MISTICISMO

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NABHA, BHA!, NA... (nè?!)...

martedì 28 marzo 2023

DAL FRONTE CALDO, ovvero, BREVE STORIA DI UN MERCENARIO

 











Prefazione: di Ksenia Bolchakova e Alexandra Jousset 

 

Marat Gabidullin non è un pentito.

 

Non è un delatore, dilaniato dalla propria coscienza, che un giorno ha deciso di rivoltarsi contro l’organizzazione di cui faceva parte e di denunciarla.

 

No.

 

Marat è un soldato.

 

Un semplice soldato in mezzo ad altri beni di consumo. Un homo sovieticus che si porta nelle viscere tutte le forme di schizofrenia che albergano nell’uomo russo contemporaneo. Orgoglioso di aver fatto parte delle forze aeree dell’esercito regolare del suo Paese. Orgoglioso di aver combattuto l’Isis in Siria come mercenario del gruppo Wagner. D’altra parte Marat gongola quando racconta di avere partecipato all’operazione che ha permesso di riconquistare Palmira sottraendola agli islamisti. Palmira, fantasia di tutti coloro che sognano di lontane civiltà millenarie. Eppure, Marat è a disagio nell’ammettere di aver servito un esercito ombra illegale, oggi sotto i riflettori, ossia il gruppo Wagner, accusato di aver commesso i peggiori abusi, stupri, torture e omicidi contro le popolazioni civili nei Paesi in cui è sceso in campo.

 

Dall’Ucraina alla Siria. Dalla Libia alla Repubblica Centrafricana. E ora in Mali.




Leggendo questo libro, non ci si devono aspettare ammissioni di colpa. Questo racconto nasce dalle contraddizioni che ossessionano il suo autore. È una storia profondamente russa, la storia di una rottura e di una redenzione. L’avventura di un soldato di ventura al servizio di un esercito che ufficialmente non esiste.

 

È per esistere che Marat ha deciso di scrivere. Cristallizzando i fatti. Inscrivendo nel marmo la sua storia e quella dei suoi fratelli in armi. Una storia finora soppressa dalle autorità del suo Paese. Perché secondo il Cremlino, il gruppo Wagner non esiste. Questa forza armata che si schiera ai quattro angoli del mondo, seguendo la mappa degli interessi del regime russo, sarebbe, nella versione ufficiale, una fantasia dei detrattori di quello stesso regime. Occidentali in testa. Interrogato in numerose occasioni sulla questione, Vladimir Putin ha sempre rifiutato di ammettere il ricorso a mercenari nelle zone di conflitto e ha sistematicamente negato qualsiasi legame tra il Cremlino e la compagnia militare privata.




In primo luogo, perché il mercenarismo è un’attività ufficialmente illegale in questo Paese, punibile ai sensi dell’articolo 348 del Codice Penale con la reclusione fino a otto anni. In secondo luogo, perché il presidente russo ha il suo tornaconto in questo silenzio complice. L’invio di mercenari consente allo Stato di risparmiare sulle pensioni e sugli stipendi pagati ai soldati dell’esercito regolare. Permette anche di occultare i propri morti.

 

Marat spiega: ‘I nostri generali stavano incominciando a preoccuparsi delle possibili perdite. I nostri compatrioti, dal canto loro, non volevano concepire la guerra come un fenomeno che può provocare dei morti. Bisognava trovare un compromesso. Un compromesso possibile è quello di chiamare in causa una struttura parallela, la cui partecipazione al combattimento potrebbe essere negata se necessario, continuando a mostrare ai nostri concittadini una bella immagine rassicurante, così che continuino a essere orgogliosi e felici, ad applaudire le parate militari sulla Piazza Rossa, sbalorditi dalla potenza delle nostre forze armate’.

 

E in terzo luogo, perché Wagner offre un “jolly” a Vladimir Putin. Il potere di praticare la cosiddetta “negazione plausibile” che consiste nel rifiutare qualsiasi responsabilità per gli abusi commessi dai mercenari o per le operazioni fallite sul campo. Un modo per poter affermare: non abbiamo nulla a che fare con tutto questo e, se ci sono problemi con Wagner, rivolgetevi ai suoi responsabili! Ed è qui che sta l’efficacia dello stratagemma. Wagner non ha esistenza giuridica. È una società ombra, rispetto alla quale nessuno assume pubblicamente la responsabilità né della gestione, né dell’operato.




Eppure, a capo di questa organizzazione ci sono due uomini. Il primo è il suo fondatore. Colui che ha dato alla struttura il suo nome sorprendente: il tenente colonnello Dmitrij Utkin, nome di battaglia: Wagner. Questo ex membro del gru, il servizio di intelligence militare russo, ha lasciato i ranghi dell’esercito nel 2013. A partire dal 2014, riunisce intorno a sé altri veterani delle forze speciali e crea un gruppo di intervento rapido per condurre operazioni mirate nella regione separatista del Donbass, in Ucraina, in guerra con le autorità filo-europee di Kiev. Questo gruppo di mercenari prenderà poi il nome del suo capo, che ha deciso di farsi chiamare Wagner in omaggio al compositore tedesco e al significato simbolico associato al suo nome.

 

Perché Dmitrij Utkin è un grande ammiratore del Terzo Reich e di Adolf Hitler.

 

Da europei, ci si può naturalmente domandare come un popolo, i cui genitori e nonni hanno sconfitto i nazisti durante la Seconda guerra mondiale, possa subire una simile fascinazione. Il fatto che degli ufficiali russi ammirino i nazisti può sembrare paradossale. Parte della risposta risiede nell’ascesa del paganesimo panslavo in Russia. Nelle file di Wagner, secondo Marat, il trenta-quaranta per cento dei membri sono seguaci della Rodnoveria (“la fede nativa”), un movimento di neopagani slavi emerso negli anni Ottanta e che, in tema di questioni etniche, trae ispirazione dalla narrazione razzista tedesca.




I Rodnoveri, come vengono denominati, auspicano il ritorno all’antica fede precristiana basata sull’adorazione delle forze della natura e sbandierano una volontà nazionalista di attaccamento a un suolo, la terra russa, dove il popolo russo potrebbe ritrovare i propri valori. Antisemiti e xenofobi, propugnano la purezza etnica e la segregazione razziale. Questo non significa che facciano proselitismo.

 

‘Gli altri, i cristiani, i musulmani o le persone come me, non praticanti, siamo rimasti quelli che eravamo’, dice Marat. ‘Dal punto di vista religioso, nessuno imponeva nulla, nessuno costringeva ad adottare questa credenza’.

 

Resta il fatto che alcuni Rodnoveri, come Dmitrij Utkin, hanno posizioni di estrema destra, apertamente neonaziste. Mentre era al suo servizio, Marat dice di avergli visto tatuati sul suo corpo un Kolovrat, una svastica slava, e delle rune slave. In una fotografia recente, il comandante di Wagner esibisce altri tatuaggi, tra cui una doppia Sieg Rune (simbolo della vittoria), l’emblema delle ss naziste, tatuata in bell’evidenza sul collo. Tra i ranghi di questi soldati di ventura, l’ideologia è ampiamente condivisa. La biblioteca virtuale sull’iPad di un mercenario morto rinvenuto in Libia, conteneva una copia di Mein Kampf. Sempre in Libia, tra le rovine delle case occupate dagli uomini di Wagner sono stati trovati dei graffiti islamofobi. Il soprannome di Dmitrij Utkin ha a sua volta ispirato un’intera area semantica. Tra loro i mercenari si chiamano “musicisti”. Affermano, sui loro social network, di far parte di un’“orchestra” diretta da un “compositore” che tiene “concerti” in tutto il mondo. Un modo per dire che partecipano ai combattimenti. Nei loro video di propaganda, in alto a destra, campeggia il ritratto del compositore tedesco.




Nel suo libro, anche Marat Gabidullin fa ricorso alla metafora musicale: Utkin diventa Beethoven, solo per confondere un po’ le tracce, pur lasciando chiaramente intendere al lettore di chi si parla. L’autore descrive un comandante temuto dai suoi “legionari”, alternativamente come visionario e “terrificante”. Dal 2014, diecimila combattenti in totale, tra cui Marat, avrebbero prestato servizio ai suoi ordini, e oggi si stima che siano attivi cinquemila mercenari del gruppo Wagner, pronti a essere proiettati, in modalità just in time, nei teatri di operazioni militari al di fuori dei confini della Russia.

 

L’altra figura chiave del gruppo Wagner è Evgenij Prigožin; neanche di lui Marat parla apertamente. Si conoscono bene, ma un contratto morale li vincola da quando l’oligarca gli ha reso un servizio prezioso, prima che Marat lasciasse la compagnia nel 2019.

 

Evgenij Prigožin è nato il 1° giugno 1960. Come Vladimir Putin, viene da San Pietroburgo e come lui, ha saputo approfittare del caos post-sovietico per farsi una posizione. Ex delinquente diventato uno degli uomini più potenti della Russia, è il tipico prodotto di questo mondo sotterraneo in cui si incrociano membri dei servizi di sicurezza, spie, agenti segreti, mafiosi ed ex galeotti. La galera, Prigožin la conosce bene. Nel 1981, aveva solo vent’anni quando la giustizia dell’urss lo condannò a tredici anni di carcere per furto, frode e sfruttamento di prostituzione minorile. Questa esperienza lo segnerà per sempre. Quando lascia il penitenziario nove anni dopo, l’urss è agonizzante. La “terapia d’urto” introdotta negli anni Novanta per rilanciare l’economia russa crea opportunità per una nuova generazione di imprenditori senza scrupoli, che non esitano a ricorrere ai sicari per eliminare la concorrenza. Prigožin entra rapidamente in affari.




Mette le mani ovunque. Casinò, supermercati in stile occidentale... prima di lanciare una catena di hot dog, il primo fast food post-sovietico. Allo stesso tempo, apre diversi locali di lusso frequentati dall’élite politica di San Pietroburgo. Il primo, Staraja Tamožnja, o The Old Custom House, accoglie a partire dal 1996 la cerchia vicina ad Anatolij Sobčak, il sindaco della città. Ci viene regolarmente con uno dei suoi consiglieri fidati, un certo Vladimir Putin.

 

All’epoca, è intorno a un’insalata di granchio della Kamchatka o a dei blinis al caviale che vengono negoziati i grandi contratti e sigillate solide alleanze. Quando arrivano clienti importanti, Prigožin è presente e insiste nel servirli di persona. Un’attenzione molto apprezzata. Il successo non si fa attendere, e sulla stessa scia Prigožin apre altri quattro locali di alto livello. Ispirandosi ai ristoranti sulle chiatte della Senna, inaugura il New Islandnel 1998. Un anno dopo, l’imbarcazione diventa il ristorante abituale di Putin, appena nominato presidente ad interim della Federazione Russa, nel dicembre 1999. Successivamente, nell’estate del 2001, vi festeggia il suo compleanno, invitando ospiti illustri come Jacques Chirac. Nel maggio 2002 cena nello stesso locale con il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush.




I piatti di Evgenij Prigožin lo porteranno lontano. Si guadagna il soprannome di “chef di Putin” e si afferma come figura chiave nei circoli del potere. La sua società di ristorazione Concord Cateringsi aggiudica molti appalti pubblici. Si occupa della gestione delle cerimonie ufficiali, fornisce i pasti alle caserme militari e si accaparra il lucrativo mercato delle mense scolastiche. Nonostante l’intossicazione alimentare che colpisce centinaia di bambini nella regione di Mosca nel 2017, Evgenij Prigožin non verrà disturbato dal sistema giudiziario. Perché Vladimir Putin lo ha reso un uomo ricco e influente. In cambio, l’oligarca svolge il lavoro sporco di cui il Cremlino ha bisogno. Colpito da sanzioni internazionali, è accusato dall’fbi di aver orchestrato la campagna di ingerenza russa nelle elezioni statunitensi del 2016. Sarebbe a capo dell’Internet Research Agency, vera e propria fabbrica di troll, fonte di manipolazione dell’opinione pubblica sui social media. La sua testa viene quotata a Washington: per la sua cattura si offrono duecentocinquantamila dollari. Nella sua condizione di “wanted”, eccelle nella disciplina del “catch me if you can”. E vince.

 

Nessuno è mai riuscito ad avvistarlo, né a catturarlo.

 

Oggi si dice che finanzi Wagner e che ne svolga le funzioni esecutive, con il sostegno di alti ufficiali militari. Dal 2020, Prigožin è sottoposto anche a sanzioni europee per il ruolo da lui svolto ‘nelle attività del gruppo Wagner in Libia’. È accusato di mettere ‘in pericolo la pace, la stabilità e la sicurezza nel Paese’. Nonostante si moltiplichino le prove del suo coinvolgimento in operazioni di destabilizzazione avvenute tanto nel cyberspazio quanto sul campo, dal Medio Oriente all’Africa, il miliardario minimizza il suo ruolo nel dispiegamento di paramilitari in giro per il mondo e cita in giudizio chiunque lo accusi di avere collegamenti con Wagner.




Ha organizzato le sue attività in modo tale che nessuna di esse possa essere giuridicamente collegata al suo nome. L’opacità è totale e ben organizzata. È un padrino in stile mafioso di vecchia scuola. Onnipresente ma invisibile. Onnipotente e intoccabile.

 

Se l’ombra dello “chef” aleggia tra le righe del racconto di Marat, l’autore non si dilunga mai troppo in dettagli a riguardo di questo colorito personaggio. ‘Non parlo più di cose che non posso provare, di relazioni che posso aver avuto ma che non sono documentate’. Questo per evitare i procedimenti legali. Per evitare le ritorsioni che un’eccessiva franchezza gli potrebbe procurare. Messi in sordina i protagonisti, Marat si sente più libero di far conoscere i dettagli del suo percorso personale all’interno di Wagner, che ama definire semplicemente la Compagnia.

 

La Compagnia per la quale è andato a combattere in Ucraina e in Siria. Marat Gabidullin ha reso buoni servigi a Wagner. Ha ricevuto numerose medaglie conferite internamente dal gruppo, ma anche onorificenze ufficiali dello Stato russo per le sue imprese militari. Gli vengono sempre consegnate in segreto. Riconoscimenti in nome dei quali ha dovuto costantemente mentire. Mentire per anni sulla natura delle sue missioni, sui luoghi dove ha militato, sugli uomini che ha incontrato. Mentire per continuare a restare e a esistere all’interno di un’organizzazione che ha fatto brillare gli occhi a uomini scartati, senza prospettive, per poi trasformarli in carne da cannone. Cartucce sprecate al servizio delle ambizioni geopolitiche del Cremlino. Uomini a cui Marat vuole adesso rendere omaggio, sottraendoli alla clandestinità. Alcuni sono “eroi”, sostiene. Bravi ragazzi a tutti gli effetti che meritano la verità e la fine dell’omertà che circonda questa forza armata segreta. La verità. Una parola molto impegnativa. La ragion d’essere di questa narrazione in prima persona.




Militare di carriera, Marat ha trascorso dieci anni nelle truppe aeree russe. Nel 1993, due anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica, sbatte la porta della caserma con il grado di luogotenente principale per cimentarsi negli affari. Il capitalismo selvaggio aveva appena fatto il suo ingresso trionfale nel Paese e tutti volevano la loro fetta di torta. Militari inclusi. Ma in mancanza di grandi fortune, Marat decide di dedicarsi ai pezzi grossi. Diventa l’uomo armato di un boss della malavita locale siberiana e finisce per uccidere una persona a sangue freddo. La sua vittima è un mafioso del clan rivale, che ‘se l’è meritato’. Dopo tre anni di prigione e qualche anno di disoccupazione e di depressione, sprofonda nell’alcol, inanella una serie di lavori saltuari come addetto alla sicurezza o guardia del corpo. Soprattutto, si rende conto che gli sarà impossibile tornare indietro e ricongiungersi alle forze armate regolari.

 

Mentre il suo mondo crolla, incappa in un amico di lunga data, il quale gli parla di una nuova compagnia militare privata che non va troppo per il sottile riguardo ai trascorsi delle sue reclute. Nei suoi ranghi, ex carcerati e criminali comuni sono i benvenuti, a condizione che abbiano una qualche esperienza e sappiano come si maneggiano le armi. Marat non sogna altro che combattere e senza pensarci due volte si presenta al centro di reclutamento di Mol’kino, vicino a Krasnodar, nel sud della Russia. ‘Eravamo in tanti’, ricorda. ‘Ma non posso fornire informazioni circostanziate sulle esatte coordinate geografiche o sul numero di uomini presenti. Tutto questo potrebbe ritorcersi contro di me.

 

‘Potrei essere accusato di aver divulgato dei segreti militari’.




Marat si mantiene cauto. Perché Mol’kino è la prova dell’interoperabilità tra Wagner e le autorità russe. Questa base militare creata per ospitare i soldati di ventura si trova poco lontano da un centro di addestramento e da una caserma del gru, il servizio di intelligence militare dell’esercito regolare. Un’area in cui le armi utilizzate per l’addestramento sono le stesse di quelle dell’esercito, dove nulla accade senza l’approvazione del ministero della Difesa.

 

Marat preferisce quindi rimanere vago su tutto ciò che potrebbe essere considerato la rivelazione di un segreto di Stato. Si tratta di una necessaria misura precauzionale, non di un atteggiamento approssimativo da parte dell’autore. Scorrendo queste pagine, non si dovrebbe mai trascurare il fatto che Gabidullin è il primo mercenario di Wagner a portare una testimonianza aperta, senza la protezione dell’anonimato. Misura attentamente i rischi implicati dalle sue rivelazioni. Al di là di possibili procedimenti giudiziari, quello che rischia è semplicemente la pelle. Questo è anche il motivo per cui, nel suo libro, ‘è tutto vero, tranne i nomi’ dei combattenti. Per proteggerli meglio, l’autore fa riferimento a loro solo attraverso pozyvnye, soprannomi di guerra di sua invenzione. Nella sua storia, incontriamo Volk (il Lupo), Čub(ilCiuffo) o Ratnik (il Guerriero). Gladiatori dei tempi moderni, personaggi pittoreschi, allo stesso tempo eroici, tremendamente violenti e depressi, che compongono i ranghi eterogenei di un nuovo tipo di esercito ombra.




Il suo nome di battaglia è Ded (il Nonno, il Paparino). Un soprannome scelto dai suoi colleghi. Trova che gli si addica. Al momento del suo ingaggio nelle file di Wagner, Marat ha quarantotto anni. Con il suo pizzetto ingrigito, è il più anziano della squadra. Nel 2015, è uno dei primi quattrocento elementi assoldati. Il suo numero di matricola è M-0346. In quel periodo la selezione è rigorosa, ma lui supera a pieni voti i colloqui e le prove fisiche. Gli vengono esposti gli obiettivi di Wagner: la sua missione sarà quella di difendere e promuovere gli interessi della Russia partecipando a conflitti armati. Viene immediatamente sedotto da questa dimensione patriottica, ma l’argomento più forte è un altro. In un Paese in cui lo stipendio medio non supera i quattrocento euro, il gruppo Wagner promette guadagni interessanti. Per Marat «una delle motivazioni principali era ovviamente il denaro.


[PROSEGUE CON LA RECENSIONE DEL.... LIBRO CONSIGLIATO]








 

sabato 25 marzo 2023

IL RACCONTO DELLA DOMENICA, ovvero, quando andavamo in Ape & in Vespa (e ci torneremo!)










Precedenti capitoli 


di Domenica


Prosegue....: 


nell'hora legale 


della Classe Energetica







La Vespa. Chi non conosce il mitico scooter Piaggio dalla forma curvilinea e dalle piccole ruote cicciottelle?

 

Meno nota però è la storia di colui che la volle fortissimamente, l’industriale Enrico Piaggio, volitivo e originale, moderno e curioso come la sua creatura.

 

Enrico Piaggio apparteneva a una delle grandi famiglie che costruirono, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, i pilastri dell’industria dell’Italia unita. I Pirelli, gli Agnelli, i Perrone, i Falk e con loro i Piaggio, gli Orlando, i Florio segnarono nettamente il passaggio dall’agricoltura all’industria di un Paese in cui scarseggiavano i capitali, le materie prime dovevano essere quasi tutte importate e il territorio era (ed è) prevalentemente montuoso – fatto questo, che costituiva un serio ostacolo alla facilità delle comunicazioni.

 

L’altra faccia della medaglia però fu la tenace volontà degli industriali italiani di vincere una sfida oggettivamente difficile ma forse, proprio per questo, particolarmente avvincente: fu una tenacia che portò alla nascita di aziende capaci di creare gli oggetti icona di quello che sarebbe presto diventato noto come il made in Italy.




Nonostante due guerre mondiali, le distruzioni causate dagli eventi bellici, l’occupazione da rapina delle forze armate di altri Paesi, la devastazione delle fabbriche di cui restarono spesso solo poche mura annerite dalle bombe, negli anni Cinquanta e Sessanta ottimismo, amore per la bellezza e fiducia nella possibilità di uscire dal provincialismo ottuso in cui precedenti governi avevano costretto il Paese indussero i creativi italiani a dare il meglio di sé: fu il tanto celebrato miracolo economico italiano, che poi non aveva niente di miracoloso ed era solo il ritorno a un’esistenza “normale” da parte di un grande Paese europeo.

 

I Piaggio – come gli Agnelli e come tanti altri che diedero vita a nuove iniziative industriali – si inserirono abilmente in questa scia. Enrico Piaggio ebbe il merito di capire che l’Italia e l’Europa erano desiderose di lasciarsi alle spalle dolorosi e purtroppo freschissimi ricordi di privazioni, lutti, dolori per adottare uno stile di vita ottimista e sorridente, che prevedeva appuntamenti galanti, gite al mare, domeniche al ristorante e – perché no – pettinature ed abiti che mettessero in evidenza corpi snelli e seduttivi. Di questo nuovo mondo, che dopo tanta morte sceglieva la vita, Enrico Piaggio intravide i tratti e interpretò i sogni, creando un oggetto simbolo capace di incarnare con coerenza plastica l’immaginario di un popolo e di incidere sul costume: non fu certamente poca cosa.




Per inquadrare storicamente la realtà produttiva della Piaggio, e comprenderne il ruolo nel panorama delle aziende del suo tempo, è necessario considerare la sua collocazione nell’arco di tempo compreso tra l’avvenuta unità risorgimentale del nostro paese e il boom economico degli anni Sessanta e Settanta. In soli cento anni la storia europea e quella italiana vedranno succedersi una serie di eventi cruciali: la seconda rivoluzione industriale, la Prima guerra mondiale e il ventennio fascista, la Seconda guerra mondiale e la nascita della Repubblica, nonché un lungo periodo di pace che costituiva una indiscutibile novità nelle vicende dei Paesi occidentali.

 

Nel 1884, quando l’avventura dei Piaggio ebbe inizio, Re d’Italia era Umberto I di Savoia e Presidente del Consiglio Agostino Depretis, esponente della Sinistra storica.

 

Il 29 luglio 1900, Re Umberto I moriva a Monza vittima di un attentato. Gli succedeva Vittorio Emanuele III.




La crescita economica e industriale delle aziende di Rinaldo Piaggio coincise con il ciclo storico dei Savoia, e fu una crescita che non conobbe interruzioni malgrado le tre grandi crisi economiche che colpirono sia gli Stati Uniti che l’Europa: la grande depressione del 1873, il panico del 1907 e il noto crollo di Wall Street del 1929. Queste crisi, sebbene in Italia avessero prodotto effetti modesti – non paragonabili a quelli subiti dai Paesi maggiormente industrializzati – provocarono comunque l’adozione di una politica protezionistica che limitò le importazioni e favorì il commercio interno, mediante l’introduzione di dazi doganali e aiuti di Stato al settore industriale.

 

Fu proprio grazie agli incentivi statali e al protezionismo che, nel 1884 appunto, nacque il primo impianto siderurgico di livello nazionale: la Società degli altiforni, fonderie e acciaierie di Terni per la fabbricazione di corazze per navi da guerra.

 

Anche la nascente industria meccanica decollò del resto con l’aiuto dello Stato: la Breda (Società Italiana Ernesto Breda per Costruzioni Meccaniche), fondata da Ernesto Breda nel 1886, fu attiva inizialmente per la costruzione prima di locomotive e, successivamente, per la fabbricazione di proiettili, macchine agricole e vetture tranviarie. Ma il suo fatturato e il volume d’affari crebbero rapidamente grazie alle commesse statali.




La produzione industriale si ampliò progressivamente, con il concomitante sviluppo dell’industria di base. Risale a quel periodo il decollo di piccole industrie – soprattutto del settore alimentare, destinato a raccogliere l’eredità di un mondo agricolo in via di scomparsa – che cresceranno e diventeranno note in tutto il mondo: Galbani (1896), Cirio (1885), Barilla (1877), Pirelli (1872), Perugina (1907).

 

Tale sviluppo avvenne in un contesto politico molto debole, tutto incentrato sul ruolo del re e di una ristretta cerchia di uomini politici conservatori i quali dal re traevano i loro poteri.

 

All’indomani dell’Unità d’Italia, i membri della Camera erano infatti eletti da un corpo elettorale costituito da solo il 2,2% della popolazione: costoro erano individuati in base a uno specifico livello di istruzione e al censo. Quanto ai senatori, erano nominati direttamente dal Re.




Dopo la fine della Seconda guerra mondiale l’industria italiana era in una grande situazione di crisi. I bombardamenti alleati avevano distrutto o seriamente danneggiato molti stabilimenti nelle regioni settentrionali, spesso spogliati dei loro macchinari trasferiti in Germania dalle truppe tedesche; a ciò è da aggiungersi che le imprese che avevano fino a quel momento lavorato per le esigenze belliche – come quella aeronautica e quella degli armamenti – le quali costituivano un’importante componente del sistema industriale, rimaste prive delle commesse statali e dei relativi finanziamenti entrarono in crisi. Per riavviare il processo produttivo – e con esso le attività industriali collegate – occorreva denaro: era necessario non solo per ricostruire gli stabilimenti, ma anche per dotarli di apparecchiature moderne tali da garantire la competitività di una produzione che non avrebbe più potuto avvantaggiarsi della politica autarchica fascista, con il blocco delle importazioni.

 

Era una difficoltà seria per un Paese come l’Italia, da sempre povero di capitali di investimento, cui faceva riscontro l’abbondanza di manodopera a basso salario.




 Una spinta alla ripresa venne dal denaro del piano Marshall, così chiamato dal nome del Sottosegretario di Stato degli Stati Uniti d’America George Marshall che ne curò l’attuazione. Il piano, in base al quale l’Italia ricevette 1.470.000 dollari – una cifra enorme per quel tempo – era molto semplice: gli Stati Unti cedevano ai Paesi europei feriti dalla guerra beni di cui disponevano in eccedenza, e i singoli Stati provvedevano alla loro vendita destinando il ricavato a fini economico-sociali da concordare con il Governo statunitense.




Affluirono così sul mercato dei notevoli capitali, somme di cui approfittarono soprattutto l’industria metalmeccanica – in primo luogo la Fiat – e quella siderurgica, fatto che costituiva la premessa per riavviare la produzione un po’ in tutti i settori.

 

Fiat e Olivetti furono tra le prime grandi industrie ad affrontare il processo di riorganizzazione produttiva con l’occhio rivolto ai mercati internazionali, mentre si sviluppavano rapidamente le industrie di cui lo Stato deteneva l’intero capitale sociale o perlomeno la maggior parte di esso. L’ENI (Ente nazionale idrocarburi) nata dalle ceneri della vecchia AGIP (Azienda generale italiana petroli) acquistò rapidamente una solida posizione non solo nel settore degli idrocarburi ma anche in quello industriale, attraverso la miriade di aziende metalmeccaniche di cui acquisì via via la proprietà. Notevole fu anche la ripresa delle industrie tessili: la Cantoni, la De Angeli-Frua, la Snia Viscosa, che produceva una materia ottenuta per sintesi chimica destinata a molteplici usi servendosi di un brevetto esclusivo italiano.




L’industria elettrica si andò riorganizzando per far fronte a una crescente domanda di energia mentre l’industria chimica, che aveva un caposaldo nella Montecatini, una grande impresa con molte ramificazioni, rimise rapidamente in sesto i suoi impianti e attrezzature così come fece la Pirelli nel settore delle gomme – un settore divenuto di grande importanza a seguito dello sviluppo del comparto automobilistico, con la conseguente crescita della domanda di pneumatici.




Al tempo stesso alcune industrie, più direttamente collegate agli armamenti come le aziende aeronautiche (Caproni, Piaggio) non riuscirono a riacquistare le antiche posizioni nel mercato interno e internazionale che avevano avuto all’inizio degli anni Quaranta, anche in conseguenza del trattato di pace che poneva precisi limiti alla disponibilità delle Forze armate italiane a proposito di aerei e navi da guerra.

 

Tra gli effetti della ripresa vi fu anche la spesso tumultuosa espansione dei centri industriali nelle regioni settentrionali, con l’afflusso di un gran numero di lavoratori dalle regioni meridionali. Le grandi città del Nord Italia – come Milano, Torino e alcune città del Veneto – ebbero una grande espansione territoriale che varcò presto il confine delle antiche periferie coinvolgendo anche i piccoli borghi vicini: quello edilizio fu forse il settore industriale che crebbe maggiormente, e con esso le industrie collegate, in particolare in quella estrattiva e quella delle macchine da cantiere.




 Si fece sentire sempre più la necessità degli spostamenti nel territorio, il bisogno di nuove strade, di nuovi collegamenti su rotaia a breve e media distanza; ma crebbe anche, in parallelo, la necessità di disporre di propri mezzi di locomozione: la Fiat, la Lancia, l’Alfa Romeo conobbero in quegli anni il loro periodo di massimo sviluppo.

 

L’automobile fronteggiava solo in parte questa crescente domanda di mobilità, per i costi elevati di acquisto e le spese ingenti d’uso: aumentò dunque la richiesta di veicoli a basso costo, che all’inizio furono biciclette dotate di un piccolo motore ausiliario (il Cucciolo, il Mosquito) e poi moto di piccola cilindrata, il cui motore era privo di qualunque copertura per garantirne il raffreddamento. Mancava un veicolo a due ruote che consentisse di viaggiare con la stessa comodità di chi è seduto in un’automobile: fu l’intuizione di Enrico Piaggio.




 L’MP5 non piacque ad Enrico Piaggio: lo trovò un progetto vecchio, una realizzazione già vista, una motocicletta ricoperta dalla carrozzeria e di scomodo utilizzo. Piaggio, in realtà, non sapeva esattamente quale veicolo produrre, ma percepiva che la gente aveva voglia di muoversi, aveva pochi soldi da spendere e desiderava possedere oggetti il cui aspetto, quello che solo in seguito sarebbe stato denominato design, fosse il più possibile lontano dall’aggressività anche estetica dei mezzi da combattimento che avevano funestato le giornate di tanti anni di guerra.

 

Nel febbraio 1946 i problemi furono superati, tant’è che dopo il collaudo positivo dei sei primi prototipi fu avviato il progetto definitivo per la produzione in serie. La mancanza di presse adeguate, tuttavia, non consentì di provvedere allo stampaggio della scocca in stabilimento, costringendo Piaggio ad affidarsi a ditte esterne. In attesa di trovare una soluzione, fu avviata a Pontedera la costruzione di un primo lotto di Vespa, definito “Serie Zero”: si trattò di una partita di esemplari costruiti con tecniche artigianali, la cui scocca venne ottenuta mediante ribattitura manuale. Il lotto doveva essere di sole venti unità ma, a causa del ritardo nell’individuare la ditta esterna adatta allo stampaggio, si ampliò a circa sessanta esemplari.




La “98” (Vespa V98) fu presentata alla Mostra della Meccanica e della Metallurgia di Torino il 24 marzo 1946, e in quell’occasione lo scooter fu provato su strada. Pochi giorni dopo, il 29 marzo del 1946, venne presentata ufficialmente al circolo del Golf dell’Acquasanta di Roma, alla presenza della stampa e delle autorità. A novembre del 1946 fu esposta al Salone del Ciclo e del Motociclo di Milano, dove fu benedetta dal cardinale Schuster, arcivescovo del capoluogo lombardo.

 

Il 23 aprile 1946 fu depositato presso l’Ufficio brevetti di Firenze il “Modello di Utilità n° 25.546 per una Motocicletta a complesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica”.

 

Era nata la Vespa. Sempre ad aprile fu siglato l’accordo con l’Alfa Romeo per la fornitura delle scocche stampate che, assemblate in azienda, consentì la produzione in serie del motociclo.




La Vespa V98, la cosiddetta “Farobasso”, fu la prima Vespa prodotta dalla Piaggio. Era equipaggiata con un motore 98cc monocilindrico ed era in grado di raggiungere una velocità massima di 60 km l’ora.

 

Sull’origine del nome dello scooter della Piaggio circolano due leggende. Una di esse vuole che Enrico Piaggio, alla vista del primo esemplare progettato da Corradino D’Ascanio, puntasse l’attenzione sulla parte centrale del veicolo, dalla curvatura molto ampia, e poi su quella che sembrava una bella vita stretta. Un vitino da vespa, appunto: «Ma è una vespa!», avrebbe esclamato.




L’altra versione, a lungo sopravvissuta, riferisce che il termine “Vespa” equivarrebbe all’acronimo di Veicoli Economici Società Per Azioni – e di fatto la Piaggio fu una delle prime società per azioni in Italia.

 

La realtà sembrerebbe essere, però, diversa. La denominazione Vespa 98 era stata personalmente scelta nel 1945 da Domenico Agusta, ed era stata ispirata dal sottile e acuto ronzio prodotto dal piccolo propulsore a due tempi per la prima moto leggera MV Agusta, la “98” in versione “Turismo”, ideata nel 1943. Dopo le prime notizie apparse sulla stampa, la MV Agusta ricevette formale diffida all’uso della denominazione “Vespa” da parte dei fratelli Balsamo, che l’avevano depositata per il loro modello “Miller Vespa” del 1934.

 

Conclusa la vertenza legale, i fratelli Balsamo vendettero la denominazione “Vespa” alla Piaggio, che la utilizzò per il nuovo scooter.




Nel 1951 venne ulteriormente perfezionata, con l’aggiunta di un ammortizzatore idraulico anche alla sospensione anteriore e di un comando cambio a doppio cavo in sostituzione di quello “a bacchette”.

 

Dalla osservazione della realtà quotidiana e dalle sue esigenze nacque un altro prodotto frutto dell’intuizione di Enrico Piaggio e Corradino D’Ascanio: l’Ape, che iniziò a essere commercializzata proprio nel 1948: ‘Il motofurgoncino ‘Ape’ è destinato al migliore dei successi’, scrisse la rivista “Motociclismo”.

 

È una macchina modernissima, di costo e consumi assai limitati, alla portata della più modesta azienda, ma concepita senza false economie secondo criteri molto razionali, tanto dal punto di vista funzionale che da quello costruttivo.




Il primo modello Ape, originariamente presentato nella cilindrata 98 cc, pur nella sua struttura a tre ruote conservò della Vespa tutte le caratteristiche fondamentali. Il prezzo era di 170.000 lire.

 

Per Corradino D’Ascanio

 

‘Si trattava di colmare una lacuna nei mezzi di locomozione utilitaria del dopoguerra, portando sul mercato un motofurgone di piccola cilindrata, di limitato consumo e di modesto prezzo di acquisto e di manutenzione, facile alla guida, manovrabile nel più intenso traffico cittadino, e soprattutto adatto e sollecito e pronto al trasporto a domicilio della merce acquistata nei negozi’.




Nel 1950 la produzione fu avviata anche in Germania (Hoffman), su licenza. Nel 1954, sempre su licenza, partì la produzione dell’Ape in Gran Bretagna (Douglas di Bristol), in Francia (ACMA di Parigi) e in Spagna (Moto Vespa S.A. di Madrid).

 

La campagna pubblicitaria condotta dalla Piaggio raggiunse, nel periodo di uscita di questo veicolo, l’apice della sua forza espressiva: oltre ai consueti dépliant e manifesti pubblicitari, infatti, la Vespa pubblicò i calendari illustrati dall’artista Franco Mosca.

 

La Vespa 150 GS, del 1955 – secondo gli esperti – fu ‘il modello più apprezzato, imitato e ricordato’. Montò un motore 145,6 cc che, per la prima volta, raggiunse il traguardo dei 100 km/h. Fu proprio per contenere quell’inedito brio che questo due ruote fu dotato di un sistema frenante con freni a tamburo di grande diametro, realizzati in lega leggera, provvisti di un anello in ghisa e alettatura di raffreddamento inclusi. Il cambio era a quattro marce, la sella lunga era di serie ed il gruppo manubrio-fanale era carenato. Rispetto alla versione normale, nella GS la scocca ebbe una linea più aerodinamica. Queste specifiche resero la 150 GS un vero best seller, tanto da rimanere in produzione fino al 1961. 

(Berri Basilio)