Prefazione: di Ksenia Bolchakova e Alexandra Jousset
Marat
Gabidullin non è un pentito.
Non
è un delatore, dilaniato dalla propria coscienza, che un giorno ha deciso di
rivoltarsi contro l’organizzazione di cui faceva parte e di denunciarla.
No.
Marat
è un soldato.
Un
semplice soldato in mezzo ad altri beni di consumo. Un homo sovieticus che si porta nelle viscere tutte le forme di
schizofrenia che albergano nell’uomo russo contemporaneo. Orgoglioso di aver
fatto parte delle forze aeree dell’esercito regolare del suo Paese. Orgoglioso
di aver combattuto l’Isis in Siria come mercenario del gruppo Wagner. D’altra
parte Marat gongola quando racconta di avere partecipato all’operazione che ha
permesso di riconquistare Palmira sottraendola agli islamisti. Palmira,
fantasia di tutti coloro che sognano di lontane civiltà millenarie. Eppure,
Marat è a disagio nell’ammettere di aver servito un esercito ombra illegale,
oggi sotto i riflettori, ossia il gruppo Wagner, accusato di aver commesso i
peggiori abusi, stupri, torture e omicidi contro le popolazioni civili nei Paesi
in cui è sceso in campo.
Dall’Ucraina
alla Siria. Dalla Libia alla Repubblica Centrafricana. E ora in Mali.
Leggendo questo libro, non ci si devono aspettare ammissioni di colpa. Questo racconto nasce dalle contraddizioni che ossessionano il suo autore. È una storia profondamente russa, la storia di una rottura e di una redenzione. L’avventura di un soldato di ventura al servizio di un esercito che ufficialmente non esiste.
È
per esistere che Marat ha deciso di scrivere. Cristallizzando i fatti. Inscrivendo
nel marmo la sua storia e quella dei suoi fratelli in armi. Una storia finora
soppressa dalle autorità del suo Paese. Perché secondo il Cremlino, il gruppo
Wagner non esiste. Questa forza armata che si schiera ai quattro angoli del
mondo, seguendo la mappa degli interessi del regime russo, sarebbe, nella
versione ufficiale, una fantasia dei detrattori di quello stesso regime.
Occidentali in testa. Interrogato in numerose occasioni sulla questione,
Vladimir Putin ha sempre rifiutato di ammettere il ricorso a mercenari nelle
zone di conflitto e ha sistematicamente negato qualsiasi legame tra il Cremlino
e la compagnia militare privata.
In primo luogo, perché il mercenarismo è un’attività ufficialmente illegale in questo Paese, punibile ai sensi dell’articolo 348 del Codice Penale con la reclusione fino a otto anni. In secondo luogo, perché il presidente russo ha il suo tornaconto in questo silenzio complice. L’invio di mercenari consente allo Stato di risparmiare sulle pensioni e sugli stipendi pagati ai soldati dell’esercito regolare. Permette anche di occultare i propri morti.
Marat
spiega: ‘I nostri generali stavano incominciando a preoccuparsi delle possibili
perdite. I nostri compatrioti, dal canto loro, non volevano concepire la guerra
come un fenomeno che può provocare dei morti. Bisognava trovare un compromesso.
Un compromesso possibile è quello di chiamare in causa una struttura parallela,
la cui partecipazione al combattimento potrebbe essere negata se necessario,
continuando a mostrare ai nostri concittadini una bella immagine rassicurante,
così che continuino a essere orgogliosi e felici, ad applaudire le parate
militari sulla Piazza Rossa, sbalorditi dalla potenza delle nostre forze armate’.
E
in terzo luogo, perché Wagner offre un “jolly” a Vladimir Putin. Il potere di
praticare la cosiddetta “negazione plausibile” che consiste nel rifiutare
qualsiasi responsabilità per gli abusi commessi dai mercenari o per le
operazioni fallite sul campo. Un modo per poter affermare: non abbiamo nulla a
che fare con tutto questo e, se ci sono problemi con Wagner, rivolgetevi ai
suoi responsabili! Ed è qui che sta l’efficacia dello stratagemma. Wagner non
ha esistenza giuridica. È una società ombra, rispetto alla quale nessuno assume
pubblicamente la responsabilità né della gestione, né dell’operato.
Eppure, a capo di questa organizzazione ci sono due uomini. Il primo è il suo fondatore. Colui che ha dato alla struttura il suo nome sorprendente: il tenente colonnello Dmitrij Utkin, nome di battaglia: Wagner. Questo ex membro del gru, il servizio di intelligence militare russo, ha lasciato i ranghi dell’esercito nel 2013. A partire dal 2014, riunisce intorno a sé altri veterani delle forze speciali e crea un gruppo di intervento rapido per condurre operazioni mirate nella regione separatista del Donbass, in Ucraina, in guerra con le autorità filo-europee di Kiev. Questo gruppo di mercenari prenderà poi il nome del suo capo, che ha deciso di farsi chiamare Wagner in omaggio al compositore tedesco e al significato simbolico associato al suo nome.
Perché
Dmitrij Utkin è un grande ammiratore del Terzo Reich e di Adolf Hitler.
Da
europei, ci si può naturalmente domandare come un popolo, i cui genitori e
nonni hanno sconfitto i nazisti durante la Seconda guerra mondiale, possa
subire una simile fascinazione. Il fatto che degli ufficiali russi ammirino i
nazisti può sembrare paradossale. Parte della risposta risiede nell’ascesa del
paganesimo panslavo in Russia. Nelle file di Wagner, secondo Marat, il
trenta-quaranta per cento dei membri sono seguaci della Rodnoveria (“la
fede nativa”), un movimento di neopagani slavi emerso negli anni Ottanta e che,
in tema di questioni etniche, trae ispirazione dalla narrazione razzista
tedesca.
I Rodnoveri, come vengono denominati, auspicano il ritorno all’antica fede precristiana basata sull’adorazione delle forze della natura e sbandierano una volontà nazionalista di attaccamento a un suolo, la terra russa, dove il popolo russo potrebbe ritrovare i propri valori. Antisemiti e xenofobi, propugnano la purezza etnica e la segregazione razziale. Questo non significa che facciano proselitismo.
‘Gli
altri, i cristiani, i musulmani o le persone come me, non praticanti, siamo
rimasti quelli che eravamo’, dice Marat. ‘Dal punto di vista religioso, nessuno
imponeva nulla, nessuno costringeva ad adottare questa credenza’.
Resta
il fatto che alcuni Rodnoveri, come Dmitrij Utkin, hanno posizioni di estrema
destra, apertamente neonaziste. Mentre era al suo servizio, Marat dice di
avergli visto tatuati sul suo corpo un Kolovrat, una svastica slava, e delle
rune slave. In una fotografia recente, il comandante di Wagner esibisce altri
tatuaggi, tra cui una doppia Sieg Rune (simbolo della vittoria), l’emblema
delle ss naziste, tatuata in bell’evidenza sul collo. Tra i ranghi di questi
soldati di ventura, l’ideologia è ampiamente condivisa. La biblioteca virtuale
sull’iPad di un mercenario morto rinvenuto in Libia, conteneva una copia di
Mein Kampf. Sempre in Libia, tra le rovine delle case occupate dagli uomini di
Wagner sono stati trovati dei graffiti islamofobi. Il soprannome di Dmitrij
Utkin ha a sua volta ispirato un’intera area semantica. Tra loro i mercenari si
chiamano “musicisti”. Affermano, sui loro social network, di far parte di
un’“orchestra” diretta da un “compositore” che tiene “concerti” in tutto il
mondo. Un modo per dire che partecipano ai combattimenti. Nei loro video di
propaganda, in alto a destra, campeggia il ritratto del compositore tedesco.
Nel suo libro, anche Marat Gabidullin fa ricorso alla metafora musicale: Utkin diventa Beethoven, solo per confondere un po’ le tracce, pur lasciando chiaramente intendere al lettore di chi si parla. L’autore descrive un comandante temuto dai suoi “legionari”, alternativamente come visionario e “terrificante”. Dal 2014, diecimila combattenti in totale, tra cui Marat, avrebbero prestato servizio ai suoi ordini, e oggi si stima che siano attivi cinquemila mercenari del gruppo Wagner, pronti a essere proiettati, in modalità just in time, nei teatri di operazioni militari al di fuori dei confini della Russia.
L’altra
figura chiave del gruppo Wagner è Evgenij Prigožin; neanche di lui Marat parla
apertamente. Si conoscono bene, ma un contratto morale li vincola da quando
l’oligarca gli ha reso un servizio prezioso, prima che Marat lasciasse la
compagnia nel 2019.
Evgenij
Prigožin è nato il 1° giugno 1960. Come Vladimir Putin, viene da San
Pietroburgo e come lui, ha saputo approfittare del caos post-sovietico per
farsi una posizione. Ex delinquente diventato uno degli uomini più potenti
della Russia, è il tipico prodotto di questo mondo sotterraneo in cui si
incrociano membri dei servizi di sicurezza, spie, agenti segreti, mafiosi ed ex
galeotti. La galera, Prigožin la conosce bene. Nel 1981, aveva solo vent’anni
quando la giustizia dell’urss lo condannò a tredici anni di carcere per furto,
frode e sfruttamento di prostituzione minorile. Questa esperienza lo segnerà
per sempre. Quando lascia il penitenziario nove anni dopo, l’urss è
agonizzante. La “terapia d’urto” introdotta negli anni Novanta per rilanciare
l’economia russa crea opportunità per una nuova generazione di imprenditori
senza scrupoli, che non esitano a ricorrere ai sicari per eliminare la
concorrenza. Prigožin entra rapidamente in affari.
Mette le mani ovunque. Casinò, supermercati in stile occidentale... prima di lanciare una catena di hot dog, il primo fast food post-sovietico. Allo stesso tempo, apre diversi locali di lusso frequentati dall’élite politica di San Pietroburgo. Il primo, Staraja Tamožnja, o The Old Custom House, accoglie a partire dal 1996 la cerchia vicina ad Anatolij Sobčak, il sindaco della città. Ci viene regolarmente con uno dei suoi consiglieri fidati, un certo Vladimir Putin.
All’epoca,
è intorno a un’insalata di granchio della Kamchatka o a dei blinis al caviale
che vengono negoziati i grandi contratti e sigillate solide alleanze. Quando
arrivano clienti importanti, Prigožin è presente e insiste nel servirli di
persona. Un’attenzione molto apprezzata. Il successo non si fa attendere, e
sulla stessa scia Prigožin apre altri quattro locali di alto livello.
Ispirandosi ai ristoranti sulle chiatte della Senna, inaugura il New Islandnel
1998. Un anno dopo, l’imbarcazione diventa il ristorante abituale di Putin,
appena nominato presidente ad interim della Federazione Russa, nel dicembre
1999. Successivamente, nell’estate del 2001, vi festeggia il suo compleanno,
invitando ospiti illustri come Jacques Chirac. Nel maggio 2002 cena nello
stesso locale con il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush.
I piatti di Evgenij Prigožin lo porteranno lontano. Si guadagna il soprannome di “chef di Putin” e si afferma come figura chiave nei circoli del potere. La sua società di ristorazione Concord Cateringsi aggiudica molti appalti pubblici. Si occupa della gestione delle cerimonie ufficiali, fornisce i pasti alle caserme militari e si accaparra il lucrativo mercato delle mense scolastiche. Nonostante l’intossicazione alimentare che colpisce centinaia di bambini nella regione di Mosca nel 2017, Evgenij Prigožin non verrà disturbato dal sistema giudiziario. Perché Vladimir Putin lo ha reso un uomo ricco e influente. In cambio, l’oligarca svolge il lavoro sporco di cui il Cremlino ha bisogno. Colpito da sanzioni internazionali, è accusato dall’fbi di aver orchestrato la campagna di ingerenza russa nelle elezioni statunitensi del 2016. Sarebbe a capo dell’Internet Research Agency, vera e propria fabbrica di troll, fonte di manipolazione dell’opinione pubblica sui social media. La sua testa viene quotata a Washington: per la sua cattura si offrono duecentocinquantamila dollari. Nella sua condizione di “wanted”, eccelle nella disciplina del “catch me if you can”. E vince.
Nessuno
è mai riuscito ad avvistarlo, né a catturarlo.
Oggi
si dice che finanzi Wagner e che ne svolga le funzioni esecutive, con il
sostegno di alti ufficiali militari. Dal 2020, Prigožin è sottoposto anche a
sanzioni europee per il ruolo da lui svolto ‘nelle attività del gruppo Wagner
in Libia’. È accusato di mettere ‘in pericolo la pace, la stabilità e la
sicurezza nel Paese’. Nonostante si moltiplichino le prove del suo
coinvolgimento in operazioni di destabilizzazione avvenute tanto nel
cyberspazio quanto sul campo, dal Medio Oriente all’Africa, il miliardario
minimizza il suo ruolo nel dispiegamento di paramilitari in giro per il mondo e
cita in giudizio chiunque lo accusi di avere collegamenti con Wagner.
Ha organizzato le sue attività in modo tale che nessuna di esse possa essere giuridicamente collegata al suo nome. L’opacità è totale e ben organizzata. È un padrino in stile mafioso di vecchia scuola. Onnipresente ma invisibile. Onnipotente e intoccabile.
Se
l’ombra dello “chef” aleggia tra le righe del racconto di Marat, l’autore non
si dilunga mai troppo in dettagli a riguardo di questo colorito personaggio. ‘Non
parlo più di cose che non posso provare, di relazioni che posso aver avuto ma
che non sono documentate’. Questo per evitare i procedimenti legali. Per
evitare le ritorsioni che un’eccessiva franchezza gli potrebbe procurare. Messi
in sordina i protagonisti, Marat si sente più libero di far conoscere i
dettagli del suo percorso personale all’interno di Wagner, che ama definire
semplicemente la Compagnia.
La
Compagnia per la quale è andato a combattere in Ucraina e in Siria. Marat
Gabidullin ha reso buoni servigi a Wagner. Ha ricevuto numerose medaglie
conferite internamente dal gruppo, ma anche onorificenze ufficiali dello Stato
russo per le sue imprese militari. Gli vengono sempre consegnate in segreto.
Riconoscimenti in nome dei quali ha dovuto costantemente mentire. Mentire per
anni sulla natura delle sue missioni, sui luoghi dove ha militato, sugli uomini
che ha incontrato. Mentire per continuare a restare e a esistere all’interno di
un’organizzazione che ha fatto brillare gli occhi a uomini scartati, senza
prospettive, per poi trasformarli in carne da cannone. Cartucce sprecate al
servizio delle ambizioni geopolitiche del Cremlino. Uomini a cui Marat vuole
adesso rendere omaggio, sottraendoli alla clandestinità. Alcuni sono “eroi”,
sostiene. Bravi ragazzi a tutti gli effetti che meritano la verità e la fine
dell’omertà che circonda questa forza armata segreta. La verità. Una parola
molto impegnativa. La ragion d’essere di questa narrazione in prima persona.
Militare di carriera, Marat ha trascorso dieci anni nelle truppe aeree russe. Nel 1993, due anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica, sbatte la porta della caserma con il grado di luogotenente principale per cimentarsi negli affari. Il capitalismo selvaggio aveva appena fatto il suo ingresso trionfale nel Paese e tutti volevano la loro fetta di torta. Militari inclusi. Ma in mancanza di grandi fortune, Marat decide di dedicarsi ai pezzi grossi. Diventa l’uomo armato di un boss della malavita locale siberiana e finisce per uccidere una persona a sangue freddo. La sua vittima è un mafioso del clan rivale, che ‘se l’è meritato’. Dopo tre anni di prigione e qualche anno di disoccupazione e di depressione, sprofonda nell’alcol, inanella una serie di lavori saltuari come addetto alla sicurezza o guardia del corpo. Soprattutto, si rende conto che gli sarà impossibile tornare indietro e ricongiungersi alle forze armate regolari.
Mentre
il suo mondo crolla, incappa in un amico di lunga data, il quale gli parla di
una nuova compagnia militare privata che non va troppo per il sottile riguardo
ai trascorsi delle sue reclute. Nei suoi ranghi, ex carcerati e criminali
comuni sono i benvenuti, a condizione che abbiano una qualche esperienza e
sappiano come si maneggiano le armi. Marat non sogna altro che combattere e
senza pensarci due volte si presenta al centro di reclutamento di Mol’kino,
vicino a Krasnodar, nel sud della Russia. ‘Eravamo in tanti’, ricorda. ‘Ma non
posso fornire informazioni circostanziate sulle esatte coordinate geografiche o
sul numero di uomini presenti. Tutto questo potrebbe ritorcersi contro di me.
‘Potrei
essere accusato di aver divulgato dei segreti militari’.
Marat si mantiene cauto. Perché Mol’kino è la prova dell’interoperabilità tra Wagner e le autorità russe. Questa base militare creata per ospitare i soldati di ventura si trova poco lontano da un centro di addestramento e da una caserma del gru, il servizio di intelligence militare dell’esercito regolare. Un’area in cui le armi utilizzate per l’addestramento sono le stesse di quelle dell’esercito, dove nulla accade senza l’approvazione del ministero della Difesa.
Marat
preferisce quindi rimanere vago su tutto ciò che potrebbe essere considerato la
rivelazione di un segreto di Stato. Si tratta di una necessaria misura
precauzionale, non di un atteggiamento approssimativo da parte dell’autore.
Scorrendo queste pagine, non si dovrebbe mai trascurare il fatto che Gabidullin
è il primo mercenario di Wagner a portare una testimonianza aperta, senza la
protezione dell’anonimato. Misura attentamente i rischi implicati dalle sue
rivelazioni. Al di là di possibili procedimenti giudiziari, quello che rischia
è semplicemente la pelle. Questo è anche il motivo per cui, nel suo libro, ‘è
tutto vero, tranne i nomi’ dei combattenti. Per proteggerli meglio, l’autore fa
riferimento a loro solo attraverso pozyvnye, soprannomi di guerra di sua
invenzione. Nella sua storia, incontriamo Volk (il Lupo), Čub(ilCiuffo) o
Ratnik (il Guerriero). Gladiatori dei tempi moderni, personaggi pittoreschi,
allo stesso tempo eroici, tremendamente violenti e depressi, che compongono i
ranghi eterogenei di un nuovo tipo di esercito ombra.
Il suo nome di battaglia è Ded (il Nonno, il Paparino). Un soprannome scelto dai suoi colleghi. Trova che gli si addica. Al momento del suo ingaggio nelle file di Wagner, Marat ha quarantotto anni. Con il suo pizzetto ingrigito, è il più anziano della squadra. Nel 2015, è uno dei primi quattrocento elementi assoldati. Il suo numero di matricola è M-0346. In quel periodo la selezione è rigorosa, ma lui supera a pieni voti i colloqui e le prove fisiche. Gli vengono esposti gli obiettivi di Wagner: la sua missione sarà quella di difendere e promuovere gli interessi della Russia partecipando a conflitti armati. Viene immediatamente sedotto da questa dimensione patriottica, ma l’argomento più forte è un altro. In un Paese in cui lo stipendio medio non supera i quattrocento euro, il gruppo Wagner promette guadagni interessanti. Per Marat «una delle motivazioni principali era ovviamente il denaro.
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