CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 25 dicembre 2013

GENTE DI PASSAGGIO: 27 Dicembre 1548 (... non esiste l'inferno nel mondo del buon Dio...) (90)
















Precedente capitolo:

Gente di passaggio: 'Gioconda' verità (due ambasciatori di passaggio) (89)


Prosegue in:

Gente di passaggio: 27 Dicembre 1548... (91)















Su una cosa Isidoro Clario e gli altri critici del clima di guerra religiosa avevano ragione: le guerre teologiche avevano effetti sociali nefasti (ancor oggi possiamo assistere alla veridicità di tal asserzione…, oggi come allora dunque…).
La cronaca di quegli anni testimonia come la violenza delle discussioni dottrinali si traducesse sempre più spesso in violenze reali, che travolgevano ogni vincolo di fratellanza: anche di fratellanza di sangue. Mentre il Concilio di Trento si apriva, faceva rumore in tutta Europa la storia del fratricidio consumato da Alfonso Diaz, avvocato spagnolo attivo a Roma, contro Juan Diaz.
Juan, raccontava una cronaca del fatto, era stato attirato in una imboscata e fatto morire perché, passato alla Riforma, partecipava al colloquio di religione di Ratisbona del 1546 dalla parte protestante, con disonore della sua famiglia.
Episodi del genere, per quanto terribili e inquietanti, non erano nuovi. Rientravano nella tradizione della lotta contro il diverso religioso, fosse infedele, ebreo o eretico – una tradizione che l’Europa cristiana e Roma ben conoscevano.




Pochi anni prima, in Spagna, un giovane cavaliere cristiano, dopo una conversazione casuale con un maomettano che aveva espresso le sue opinioni sulla Madonna, si era sentito in colpa per non averlo ammazzato: quel cavaliere si chiamava Inigo Lopez di Loyola e doveva diventare noto col nuovo nome di Ignazio. L’identità religiosa dell’Europa attingeva da fonti antiche le nuove e violente forme di intolleranza che si preparava a esportare nel mondo intero.
Del tutto nuovo fu invece un caso che si verificò in Italia e che vide un uomo lasciarsi morire in esecuzione di una sanzione interiore. Fu questa la tristissima storia di Francesco Spiera, autentica tragedia moderna del conflitto di coscienza. Nella sua vicenda si rispecchiano i problemi di un’epoca intera. Giorgio Siculo ne colse tutta l’importanza e trasse da lì l’impulso a uscire allo scoperto. Esso fu allora inteso come il segnale che si era giunti al momento delle scelte. E l’intera situazione italiana, che viveva un momento di sospensione e di attesa, ne fu investita.
L’ombra del peccato contro lo Spirito santo si addensò sulla testa di Francesco Spiera nell’estate del 1548. Della sua vita fino ad allora non sappiamo gran che: dati biografici, affari, affetti familiari, idee di quest’uomo, vissuto nel Veneto nella prima metà del Cinquecento, sono rimasti per noi sullo sfondo di un dramma che si è tutto concentrato e consumato nelle immediate vicinanze della sua morte.




Nella migliore tradizione dei martirologi cristiani, è stata la sua scelta di morire, insieme ai modi e ai tempi della sua preparazione alla morte, che ha attirato l’interesse di quanti hanno scritto della sua vita. Ma, a differenza della morte dei santi, la sua rimase fissata nei moduli della letteratura esemplare come la morte del dannato.
L’antefatto è noto: lo riassumiamo brevemente per comodità del lettore. Francesco Spiera, giureconsulto di Cittadella, si  avvicinava alla cinquantina quando, nel 1547, fu denunziato all’Inquisizione e processato per ‘eresia luterana’ insieme al nipote Bartolomeo Facio. In un primo momento, negò gli addebiti: poi, il 12 giugno 1548, ammise le sue colpe, si dichiarò pentito e si rimise alla dottrina della chiesa cattolica. Il 26 giugno 1548 nella cappella di San Teodoro in San Marco recitò pubblicamente l’abiura; poi, per ordine del tribunale, dovette reiterare l’abiura nella chiesa maggiore di Cittadella, alla fine della ‘messa grande’, domenica 1° luglio 1548.
Con questo, il processo si chiuse e Francesco Spiera tornò alla sua famiglia.




Quel processo, in verità, fu un evento molto importante: lo fu per la comunità di Cittadella nella quale la posizione di Francesco Spiera era influente e le sue idee avevano lasciato traccia; ma soprattutto fu importante perché segnò l’avvio di una decisa azione inquisitoriale contro il dissenso religioso nella Repubblica di Venezia. Il tribunale presieduto dal nunzio monsignor Giovanni Della Casa, cominciò con quel processo l’opera di repressione antiereticale, sotto il controllo della Congregazione cardinalizia del Sant’Uffizio e col consenso delle autorità veneziane, nonché il prezioso aiuto dei Gesuiti.
Il caso degli ‘eretici’ di Cittadella era dunque un test importante per l’efficacia delle misure difensive da parte cattolica. L’abiura solenne che lo Spiera dovette recitare a Venezia e a Cittadella doveva servire da monito per un intero stato dove le nuove opinioni religiose agitavano la popolazione, la dividevano in gruppi e tendenze, scavando un solco nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche che ormai minacciava anche l’assetto sociale e politico. Anche agli occhi delle autorità veneziane appariva giunto il momento di rescindere i legami che i portatori di dissenso avevano intrecciato con la popolazione e di stringere una nuova alleanza con le autorità ecclesiastiche in difesa della tradizione e dello stato quo.




L’inquietudine religiosa si colorava di protesta sociale: l’attacco alla chiesa che non si riformava rischiava di trasformarsi in radicalismo sociale. I segni che emergevano erano già minacciosi e più ancora dovevano diventarlo. Lucio Paolo Roselli, un prete diventato scrittore e collaboratore di editori, scriveva in quel tempo un’aspra protesta contro il malgoverno dei ‘pastori’ ignoranti e corrotti ma anche contro chi ‘beve il sangue di poverelli’.
Il peccato contro lo Spirito, quello che non potrà essere perdonato, aveva fornito per molto tempo materia alla fantasia dei teologi. Celio Secondo Curione, collegando il passo evangelico al duro avvertimento di san Paolo agli Ebrei, ne forniva ora una interpretazione adatta ai tempi e alla guerra di posizione tra Roma e la Riforma. Gli incerti, i timorosi, gli esperti nell’arte della simulazione e della dissimulazione erano avvertiti, non si poteva più sedere su due sgabelli. Ne andava della salvezza eterna.
Gli incerti non mancavano.
Chi si decideva a emigrare, come il Curione, poteva offrire l’alternativa secca tra vera fede
e apostasia, ma molti altri resistevano, o perché non vedevano le cose in quei termini o per-
ché trattenuti da legami d’ogni genere.... 

(Prosegue....)












martedì 24 dicembre 2013

'GIOCONDA' VERITA': due ambasciatori di passaggio (88)
















































Precedente capitolo:

Gente di passaggio: Michel de Montaigne (87)


Prosegue in:

Due Ambasciatori di passaggio (89)












                                         
Il quadro di Hans Holbein che raffigura i diplomatici Jean de Dinteville e Georges de Selve, vescovo di Lavaur e amico di Jean, eseguito nel 1533 e noto come ‘Gli ambasciatori’, è tra i migliori e più noti esempi di ritrattistica rinascimentale.
Il suo fascino non è sempre immediato, ma Aubrey Beardsley non si vergogna facilmente, e qualunque fosse stata la sua impressione iniziale del dipinto, di sicuro anch’egli avrebbe ammesso che era un capolavoro di abilità tecnica, dal volto dei due uomini alla resa dei loro preziosi abiti: i risvolti in zibellino dell’abito di de Selve, l’ecclesiastico; la pelliccia, il camiciotto di raso e il velluto del secolare; perfino il tappeto che copre lo scaffale tra i due uomini, con la sua forte resa tattile.
Questo quadro è stato giustamente definito il più spettacolare tour de force della carriera di Holbein, e nessuno che l’abbia visto dopo il recente restauro si sentirà negarlo.




La tecnica di Holbein conserva intatto il potere di stupire che possedeva ai suoi tempi. L’artista aveva una solida formazione nel campo dell’accurata arte figurativa, avendo appreso molto tempo prima dal padre come eseguire precisi disegni dal vero e trasferirli sulla tela, ma nel 1533 la sua tecnica si era ulteriormente affinata.
Aveva imparato a dare più ricchezza e sottigliezza ai colori, e a conferire ai ritratti un’atmosfera di maggiore intimità. Questi progressi sono evidenti negli ‘Ambasciatori’.
Il dipinto è molto più che un doppio ritratto. Ma anche solo come tale, è opera ambiziosa e riuscita più di qualsiasi altra di Holbein che sia giunta fino a noi. Ed è una testimonianza della viva amicizia dei due soggetti del quadro, che l’artista mostra di aver ben  compreso e che ha espresso collegando e conciliando le loro personalità, apparentemente molto diverse.




Qualche anno prima, Holbein aveva eseguito l’altro doppio ritratto – ora perduto – di Desiderio Erasmo e del suo editore e amico Johannes Froben; perciò da questo punto di vista il quadro londinese non fu un esperimento.
E’ stato spesso affermato che nelle arti il segno del passaggio dal Medioevo al Quattrocento e al Rinascimento consiste nell’accento posto sull’importanza e unicità dell’individuo. Da quel momento, si dice, nelle arti figurative i caratteri dei personaggi vanno letti nei volti invece che immaginati in base alla vicenda – di solito religiosa – che l’artista rievoca, e alla quale in precedenza il carattere dei singoli era quasi sempre subordinato.
A partire dal Rinascimento l’individuo si muove con maggiore autonomia, fisicamente e spiritualmente. Holbein contribuì molto all’affermarsi di questa tradizione nell’arte dell’Europa settentrionale. Difficilmente ciò sarebbe stato possibile senza la finezza e gli artifici di una nuova tecnica pittorica, capace tra l’altro di dare profondità all’immagine  come là dove Holbein raffigura uno dei due diplomatici con un piede più vicino all’osservatore, il quale avrà ancora di più l’impressione di essere di fronte a persone reali in uno spazio tridimensionale; tutti sintomi di indebolimento dell’antico ordine sociale.




Dipinto quando l’artista aveva tra i trenta e i quarant’anni, e al culmine della forza creativa, ‘Gli ambasciatori’ è una magnifica illustrazione della discontinuità tra vecchio e nuovo ordine sociale.
I due uomini del dipinto erano i rappresentanti della Francia presso la corte inglese, e in questo senso il titolo attuale è corretto. Alcuni lo contestano per le stesse ragioni per cui gli appassionati di Mozart si oppongono all’uso di termini non scelti dal musicista per denominare le sue composizioni. Nessuno si aspetta che un titolo possa dire tutto il dipinto, ma almeno non dovrebbe essere fuorviante. Chiamare l’imponente quadro di Holbein semplicemente ‘Gli ambasciatori’ significa presentarlo prima di tutto e soprattutto come un ritratto, e sollevare questioni che non hanno mai avuto una risposta soddisfacente – perché in realtà il dipinto rappresenta anche molte altre cose.
Se l’opera sembra suggerire innumerevoli commenti e interpretazioni non è tanto a causa delle biografie dei due uomini che essa raffigura, quanto per gli strumenti che affollano lo scaffale e occupano il centro della composizione, senza contare il teschio fortemente deformato e inclinato che è in primo piano vicino al bordo inferiore.




Senza dubbio, le allusioni al mondo della cultura e alla transitorietà della vita umana intendono illuminare le personalità, i precedenti e le aspirazioni dei due diplomatici; eppure, per ragioni tutt’altro che ovvie, Holbein sembra aver dato loro uno speciale risalto. Perlopiù, le prime spiegazioni di questo fatto singolare sono state di tipo generale.
Alcune hanno sottolineato il temperamento malinconico di uno degli ambasciatori o di entrambi, e letto l’intera opera come un ‘momento mori’, un complesso di variazioni sul tema dell’onnipresenza e ineluttabilità della morte. Altri si sono accontentati di un breve accenno all’opposizione di materiale e spirituale, vanità delle arti e delle scienze e più profonde verità della religione. La complessità della natura morta al centro del quadro è senza paragoni nell’opera di Holbein.




Alcuni vi hanno visto un’allusione ai trionfi del XVI secolo nei campi del sapere e delle esplorazioni, senza mai, o quasi, entrare nei particolari. Coloro che hanno provato a indagare i possibili sensi simbolici del dipinto hanno di solito guardato alle vicende della Riforma e alle tensioni politiche e religiose di quel periodo. Di solito, veniamo sollecitati a immaginare i pensieri dei due soggetti, e principalmente la loro preoccupazione per il futuro del mondo cristiano, di particolare importanza per loro sia in quanto diplomatici, sia a causa delle loro posizioni nella gerarchia civile o religiosa.
Un innario luterano sul ripiano inferiore è stato considerato un indizio della loro generale tolleranza in materia di religione; come una preghiera allo Spirito Santo quale guida in un difficile momento storico; e perfino un appello alla completa tolleranza della causa protestante, con la quale, peraltro, né Dinteville né de Selve si identificavano personalmente.

(Prosegue...)












sabato 21 dicembre 2013

GENTE DI PASSAGGIO: Michel de Montaigne (87)

















                                         


Costanza, quattro leghe, dove arrivammo verso le quattro. E’ questa una città della grandezza di Chalons, soggetta all’arciduca d’Austria e cattolica; poiché appartenne un tempo – trent’anni fa – ai luterani, ma l’imperatore Carlo V li espulse con la forza, le chiese ne risentono ancora nelle immagini.
Il vescovo, nobiluomo del luogo e cardinale, restandosene a Roma ne ricava ben 40.000 scudi di rendita; mentre certi canonicati, nella chiesa  di Nostra Signora, fruttano 1500 fiorini e son retti da nobili.
Ne vedemmo uno di questi, che veniva da fuori a cavallo, vestito con ogni libertà come un uomo d’armi. Si dice pure che in città vi sian molti luterani.
Salimmo sul campanile, che è assai alto, e vi trovammo un uomo di guardia, che non ne viene mai via per qualsiasi motivo e si trova là rinchiuso.




Sulla sponda del Reno stanno costruendo un grande edificio coperto, lungo cinquanta passi e largo quaranta circa; vi sistemeranno dodici o quindici grandi ruote per mezzo delle quali si potrà sollevare ininterrottamente un’enorme massa d’acqua a un livello pari all’altezza d’un piano, e altre ruote di ferro (mentre le prime son di legno) in numero uguale, per farla salire da quel livello a uno superiore.
Quest’acqua, dopo che sarà su, all’altezza di circa cinquanta piedi, verrà scaricata, mediante un ampio, lungo condotto artificiale, e fatta giungere in città per far muovere parecchi mulini.
Il maestro che costruiva tale edificio riceveva 5700 fiorini solo per il proprio lavoro, e in più era provvisto del vino. Sul fondo del fiume elevano un assito fissato torno torno per rompere – dicono – la forza dell’acqua, sì che scorra placida nel condotto e la si possa attingere più agevolmente.
Si stanno approntando anche dei congegni per mezzo dei quali si possa alzare e abbassare l’insieme delle ruote a seconda che l’acqua sia su oppure giù di livello.




Qui il Reno non conserva il suo nome, ché all’inizio della città si espande, formando come un lago di quattro leghe tedesche in larghezza e di cinque o sei per il lungo. Prospiciente questo lago, c’è un terrapieno a punta dove raccolgono le merci; a cinquanta passi dalla sponda si trova una graziosa casina dove monta di continuo una sentinella, e vi hanno posta una catena con cui sbarrano l’accesso al porto dopo aver collocati parecchi pali che ostruiscono ai due lati parte di lago dove s’arrestano e vengono scaricati i natanti.
Dalla chiesa di Nostra Signora si diparte un condotto, al di sopra del Reno, va a finire nei sobborghi della città. Ci rendemmo conto di star abbandonando il territorio svizzero dal fatto che, poco prima di giungere alla città, scorgemmo varie dimore di nobili, quali non se ne vedono affatto in Isvizzera. Ma in quanto alle case private, sulla strada che percorremmo sono senza confronti più belle che in Francia (specie le locande, dove il trattamento è migliore), sia in città sia in campagna; non sono a corto che di ardesia, giacché ciò di cui mancano, per soddisfarci, non deriva da povertà: ben lo si comprende dalle altre suppellettili, tanto che chiunque potrebbe bere in grandi tazze d’argento, e le più dorate e lavorate, ma non ne hanno l’abitudine.




Per ritornare a Costanza, ci trovammo alloggiati male all’ ‘Aquila’, e dall’oste avemmo una prova del senso di libertà e della barbarica fierezza germanica a proposito d’una lite fra uno dei nostri uomini appiedati e la guida di Basilea; siccome la cosa giunse fino dinanzi ai giudici, dai quali essa (guida) era andata a lagnarsi, il primo magistrato del luogo – un nobile italiano avvezzo al paese, quivi sposato e avente da gran tempo diritto alla cittadinanza -, al signor de Montaigne che gli aveva chiesto se si sarebbe prestato fede ai servitori di esso signore quali testimoni per noi, rispose di sì, purché li licenziasse salvo riassumerli in servizio subito dopo. Era una sottigliezza degna di nota.
Il giorno successivo, che fu domenica…

(M. de Montaigne, Viaggio in Italia)

(Prosegue...)












sabato 14 dicembre 2013

IL FIORE O IL DODECAEDRO? (34)
















































Precedenti capitoli:


Ammazzare il Tempo: il fiore o il dodecaedro? (32/33)

Prosegue in:

Ammazzare il Tempo: Ricerca dell'assoluto (35)













Potremmo, in effetti, rovesciare il problema e chiederci come sia possibile che i Teoremi della matematica possano essere concepiti come atemporali… Come è per noi possibile scoprire una verità che sia eternamente vera?
La sola risposta ragionevole a questa domanda è che le verità logiche e matematiche possono essere vere in ogni tempo perché esse non riguardano niente di realmente esistente. Esse parlano solo di relazioni possibili. E’ dunque un errore – un errore categoriale – immaginare che i teoremi della matematica riguardino una qualche realtà ‘altra’, platonica, che esisterebbe fuori dal tempo.
I teoremi della matematica sono fuori dal tempo, solo perché non riguardano la realtà.
E invece, ogni cosa che esiste deve esistere nel tempo. Sottolineando che esistere  deve significare esistere nel tempo, possiamo rovesciare la trappola che la vecchia metafisica ci aveva imposto: quella per cui ciò che realmente esiste, l’Essere, può esistere solo eternamente, mentre le cose che esistono nel tempo sono solo apparenze, solo pallidi riflessi di ciò che è realmente reale.




Se l’esistenza ha bisogno del tempo, allora non c’è bisogno né posto per l’Essere, per il mondo platonico assoluto e trascendente. Ciò che esiste è ciò che troviamo nel mondo. E ciò che esiste, esiste nel tempo, perché per esistere deve essere creato da processi che agiscono nel tempo per creare il nuovo e l’inatteso da ciò che precedentemente esisteva…. 
  Così come in un cerchio magico torniamo ai problemi filosofici che si annidano nel cuore della matematica stessa, ci sono ad esempio dei paradossi relativi ai fondamenti  della matematica associati alla possibilità dell’autoreferenza, essi derivano da enunciati matematici che si riferiscono a se stessi. Che fare con una persona che dice ‘Io sto mentendo’?
Questa situazione, opportunamente tradotta in logica, diventa il teorema di Godel, che deriva dalla possibilità di enunciare una proposizione riguardante l’aritmetica che asserisce la sua stessa indimostrabilità. Da questo teorema si deduce che un sistema matematico abbastanza complesso da includere l’aritmetica può essere sì coerente – cioè non contraddittorio – o completo – vale a dire che tutto ciò che è vero nel suo ambito può essere dimostrato – ma non entrambe le cose. Per rimanere sgomentati da questi paradossi bisogna che pensiamo alla matematica come una realtà atemporale, tale che ogni sua verità sia eternamente vera.




Se invece aderiamo alla concezione per cui la logica e la matematica riguardano il nulla e che tutto ciò che esiste esiste nel tempo, queste difficoltà possono essere viste sotto un’altra luce. Se costruiamo un sistema reale, un computer, per esempio, o un essere vivente che sia capace di autoreferenza, ciò che abbiamo costruito deve allora essere un ‘loop’ di retroazione.
L’autoreferenza in un’entità deve coincidere con la possibilità che il suo stato futuro sia funzione di quello presente. In un sistema reale, che può trovarsi in un solo stato alla volta, l’autoreferenza deve essere intesa come qualcosa che si verifica nel tempo. Come già detto i meccanismi di retroazione sono un elemento essenziale di ogni processo di autorganizzazione, e i processi di autorganizzazione sono ciò che danno al mondo la sua struttura.
Così ci troviamo dinnanzi ad un ennesimo paradosso, perché quando cerchiamo di immaginare la ‘conoscenza’ come qualcosa di atemporale da luogo alla struttura e all’organizzazione, quando concepita come processo reale del mondo reale che agisce nel tempo. L’operazione logica più elementare è, al fondo, compiere distinzioni…. E’ ciò che facciamo quando separiamo una parte del mondo da un’altra, o quando definiamo un insieme che contiene solo certe cose e nessun’altra. E’ possibile distinguere nel mondo reale perché viviamo in un mondo ricchissimo di struttura e di varietà.




Poiché ciò è il risultato di un processo intrinseco di autorganizzazione si potrebbe affermare che è la possibilità dell’autoreferenza che rende possibile la logica. Così, se davvero le leggi di natura fossero costruite nel tempo da un processo di autorganizzazione, il vecchio sogno di ridurre la scienza alla logica potrebbe in qualche misura venir realizzato.
Ma questo, se sarà possibile, non lo sarà nel senso atemporale vagheggiato dai platonisti, ma solo nel senso che la logica, che si esprime nel tempo e si complica grazie alla possibilità di autoreferenza, è essa stessa autorganizzazione.
In ultima analisi, i due diversi tipi di matematica su cui può essere fondata la fisica fondamentale discendono da due diversi concetti di forma e di come le forme possono essere state generate.
Pensiamo, ad esempio, a un fiore e a un dodecaedro.
Sono entrambi belli, entrambi ordinati, e il fiore potrebbe anche non sembrare meno simmetrico di quella costruzione geometrica. La differenza fra loro sta, appunto, proprio nel modo in cui sono stati costruiti. Il dodecaedro è una manifestazione esatta di un certo gruppo di simmetrie, che può essere descritto in una riga di simboli matematici. E anche se non posso costruirne uno perfetto, posso però fabbricarne un’ottima rappresentazione, con carta, forbici e colla o anche con un programmino per calcolatore. 




Un fiore, per contro, non è perfetto. Se lo esaminiamo da vicino, vedremo che, nonostante possa apparire simmetrico, non aderisce precisamente a nessuna forma ideale. Dall’avvolgimento del suo DNA in ciascuna delle migliaia di miliardi delle sue cellule, fino alla disposizione dei suoi petali, la forma di un fiore potrà spesso suggerire una simmetria, ma non riuscirà mai a realizzarla precisamente. 
Ma con tutte queste sue imperfezioni, non c’è modo in cui io possa costruire un fiore. Esso è il prodotto di un vastissimo sistema che si estende assai lontano nelle profondità del tempo.  La sua bellezza è il risultato di miliardi di anni di incrementi evolutivi infinitesimali, dell’accumularsi di scoperte operate da ciechi processi statistici; il suo significato sta nel ruolo che....... 

(Lee Smolin, La vita del cosmo)

(Prosegue....)