bagaglio di una memoria antica senza tempo.
Sono partito all’inizio del ‘Viaggio’ certo di appartenere alle false verità di ‘Danceman’, mi domando ora quasi alla fine del tempo divenuto certezza entro la logica del limite, se la vita vera di noi ‘androidi’ è un sogno non sognato. Perché la vita come è o dovrebbe essere, è solo un miraggio desiderato da pochi ed incivili ‘disadattati’se non addirittura schizofrenici personaggi, quale io (assieme ad altri) appaio. In tutte le opere che ho creato nei secoli e che continuo ad ammassare in una stratigrafica visione che mi consegna all’incertezza di una certezza nuova vista attraverso l’intuizione ma priva di parola; percepita come un sogno antico e appartenuto (non solo all’uomo), dove sembra diventarne estraneo. Ad un vortice infinito di creazione, nella parola, che diviene mistero e limite di se stessa. Il mistero della migrazione di un semplice animale mi conduce verso la percezione di ‘povertà di mondo’.
Nel momento in cui sogno il suo volo (ed il volo sogna di me) ed il desiderio che si cela nella sua ricchezza, esprimo un concetto onirico di lontana memoria. Il volo privo dell’espressione della coscienza spiega la semplicità dell’esserci ed appartenere con la percezione inconsapevole di esso (mondo), perché parte di esso e tutt’uno. Rimaniamo prigionieri del limite della parola che attraverso l’analisi e lo studio tenta una probabile spiegazione, una probabile equazione, che possa sollevare nelle ali di un volo eterno, condizione e percezione.




Se taglio il nastro, si rese conto, il mio mondo scomparirà. La realtà continuerà a esistere per gli altri, ma non per me. Perché la mia realtà, il mio universo, mi viene da questa minuscola unità. Analizzata e poi diretta al mio sistema nervoso centrale man mano che questo nastro si snoda a passo di lumaca. Sono anni che questo nastro si va svolgendo, concluse. Prese i vestiti, li indossò, si sedette nella sua grande poltrona, un lusso importato nel suo appartamento dagli uffici principali della Tri-Plan, e accese una sigaretta. La mano gli tremò mentre poggiava l’accendino con le sue iniziali; piegandosi all’indietro, soffiò il fumo davanti a sé, creando una nuvoletta grigia. Devo procedere per gradi, si disse. Cosa sto cercando di fare? Scavalcare la mia programmazione? Ma il computer non ha trovato alcun circuito di programmazione. Voglio interferire con il nastro della realtà? E se sì, perché? Perché penso, se controllo il nastro, io controllo la realtà. O almeno, la realtà che mi riguarda. La mia realtà soggettiva… L’unica realtà che esiste. La realtà oggettiva è una costruzione sintetica, che ha a che fare con un’ipotetica universalizzazione di una moltitudine di realtà soggettive. Il mio universo scorre tra le dita, capì improvvisamente. Se riesco a comprendere come funziona questo dannato meccanismo… Ciò che avevo stabilito di fare all’inizio era cercare di localizzare il mio circuito di programmazione così da poter ottenere un vero funzionamento omeostatico: il controllo di me stesso. Ma con questo… Con questo non avrebbe avuto soltanto il controllo di se stesso; avrebbe controllato tutto. E ciò mi rende diverso da qualsiasi altra umano sia mai vissuto e morto, pensò con serietà.

(P.K. Dick, La formica elettrica)




 Così da uno, divento mille, centomila… tutto….. Talvolta il sogno dell’androide diviene allucinazione e desiderio inconsapevole di una umanità incompiuta di essere ciò che non è possibile nella realtà divergente di una differente utopia totalitaria; e se il nastro della vita scorre immutabile, io provo a praticare dei fori per rallentarne il meccanismo nel circuito prestampato che legge la memoria. Ed è vero …, seduto, in un angolo della mia prigione di cemento ecco apparire tutti i disegni, i colori, i voli, le corse, gli odori, le percezioni, di una vita antica. Una vita che mi è appartenuta nel momento in cui ero un tutt’uno con essa nella costante dimensione di una realtà in cui ero una sol cosa per stupirmi della grandezza al contrario della nostra piccolezza. Se abbiamo imparato a cacciare perché il ricordo e la paura sono nel nostro bagaglio genetico e la volontà di sopravvivenza detta le condizioni.  Poi abbiamo scorto i limiti che sono nella nostra natura attraverso il dono della coscienza, dell’intelligenza; abbiamo misurato la distanza fra il calco e la forma nel progressivo cedere all’istinto le ragioni di un probabile pensiero.
Ma ciò ha giocato sempre a nostro favore? 
Non sempre.
Ha contribuito ad elevarci, ma non a volare.
A camminare, ma non a correre.
Ad osservare, ma non a vedere.
A pregare, ma non a parlare con Gaia.
A sognare per non vedere.
Credere nel destino ed abdicarlo ad un nastro della realtà.
Così nella differenza fra quella povertà e ricchezza cosa posso dire: loro sono il mondo, noi le eccezioni per cantarne la regola. Ma anche la regola sembra sempre sfuggirci perché è nostra prerogativa inventarne una e non sottostare a quella che da sempre esiste. Noi siamo gli abitatori cosiddetti evoluti con il miracolo della vita e il dono dell’intelligenza alla ricerca di una ipotesi; ci perdiamo in una folta boscaglia che la via, come il poeta disse, è smarrita. E’ smarrita tutte le volte che non riconosco la compatibilità con le ragioni della vita stessa negli ecosistemi ambientali e nelle fragili connessioni, nelle ragioni dell’uno sul tutto e del tutto sull’uno. Gli equilibri sono dettati da questi principi. Possono mutare nel tempo nel momento in cui l’uomo, unico essere vivente, può far a meno di questa logica riducendo il mondo ad una sorta di serbatoio di materie prime da dover sfruttare in ragione della sua esclusiva sopravvivenza. Il principio è il medesimo dell’animale, suo antenato, non simile. Nella differenza, però, che l’animale, pur avendo in sé quella percezione ‘limitata’ di mondo vive la propria esistenza con il minor danno possibile (eccetto rari casi) per sé e gli altri suoi simili.




Noi al contrario, possiamo vivere attraverso nuovi usi e costumi della comunicazione che ci danno la percezione di quella totalità limitante di vita che è il progresso nella sua forma più meccanicistica, cosicché osserviamo il mondo attraverso questi moderni oblò, e per farlo, alterare in maniera irreparabile equilibri dettando logiche che non sono confacenti con quelle eterne della natura. L’apparenza inganna la vista e se in 250 anni posso dire o pensare di aver acquisito nuova ricchezza e con essa progresso, in realtà la ‘verità velata’ ci appare ingannevolmente falsa. Possiamo ammirare affascinati i successi della tecnologia e non solo, in splendide vetrine, ma certamente dietro a quella logica di profitto non si manifesta il volto del mondo. La bellezza della natura in tutte le manifestazioni che la caratterizzano diviene una verità nascosta dietro apparenze che tentano di riprodurne l’armonia originaria; la vediamo attraverso la sua riduzione in un qualcosa di mutato per sempre a danno della forma originaria, che, come la verità, viene celata agli occhi del nuovo osservatore ricco di mondo ma irrimediabilmente povero dei suoi contenuti, trasposti in elementi per la nuova creazione. Quello che vediamo è il risultato dell’essere per appartenere e riconoscersi nel mondo per poi celebrarne una nuova ed assoluta mitologia. Esistiamo in base a ciò che la ‘merce’ esposta ci invita a partecipare, nella costante imitazione e inversa trasposizione. Noi ‘poveri’ di mondo difficilmente comprendiamo ciò perché la realtà è traslata attraverso diversi messaggi e simboli che costruiamo nella volontà di profitto in eccesso immutata nei millenni di aumentare una probabile e duratura ricchezza virtuale.
Assimilare, al contrario, quella ricchezza di mondo attraverso tutti gli elementi diviene capacità di gioia ritrovata. Di quanto affermo ne conserviamo innumerevoli prove soprattutto nell’arco degli ultimi 200 anni. Il problema dell’uomo che si rapporta con la natura è evidente e simmetrico ieri come oggi. Ieri come oggi la natura muta il suo aspetto a causa dell’uomo. Quel ‘maschio demoniaco’non opera solamente danni nei confronti dei suoi simili per ragioni di potere, ma si rapporta sempre nei confronti dello spazio occupato con medesima ignoranza ed incuria che lo rende padrone degli elementi. Non consapevole del reale rapporto che intercorre fra i suoi bisogni e quelli dell’ambiente che lo circonda.




Colla scomparsa delle foreste ogni cosa vien cambiata, tutte le armonie della natura vengono turbate. In una stagione il terreno perde il suo calore per mezzo della radiazione in un cielo aperto; in un’altra riceve un caldo smodato dai raggi non intercettati del sole. Quindi il clima diviene estremo ed il suolo è alternativamente riarso dal calore estivo e irrigidito dal rigore dell’inverno. I venti freddi strisciano senza ostacolo sulla superficie; portano via la neve che la ripara dal gelo, e asciugano la sua scarsa umidità. La precipitazione diviene irregolare come la temperatura ; le nevi dimoranti e le piogge primaverili, non più assorbite da un terreno vegetale poroso e spugnoso, scorrono sulla superficie gelata e si versano giù nelle valli verso il mare, invece di inzuppare un letto di terra ritentiva, e conservare una provvista di umidità onde alimentare le sorgenti perenni. Il suolo è nuotato del suo tappeto di foglie, spezzato e reso leggiero dall’aratro, privo delle radichette fibrose che tenevano insieme le sue parti, prosciugato e polverizzato dal sole e dal vento, ed alla fine esaurito per nuove chimiche combinazioni.

 ( G.P. Marsh, L’uomo e la natura 1864)

 L’Antropocene nasce con l’Ottocento e la rivoluzione industriale, e a metà del secolo scorso supera una soglia importante: l’attività umana non si limita più a influenzare l’ambiente globale, ma ne decide le sorti. L’ozono è un gas di colore blu dall’odore pungente, costituito da molecole che contengono 3 atomi di ossigeno, molto attivo chimicamente,che assorbe la radiazione ultravioletta, soprattutto quella di lunghezza d’onda inferiore a 310 nanometri. Si concentra in una fascia compresa tra 15 e 30 chilometri, dove l’atmosfera è più rarefatta dell’aria che respiriamo. Qui è rarefatto anche l’ozono: compresso e portato alle condizioni di pressione e temperatura che si trovano nei pressi della superficie terrestre, formerebbe uno strato di appena 3 millimetri. Nonostante sia così rado, è un filtro che protegge noi e le altre forme di vita dai raggi Uvb, i più penetranti e nocivi per la nostra salute perché causano ustioni e, talvolta, cataratte e tumori della pelle. L’ozono si forma quando la radiazione solare a bassa lunghezza d’onda colpisce una molecola di ossigeno e la spezza in due atomi.  Ognuno di questi si lega poi a un’altra molecola di ossigeno e la trasforma in una molecola di ozono. Nell’Antropocene, abbiamo interferito con questo processo naturale: la produzione di gas inquinanti l’ha fatto aumentare nell’aria che respiriamo e nella troposfera in generale.

(P.J.Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene!)

La faccia della terra non è più una spugna, ma un mucchio di polvere, e le correnti che le acque del cielo le riversano sopra,  si precipitano lungo le sue pendici, trasportando sospese grandi quantità di particelle terrose che aumentano la forza meccanica della corrente e la sua azione erosiva, ed accresciute dalla sabbia e dai ciottoli delle frane cadenti riempiono i letti dei ruscelli, divergendole in nuovi canali ed ostruendone gli sbocchi. I rivoletti, mancanti della loro primiera regolare provvista, e privi dell’ombra protettrice dei boschi, si riscaldano, si evaporano, e rimangono così diminuite le loro correnti estive, cangiandosi in torrenti devastatori nell’autunno e nella primavera. Da queste cause ne viene una costante degradazione delle terre elevate, ed in conseguenza un sollevamento dei letti dei fiumi e dei laghi per causa del deposito delle materie minerali e vegetali trascinate giù dalle acque. I letti dei grandi fiumi di vengono impraticabili alla navigazione, i loro estuari si colmano, ed i porti, ove una volta si riparavano grosse flotte, si riempiono di pericolosi banchi di sabbia. La  terra privata del suo terriccio vegetale, va dividendo man mano meno feconda, ed in conseguenza meno acconcia a proteggere se medesima col riprodurre un nuovo reticolato di radici che tengano collegate le sue particelle, o un nuovo tappeto di erbette che gli faccia schermo contro il vento, il sole, e la pioggia spazzante: grado grado la terra diviene sterile affatto. La erosione del suolo dei monti per mezzo della pioggia lascia nude le prominenze di roccia arida, e il ricco terriccio organico che li ricopriva, portato giù dai terreni bassi ed umidi, promuove una abbondante vegetazione acquatica, che colla sua putrefazione alimenta le febbri e altre insidiose forme di malattie mortali, e così la terra si fa disadattata dimora per l’uomo. La vendetta della natura per la violazione delle sue armonie, sebbene lenta, non è meno certa, e il progressivo deterioramento del suolo e del clima in queste regioni eccezionali avverrà tanto sicuramente per la distruzione delle foreste, come qualunque effetto naturale segue la sua causa.

(G. P . Marsch, L’uomo e la natura 1864)

I clorofluorocarburi usati dall’industria hanno portato al ben noto buco dell’ozono , che fu scoperto nel 1985, quando un gruppo di ricercatori del British Antartic Survey, guidato da Joe Farman, rilevò che a quote comprese tra 12 e 22 chilometri l’ozono era quasi scomparso. Si è formato un ‘buco’ in una regione dove, naturalmente, il gas era abbondante e, si credeva, praticamente inerte. Nessuno se lo aspettava, sebbene la pericolosità dei clorofluorocarburi per l’ozono ad altitudini maggiori fosse già stata messa  in evidenza da due chimici, il messicano Mario Molina e l’americano Sherwood Rowland. Anche la Nasa, l’agenzia spaziale statunitense, fu presa in contropiede. In Antartide, i suoi satelliti avevano registrato valori molto bassi ancor prima dell’esperimento britannico. Quei dati, però, erano troppo strani e inspiegabili per l’epoca: furono considerati erronei e scartati. Il buco dell’ozono giunse come una brutta sorpresa, ma si conoscevano da anni le reazioni chimiche che lo causavano e fu subito chiaro che era dovuto alla presenza di clorofluorocarburi nell’atmosfera.

(P. J. Crutzen, Benvenuti nell’antropocene! 2005)





 Dovremmo rivedere gli interi valori su cui poggiano le moderne civiltà ed in base a questi fare il punto della situazione. Tutto ciò può avvenire semplicemente in forza della cultura della comprensione e tecnicamente parlando, riconversione. Si può cercare di contenere il danno così come è possibile contenere un certo tipo di  alimentazione in termini diversi da quelli principalmente carnivori a cui siamo abituati. L’uomo saprà gradualmente risolvere ogni problema ma certamente danni in ragione di una certa economia continueranno ad evolvere in proporzione ad un fabbisogno non misurato secondo i reali bisogni nel concetto distinto e mal interpretato di povertà e ricchezza. La cosa che mi lascia sbalordito come dalla storia poco si impara rispetto quanto dovremmo aver recepito, la ‘circolarità’di eventi è una caratteristica dell’uomo non della natura. Possiamo conoscere bene i meccanismi dell’economia o delle telecomunicazioni, capirne funzionamenti ed equilibri, ma fintanto rimaniamo privi di tutte quelle ricchezze che appartengono al reale, cioè di quegli elementi che dettano le capacità di poter vivere e sopravvivere in essa nella lunga durata del godimento di un bene, noi quanto i nostri nipoti, non avremmo mai penetrato i segreti dell’economia né tantomeno avremmo scoperto tutte le connessioni di una probabile comunicazione.
Questo ‘esserci’ nel mondo, è in realtà povertà di esso.
Come spesso e troppe volte ripetuto. Rovesciare alcuni schemi precostituiti che la cultura attraverso la civiltà impone è dovere logico per colui che interpreta l’evoluzione intesa come progresso neurologico dell’uomo. Ragione per cui, fin tanto che non subentra questa graduale evoluzione anche alla periferia di un contesto apparentemente civile e progredito nei suoi meccanismi formali, non potremmo raggiungere quei nessi di civiltà sperata che comportano una graduale ricostruzione storica dell’essere e divenire. Fin tanto che non si opera sull’essere e tutte le ragioni nell’esserci, non potremmo vedere o percepire gli stimoli di un diverso dispiegarsi della storia e le sue evoluzioni ‘circolari’. Quella ‘circolarità’che non ha nulla a che vedere con la natura del divino o di un probabile Dio a cui appelliamo il credo, la coscienza, il sapere. Perché è proprio il nostro sapere che si appella a Lui nel momento di presa di coscienza di un limite nell’interpretazione della vita nello svelare quel mistero dove siamo cantori ma anche limitatori della stessa.




Quel doppio appartenere a lei nel momento in cui non riusciamo a percepirla o ad essere coerenti con le sue realtà. Fuggire, significa per il vero tornare alla vita. Fuggire tutte quelle condizioni che negano la sua percezione nel momento in cui una insana economia, che non appartiene più all’essere né al sul suo spirito, rende l’esistenza puro concetto meccanicistico. Singole interconnessioni meccanicistiche, probabili creatrici di vita. In ciò dissento. Se non è data possibilità all’’essere’ la comprensione della misura del vivere, cioè esserci, esistere, ed appartenere, gli è negata oltretutto (e di conseguenza) la capacità di pensiero riflesso nello spazio che occupa. Concetto diverso dal ‘numero’ a cui lo stesso pensiero si può adeguare nella perfetta progressione (il pensiero è la vita riflessa nella logica dell’Universo creatore di forme), anche in forza della semplice matematica abbiamo cognizione solo nell’apparente meraviglia ultima dei suoi frutti e traguardi. Non avendo comprensione dell’intima natura che è legame alla natura stessa dell’uomo e del creato ammiriamo solo le forme ultime e apparentemente perfette di un mandala che nulla ha in comune con la figura originaria riconducibile allo spirito umano. Come l’esempio della matematica, molti altri ci possono servire per dimostrare tutte le distanze dalle cose vere alle virtuali che pensiamo reali, confondendo la vita mentre celebriamo la morte. Questo rovesciamento di logica razionale impone una distanza incolmabile tra noi e la verità. Lei non è più velata ma distrutta e completamente sostituita nei suoi schemi più elementari, sicché l’uomo non è più in grado di porre in essere la ragione, elemento insostituibile per il grado di evoluzione, ma al contrario, convinto della sempre maggiore evoluzione, che tutti quei sistemi gli riconosco, tende ad una irreversibile e graduale regressione verso forme primitive di essere, dove le stesse realtà mitologiche di allora vengono gradualmente sostituite e frapposte con gli stessi istinti che ci appartengono da sempre in una probabile logica demoniaca per diversi scopi e fini. L’indole rimane la medesima, anzi viene coltivata affinché non si estingui, e gli elementi scatenanti vengono di volta in volta sostituiti affinché gli istinti non mutino in altro ma rimangono entro valori primordiali di violenza. Non vi è quella conversione che la natura, la logica, e la storia, impongono dopo secoli di progresso. Il progresso è indice di staticità per taluni che si vogliono elevare ad interpreti della vita ma in realtà sono solo probabili cantori di morte. La loro musica si misura e quantifica in tutte quelle statistiche che vedono lo scenario del mondo immutato nelle sue barbarie, e in tutti quegli incidenti di percorso che causano morti e disastri, siano essi in ragione di una guerra, di una carestia, di povertà, o di incuria dovuta all’urgenza o all’errato calcolo dell’uomo sulla natura.




Così se lascio la pista battuta, la strada asfaltata, il sentiero, e mi avventuro verso il  passato, non compio una regressione ma al contrario una graduale e lenta evoluzione che agli occhi del prossimo appare qualcosa di incomprensibile. Non riconoscendomi nella società devo constatarne i meccanismi in avaria che si riflettono sulla mia persona, sul mio essere, così come quando ammiro un ghiacciaio ne verifico tutti i sintomi di dissesto che non appartengono al normale evolversi dei ‘periodi’, ma sono il frutto della nostra logica e con lei del traguardo del progresso. Posso riconoscermi in lui e cercare tutti quei legami che ancora rimangono oscuri, scavare nella memoria biologica le motivazioni della vita, non solo la mia, ma anche quella da dove traggo sostentamento e ragione di esistenza. Se taluni osservano come la società ha sempre imposto il sigillo della continuità in un comportamento ritenuto ‘sano’ dall’intera collettività preservando dal morbo della pazzia (sinonimo di malsano), allora sono orgoglioso in questa società malata di esserlo, evidenziando altresì la cecità e l’incapacità congenita di distinguo fra sano e malato (la storia è piena di pazzi che hanno composto il proprio ed altrui tempo costringendo la verità ai roghi dell’ignoranza o all’esilio dell’abbandono), cosicché i frutti della normalità non mi appartengono.
La storia che cosa ci insegna a tal proposito?
Che nella banale normalità si uccide (va) e relega (va) in nome di una razza verso una estinzione forzata, una sistematica cancellazione. A tutt’oggi tali condizioni non sono mutate; l’aggressività umana ha bisogno di dissetare e dissetarsi su uguali bugie per confermare i propri limiti sociali. “Se le motivazioni di un popolo di fronte alla vita, la stessa per tutti, sono differenti, è ‘loro’ interesse che diventino patrimonio di un unico codice genetico”. Chi alimenta le ragioni degli uni contro gli altri non compie una intelligente opera di evoluzione, ma al contrario, credendo di padroneggiare i meccanismi della conoscenza se ne serve per ragioni del tutto personali che nutrono i soli motivi dell’economia in virtù della ricchezza del singolo. Singolo inteso come riflesso di una singola economia. L’evoluzione la possiamo riconoscere nel momento in cui la differenza conflittuale fra diverse culture e specie vengono superate come una componente non estranea al mondo animale. Gli animali vivono anche loro questa conflittualità fra specie differenti, ma nella presunta aggressività possiamo riconoscere solo comportamenti di sopravvivenza. Ragione per cui, rimane ancora importante il contesto sociale e comportamentale nel momento in cui ne studiamo le dinamiche riscoprendo quell’universo adamitico e primordiale dimenticato dalla memoria collettiva.  Violenza dettata da altre motivazioni il cui seme germoglia nella diversità, ed in ciò ci riconosciamo peggiori degli animali. Coltiviamo i nostri odi razziali con incredibile memoria e intelligenza, istinto che l’animale non conosce.




Se il mio cane, non dal casuale nome di Vela, che tante volte è stato nominato, ha ragione di essere in queste pagine, non è per una apparente rottura con il genere umano. No! Troveremmo nella psicologia una falsa giustificazione di ciò. Ma perché lei ha dimostrato un legame imprescindibile con la natura, è un (suo) panorama riflesso nella costanza del tempo in cui misuro il mio ed il suo essere. Le mie e le sue necessità, le mie e le sue gioie, il mio ed il suo ‘esserci’ nel mondo.  E’ il tramite della vita che la nostra cultura riporta ad una dimensione bestiale con l’urgenza di manifestarsi ed insegnare …, mai imparare. La nostra cultura che tratta le ragioni dei bestiari medievali come materia storica, ma di fatto nei comportamenti è peggiore della bestialità citata. Se Vela corre come una pazza per infiniti sentieri al margine di boschi secolari, è perché si è riappropriata del suo mondo, è ridiventata ricca di esso. Se abbaia e pone le regole da capobranco non sottomettendosi alle mie ragioni, è perché l’istinto della natura gli impone ciò, è svincolarsi da una realtà che non appartiene ad entrambi perché tende a distruggere non a costruire. Quel flusso di vita che gli sgorga come un fiume in piena è tutt’uno con lei. Se poi tenta di sfamarmi come farebbe una buona madre, pescando al volo qualche pesce nel fiume, riesco a leggere il libro della vita. Il meccanismo si è inceppato, quell’ubbidienza in ragione della verità è venuto meno. La morale comune (totalitaria) la vuole docile ed addomesticata, se così fosse, la mia intelligenza (democratica) non avrebbe mai potuto cogliere lo spettacolo della natura che reclama la propria legittimità ad esistere. Essere ed appartenere a quel mondo che è vita. Debbo ringraziare quella povertà di mondo che mi ha condotto verso quella ricchezza che prima mi era preclusa, e, a prescindere cosa il futuro mi riserva o riserverà, posso dire di aver visto la verità e di averla assaporata, mentre gli altri tentano di braccare la preda con sorprendente organizzazione mentre cercano negli arcani rifugi della psicologia le risposte dei loro fallimenti. Io godo lo spettacolo della loro bugia di ogni giorno. Della loro menzogna portata a piene mani ed offerta come nettare di un ultimo avamposto del progresso, rispetto al mio costante rifiuto. Rifiuto di accettare di bere il veleno di una realtà che non vuole conoscere neanche la sua filosofia, madre del pensiero, non di un pensare qualsiasi ma al contrario della  capacità di anteporre la logica, al fare. All’istinto del fare. Questa realtà che si aggira con personaggi ‘creatori di mondo’, piccoli ‘agenti segreti’di Conradiana memoria che vagano in mondi sotterranei con l’illusione di manipolare esseri ed eventi. Ne faccio volentieri a meno sia di loro che delle loro creazioni. Che il linguaggio della fiera natura torni ad insegnaci qualcosa di utile e duraturo rispetto alla precarietà di un pensiero moderno.
(G. Lazzari)


   

METISTOFELE:  Questo è davvero un camminare? Ma ora, dimmi, che ti piglia? Scendi in mezzo a questi spaventi fra sbadigli orridi di scogli? Io li conosco bene. Ma non qui: perché il fondo dell’inferno era così.
FAUST: Leggende idiote non te ne mancano mai. Ricominci a elargirne.
METISTOFELE:  Quando il signore Iddio, e so anche bene il perché dai cieli esiliò nell’abisso più fondo dove dal centro, tutt’intorno, ardendo si consumava di sue fiamme un fuoco eterno, ci si trovò, con tanta profusione di lumi, pigliati in una posizione molto scomoda. Cominciarono i diavoli tutti quanti a tossire, a sfiatare assai forte e di sopra e di sotto. Di fetore sulfureo e di acidi l’inferno si gonfiò. Che gas era! E così spaventevole che la piatta crosta dei continenti, per quanto spessa si schiantò. E ora tutto è alla rovescia, quel che un tempo era fondo ora è vetta. Anche su questo fondano la corretta opinione che s’abbia a tramutare il basso in alto. Così dal carcere di fuoco siamo evasi verso il regno dell’aria libero smisurato. Un aperto mistero, ben serbato e solo tardi rivelato ai popoli.
FAUST:  Per me la massa dei monti è silenzio solenne. Non chiedo di ‘dove’. E neppure ‘perché’. Quando natura ebbe a formare se stessa arrotondò esattamente la terra: delle vette, delle gole lieta schierò rupi su rupi, montagne su montagne poi formò le colline degradanti a valle con dolcezza in placido pendio. La verdeggia, la cresce e per essere in letizia di certi sciocchi mulinelli ne fa a meno.
METISTOFELE: Lo dite voi! E vi par chiaro come il sole. Ma la sa differente, chi c’era. Io c’ero quando laggiù ribolliva gonfio l’abisso e levava torrenti di fiamme;  Quando il martello di Moloch la rupe alla rupe forgiava e schegge di monti scagliava lontano. E’ ancora irta la terra di estranei blocchi enormi. Tanta potenza eruttiva, chi arriva ad intenderla? Il filosofo, lui, non sa spiegarlo. ‘Il sasso è la, la bisogna lasciarlo. Ci siamo già rotti la testa a pensarci’  …….

(Goethe, Faust)