CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

lunedì 31 luglio 2023

DIVINAZIONE

 









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....un Orsa ribelle  


Prosegue con la... 


seconda parte 


& con taluni 


approfondimenti... 


circa la 'mannara' violenza







Se nel senso comune il termine ‘divinazione’ (o ‘mantica’) pare indicare qualche remota pratica dell’antichità, disancorata dalle nostre consuetudini, riflettendo su espressioni più usuali (per esempio “augùri”, “di buon auspicio” e così via) scopriamo che queste celano legami con antiche scienze della previsione e rituali propiziatori. Le une e gli altri hanno lasciato un segno nel nostro linguaggio e, seppur trasfigurati, permangono nel nostro contesto culturale.

 

Il vocabolo ‘augùrio’ deriva dal latino ‘augurium’, che indicava il presagio tratto dal comportamento degli uccelli, dalla cui interpretazione i sacerdoti dell’antica Roma potevano conoscere la volontà degli Déi e il futuro. Così, quando auguriamo a qualcuno che si realizzi un evento positivo, esprimiamo un ‘auspicio’ (da avis, ‘uccello’ e ‘specio’, ‘osservo’), cioè ci riferiamo inconsapevolmente all’osservazione del volo degli uccelli.




Nella nostra cultura, di matrice giudaico-cristiana, l’arte divinatoria è classificata come ‘superstizione’, osteggiata sia dalla religione (per la quale è un tentativo profano e illegittimo di conoscere l’inconoscibile) sia dalla scienza (la cui estensione capillare e profonda nel nostro immaginario ha braccato senza tregua i residui di credenze nei presagi, negli oracoli, nelle profezie). La divinazione ricopre nella nostra società un ruolo marginale: ciò rispecchia la priorità attribuita alla religione cristiana rispetto ad altri insiemi di credenze, riti e culti con cui l’uomo riconosce e onora l’esistenza di un ordine superiore. Nella nostra cultura, pertanto, vige una separazione tra pensiero religioso e pensiero magico-divinatorio, riconosciuta anche dall’etica aconfessionale. Al contrario, presso contesti culturali diversi, come nelle civiltà greca, romana e mesopotamica, divinazione e religione sono inscindibili, si articolano l’una nell’altra e insieme danno forma a ciò che indichiamo come ‘pensiero magico-religioso’.




Proiettare il proprio sguardo nel futuro, precorrere l’avvenire, penetrare i meccanismi del presente, squarciare il velo dell’ignoto e celebrare il Sacro sono reazioni umane nei confronti dell’aspetto incomprensibile della realtà, dell’inesprimibile e affascinante mistero di essere al mondo. 

(S. Tonutti) 

 

Come sarebbe valutato il ruolo attuale dell’umanità su questo pianeta alla luce delle Filosofie del passato?

 

Qualunque delle grandi Filosofie scegliessimo come valida, il nostro ruolo attuale riceverebbe un giudizio negativo. Infatti, esso è in contrasto con le priorità di valore proclamate da tutti questi sistemi. Ciò vale per l’aristotelismo, il buddismo, il confucianesimo e le altre grandi filosofie degli ultimi duemila anni.

 

I più grandi sistemi filosofici distinguono nettamente tra ciò che è grande da un punto di vista quantitativo e ciò che lo è da un punto di vista qualitativo. Si ricerca la grandezza in senso Spirituale, non le grandi dimensioni.

 

Si riconosce l’importanza della tecnologia, ma al primo posto vi sono i valori culturali. La qualità della vita non è messa in relazione con un consumo insensato. Le grandi filosofie richiedono alle persone di valutare le conseguenze a distanza delle proprie azioni e la prospettiva utilizzata deve essere universale nel Tempo e nello Spazio. Nessuno dei grandi filosofi considerava i rapporti di mercato e i modi di produzione come fonti di norme per lo stato, la società o l’individuo. 

(A. Naess)




Presso tutti i popoli, il pensiero magico-religioso nelle sue più disparate manifestazioni accoglie le pressioni conoscitive dell’uomo, i suoi timori, la sua esigenza ordinatrice, la sua devozione intima: di risposta attribuisce significato a ciò che è oscuro, nomina ciò che è indicibile, mette ordine nel caos, stabilisce un codice di espressione del culto, genera un repertorio di riferimenti simbolici da condividere nel gruppo. Più in particolare, nella mantica trovano un tentativo di risoluzione gli aspetti della condizione umana che generano la vertigine del vuoto conoscitivo e la paralisi nell’azione.

 

Che cosa offre all’uomo la divinazione, scienza che Cicerone nel De divinatione definiva ‘intuizione e apprendimento delle cose future’?

 

Appunto la tecnica per conoscere l’avvenire, per decidere il presente, per interpretare il linguaggio delle divinità. Essa è, innanzitutto, tecnica e azione. Anche nella nostra cultura emergono, seppure abbozzati, questi tratti salienti delle pratiche divinatorie: per queste non c’è spazio nel complesso delle credenze istituzionalizzate, né riconoscimento all’interno delle forme del pensiero ufficiale.




Tuttavia il ricorso alla consultazione divinatoria non solo ci appartiene per tradizione, ma è un fenomeno in crescita presso tutti i gruppi sociali: che sia binaria (il ‘testa o croce’ della moneta) o precognitiva (predizione del futuro), che utilizzi i tarocchi, interpreti i sogni o la posizione delle stelle, la divinazione, assieme alla magia, risponde al desiderio umano di conoscere le cose a venire, pone le condizioni per favorire la scelta e l’azione dell’uomo in situazioni ambigue, rischiose, di dubbio.

 

L’analisi delle nostre tradizioni popolari ci dimostra come le ritualità connesse alle pratiche magico-divinatorie spesso integrino le credenze religiose: in situazioni di drammatica crisi per l’uomo, esse sostituiscono l’azione  alla rassegnazione, sollevano l’uomo dall’immobilità, dallo stato di impasse di fronte al destino e gli offrono uno strumento per tentare di cambiarne il percorso. 

(S. Tonutti)




Il modo in cui nel regno animale si ripartiscono le iniziative di formazione degli Stati ha qualcosa di casuale. Ricorda un po’ la divisione dei numeri primi nel mondo dei numeri. Forse anche in quest’ambito, come in quello, si scoprirà una qualche regolarità. Non c’è dubbio che sussistano delle relazioni tra le caratteristiche degli organismi e la loro organizzabilità; la capacità di sviluppare tessuti cornei, fossili o minerali ne costituisce uno dei presupposti, se non addirittura l’unico.

 

Il principio che agisce per formare un’organizzazione si serve di preferenza di elementi inorganici per realizzare costruzioni organiche, come quelle, spesso magnifiche, che compaiono tra i gruppi ‘inferiori’.

 

Chi osservi un radiolare, un cuoretto o il guscio di un riccio di mare ha l’impressione che agiscano qui forze che dimorano al di là della vita, che può darsi forniscano un’impronta di ordine e di armonia non tanto al mondo inorganico, quanto piuttosto a un mondo sovraorganico.




Forse questo ha qualche relazione con il fatto che, man mano che si sale a livelli più evoluti del regno animale, la costruzione degli Stati sembra farsi più rara. Anche per quanto riguarda la pura organizzazione, per gli insetti il problema sembra perfettamente risolto. Ciò non va trascurato, se si vuole caratterizzare l’uomo in quanto zoòn politikón.

 

La decisione che per altre razze è già stata presa è per lui ancora sospesa, lo stampo è ancora fluido, e questo rappresenta la sua salvezza. Di conseguenza egli può condurre, in modo pedagogico e da autodidatta, uno studio sulla formazione degli Stati, tanto all’interno del regno degli animali, quanto entro il quadro offerto dalla sua propria storia: è il suo libro illustrato. Nella formazione degli Stati non è possibile rinvenire alcun genere di progresso: questo significa cioè che le forme perfette non compaiono solo a un livello evoluto di sviluppo, né caratterizzano solo determinati ambiti del regno animale. Accanto alle specie sociali se ne trovano altre, con esse strettamente imparentate, che vivono una vita solitaria.




Tracce di una simile standardizzazione si sono presentate spesso nel mondo della Storia e, occorre sottolinearlo, proprio nel mondo della Storia, il che ci porta a concludere che l’uomo secondo la sua natura, e forse anche secondo la sua umanità, non appartiene alle specie che si organizzano naturalmente in Stati, che dunque la caratterizzazione di zoón politikón non ne coglie la natura essenziale.

 

Anche nelle isole più solitarie, nei luoghi dove si conservano i ‘fossili viventi’, l’uomo ha certamente sviluppato razze particolari attraverso la separazione millenaria, ma non ha dato origine né a uno stato biologico, né a una nuova specie. Quando viene scoperto egli è uomo tra gli uomini e può recuperare con un solo passo ciò che nel frattempo gli uomini ‘sviluppati’ hanno raggiunto.




Giudizi e pregiudizi, leggi e costumi che definiscono una condizione pura e incontaminata, possono innalzare montagne tra gli uomini, spalancare fratture difficilmente colmabili. È in questo paesaggio che la storia gioca la sua parte, e non si tratterebbe di storia, bensì della storia della natura, se la libera volontà non determinasse il quadro che ne traccia i confini. La riflessione risale a essa come a un’ultima istanza. Il suo momento trova sede nel tempo e può trasformare il mondo laddove lo spirito si libera dei propri limiti.

 

Essa è l’elemento caratterizzante la species humana e in quanto tale, sebbene nell’individuo si presenti come eccezione, determina la via e i compiti della specie e della civiltà umana attraverso i secoli. Se paragonate a ciò che per noi uomini è possibile, queste forme di separazione si rivelano effimere. In tutti i tempi hanno richiesto il sacrificio di vittime, e tuttavia non ve n’è una che non sia stata travolta dall’evoluzione o distrutta da una rivoluzione. 

(E. Junger)


[PROSEGUE....]









lunedì 24 luglio 2023

OSSERVAZIONI

 









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dell'ultimo ribelle... 


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segugio meccanico...  


& con la caccia e la tortura


Le 'Osservazioni' 


...proseguono 








con uno e più articoli e 


Libri di David Lazzari 


(...mio fratello)








26 febbraio, ore 08:52:34, annunciava come un ciak la scritta gialla al piede dell’inquadratura prima che il video inaugurale partisse. Ed ecco che apparve un topolino minuscolo intento ad annusare il terreno. Si aggirava lì di fronte, muovendosi a scatti. Il fruscio del suo zampettare che usciva dal computer sembrava provenire dalla realtà che ci circondava. Subito, istintivamente, gettai lo sguardo lì dove era passato. Il topolino sul monitor fece un giro su se stesso e trotterellando se ne andò, fino a sparire dietro l’albero in fondo allo slargo.




27 febbraio, ore 16:30:01, annunciava ancora la scritta sul primo fotogramma della seconda scena. C’era vento, le foglie che costituivano il tappeto marrone e giallo del sottobosco vibravano, alcune si sollevavano e partivano tra le raffiche. Entrò sulla scena un bestione, che subito, visto da dietro, non riconobbi. Era un cinghiale. Passò con il muso radente al terreno, fiutando con le narici dilatate e, seguito da un suo simile, si allontanò offrendo alla telecamera il suo immenso posteriore peloso.




27 febbraio, ore 22:01:44. L’inquadratura svelava che nel frattempo, in quelle quattro ore della sera del 27 gennaio, era caduta la neve. Una decina di centimetri. E in quel momento continuava a nevicare. Ma si era di notte, e la scena col buio aveva perso i colori. Di notte la telecamera a infrarossi registra in bianco e nero. Solo gli occhi degli animali, scoprii di lì a breve, se rivolti alla video-trappola, si illuminano di una luce giallognola. Sul fronte della scatoletta si trova un piccolo led, mi spiegava Paolo, che emana una luce rossa indispensabile alle riprese notturne. Col buio gli animali possono non accorgersi del puntino rosso che brilla sull’albero. Ma se osservano nella direzione giusta percepiscono un vago tremolio luminoso. A quel punto reagiscono nei modi più disparati: alcuni si spaventano e scappano, altri, incuriositi, si avvicinano posando il naso proprio sulla video-trappola per cercare qualche odore che gli sveli l’identità del misterioso puntino.




Ma ecco un cervo!

 

Si ferma. Si guarda intorno, e riprende a camminare nella neve che cade abbondante.

 

28 febbraio, ore 07:06:15. Ora, dopo l’intera notte di nevicata, una spessa coltre bianca ricopriva il sottobosco. Si sentì un lontano guaito, e poi fu lui ad entrare in scena: il lupo. Ne arrivò uno, poi un altro, e un altro ancora.




‘Eccoli’, esclamò Massimo di fronte al computer portatile. Alla fine erano in sei. Si fermarono nello spazio, e lì si aggirarono, lenti, come se volessero concedersi una pausa nella loro marcia nella luce dell’alba livida.

 

…Gli animali non sono rinchiusi in gabbia perché possano essere ammirati dagli spettatori come fossero statue viventi in rappresentanza dei loro più fortunati conspecifici in libertà. Qui gli animali vengono ospitati in ampi spazi aperti che riproducono il loro stesso ambiente vitale. Sono aree allestite principalmente per studiare il comportamento degli animali, in uno stato che si avvicina a quello di libertà, oppure, come in questo gestito da Massimo, per recuperare alla vita libera gli animali feriti.





‘Adesso mi raccomando la discrezione’, mi ammonì Massimo. Il punto di osservazione sul recinto di Merlino nel Centro recupero dei Sibillini si trova in cima a un ripido sentiero. È posto in modo – e questa è la sua specificità inderogabile – che l’animale non veda il visitatore. Il visitatore è celato da una parete, nella quale sono state prodotte sottili feritoie per gli occhi. Tutto, l’avvicinamento, l’osservazione, deve svolgersi nel più assoluto silenzio. Solo il cinguettio degli uccellini deve sentirsi nella pace inalterata del boschetto. 

 

Solo Massimo, unico essere umano (con l’unica eccezione della veterinaria), può farsi vedere da Merlino quando gli porta il cibo.

 

È evidente, però, che il lupo ha un vantaggio, e dunque sa che qualcuno si trova nei paraggi. Il suo olfatto non lo tradisce. Quando ci avviciniamo a piccoli passi, quasi trattenendo il respiro nell’illusione di fare ancor meno rumore, il nostro odore è già nell’aria e per Merlino agisce come una sirena d’allarme. Mi avvicino con lentezza estrema. Vedo la luce uscire dalla feritoia, avvicino gli occhi.




….E guardo.

 

…Nessuno.

 

Nello spazio aperto al di là della barriera non c’è nessuno.

 

Massimo sa che Merlino non passa il tempo in un sol posto a ridosso dell’osservatorio, ma anzi vaga di continuo nel suo vasto spazio come farebbe allo stato libero. Però Massimo sa anche che Merlino in questo momento sta riconoscendo il suo odore. Odore benvenuto, perché associato a quello del cibo. E infatti passano poco più di tre minuti, ed ecco che un’ombra scivola silenziosa dal fitto del boschetto, e si avvicina.

 

È lui!

 

Il lupo.




Si approssima con un’andatura trotterellante, elegante, elastica. I suoi passi lo conducono verso di noi. La sua sagoma si fa più nitida. Poi si ferma a pochi metri dalla rete schermata. Rizza le orecchie. Si agita. È nervoso. Capisce che qualcosa di inconsueto sta accadendo intorno a lui. Interroga l’aria con il naso. Guarda a destra e sinistra. Si avvicina ancora di più. Ora si trova a non più di cinque metri dalle feritoie dove due occhi invisibili lo puntano. Sta dritto nella sua postura scattante, energica, potente. Ma è guardingo, teso. Tutto il contrario di un pigro animale nella gabbia dello zoo. Il suo corpo è quello di un maschio adulto, vigoroso e sano. Da tempo è ormai guarito dalla vecchia infestazione da rogna. È lungo all’incirca quanto un uomo sdraiato: 130 centimetri, più la coda di 35. Ed è alto una settantina di centimetri al garrese.

 

È grande, potente, robusto e allo stesso tempo flessuoso e aggraziato.




Il colore del mantello di Merlino, in questi giorni di marzo, è ancora velato del grigio argentato dell’inverno, ma presto prenderà quello estivo che tenderà al rossiccio. Le zampe sono lunghe, tenute semipiegate quelle posteriori perché pronte a scattare, mentre quelle anteriori partono dritte da un petto prominente e muscoloso. Mi concentro sulla testa. Il cranio è piuttosto grande, ben più grande di quello di un cane pastore tedesco, ed è sorretto da un collo massiccio. Ha orecchi corti. E la dentatura, ovviamente, è sviluppata come in tutti i carnivori di grossa taglia: i canini superiori sono lunghi come un mignolo della mano.

 

…E poi gli occhi – gli occhi, la parte del corpo che più lo contraddistingue – sono ampi, espressivi, gialli, luminosi. E sono posizionati verso la parte frontale della testa con una leggera inclinazione verso il passo.

 

Eccolo lì, il lupo, finalmente.

 

Lo osservavo cercando di fissare il più possibile la sua immagine nella memoria.

 

Quando avrò ancora occasione di vedere un lupo?




In quel momento, pensai, per una rarissima deroga alla consuetudine era il lupo ad essere osservato dall’uomo, e non viceversa. Era osservato dall’uomo resosi invisibile perché celato dietro un riparo. Uno sguardo fisso tra uomo e lupo correva anche in quegli istanti, ma in un senso opposto a quello abituale. E mi venne da riflettere sul terribile divario di potere che dà guardare senza essere visti, sul senso di tremenda impotenza e oppressione che si riceve dal sentire gli occhi di qualcuno che ti fissano, senza poter ricambiare lo sguardo.

 

Sarà proprio su questo punto, mi chiesi, che si sono addensate le paure dell’uomo nei confronti del lupo?

 

Il lupo, in fondo, non ha mai rappresentato una vera minaccia materiale per l’uomo. Non attacca l’uomo, come per esempio fanno la tigre, l’elefante, il bufalo. Il lupo può attaccare gli animali domestici, ma lo fanno anche altri animali, come la volpe, e comunque ci si può sempre difendere. Eppure non sono la tigre, l’elefante, il bufalo o la volpe ad essere percepiti come gli antagonisti per antonomasia dell’uomo.




No, qualche cosa d’altro deve aver concorso a determinare un così ampio campionario di leggende infamanti, di miti e di proverbi ingiusti che hanno dipinto il lupo come il male assoluto. Quel giorno, osservando Merlino, mi sembrò di intuire che molto, del rapporto uomo-lupo, stava proprio nello sguardo.

 

Nello sguardo del lupo.

 

Perché se è vero che non c’è niente di più pauroso di essere osservati senza poter vedere, allora si spiega la paura che incute il lupo nei lunghissimi appostamenti che precedono la caccia. Il lupo è capace di aspettare giornate intere nascosto in un cespuglio. Il suo sguardo, lo abbiamo visto, filtra tra i rami, esce dal buio e vigila, controlla, prende la mira.

 

Così aveva fatto 1/2 per mesi sul paese di Villetta Barrea prima di essere ammazzato.

 

Quegli occhi infondono timore. Sono loro, gli occhi del lupo, non i denti a incutere paura. E al Centro recupero animali selvatici di Massimo Dell’Orso, le parti, per pochi minuti, si erano invertite.

 

(M.A. Ferrari)




 Guarda direttamente negli occhi un animale e questi sono pieni di dolore e di bellezza perché contengono la verità della vita, dolore e piacere in ugual misura, la capacità di gioire e la capacità di soffrire.

 

Gli occhi degli uomini molto primitivi e inconsci hanno la stessa strana espressione di uno stato mentale precedente alla coscienza, che non è né di dolore né di piacere; non si sa esattamente che cosa sia. È piuttosto sconcertante, ma indubbiamente qui sta guardando nella vera anima dell’animale, e questa è esattamente l’esperienza che doveva avere. In caso contrario sarebbe rimasta scollegata dalla Natura. È l’esperienza che ognuno di noi dovrebbe avere per ritrovare il legame con la Natura interiore, con la propria natura e con il dio dei primitivi.




Si potrebbe dire che questi sono gli occhi dell’inizio, del Creatore, il quale era inconscio perché all’inizio tutto era inconscio.

 

Non si può sapere che cosa sia in se e perché, dal nostro punto di vista, un animale non ha coscienza corrisponde esattamente a ciò che noi chiamiamo inconsceità.

 

Non posso addentrarmi in una discussione filosofica su questo argomento, ma è davvero possibile che in ciò che noi chiamiamo inconscio - la somma dei contenuti autonomi - ognuno di quei contenuti abbia in sé una coscienza.

 

Perché no?




La nostra coscienza è un complesso autonomo, e ognuno degli altri complessi potrebbe avere una coscienza indipendente; non è dunque possibile che la somma totale di coscienza e inconsceità abbia un centro con cui i contenuti possano entrare in relazione?

 

Sarebbe quella allora la coscienza, perché l’unica definizione di coscienza che si possa produrre è un’associazione di cose con un Io al centro. Ovunque si trovi un tale centro è perciò davvero possibile che li si trovi la coscienza; pertanto ciò che chiamiamo l’inconscio sarebbe un’altra forma di coscienza di qualcos’altro in qualcun altro.

 

(da G. Lazzari L’Eretico Viaggio[Osservazioni]; C.G. Jung, Visioni)









giovedì 20 luglio 2023

L' ULTIMO RIBELLE (ovvero... il lupo & i tre e più porcellini [o porcili] )

 










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circa i criminali...  


&  quando incontrai... 


Prosegue con alcune...: 


Osservazioni







MA LUI DA CHE PARTE STA?


Il lupo Ligabue si è appena ripreso da un terribile incidente sulla tangenziale di Parma. L’hanno curato bene, è guarito e hanno deciso di restituirlo alla montagna; gli zoologi lo seguiranno sui monitor per vedere quanta strada fa. L’11 marzo 2004 gli fissano al collo il rilevatore satellitare e lo lanciano in una faggeta.

 

Ligabue sembra contento, anche se i lupi hanno sempre gli occhi tristi. Dopo una ragionevole convalescenza sul crinale appenninico sente il richiamo del nord e comincia il suo viaggio: Toscana, Emilia, Lombardia, Liguria, Piemonte. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre arriva sulle Alpi Matittime, al confine con la Francia. Sono belle le Marittime a settembre: i cirri filano il cielo e le nebbie appannano le distanze. Il satellite dice che Ligabue ha percorso cinquecentosessanta chilometri, ma probabilmente ne ha camminati il doppio.

 

Il lupo ha inventato il trekking prima dell’uomo.




Poi viene l’inverno e il segnale luminoso si ferma. E anche la vita di Ligabue. Il 17 febbraio 2005 lo trovano morto in Valle Pesio, sui monti di Mondovì. Ligabue è la prova che i lupi sono arrivati da soli. Anche se molti sostengono il contrario, non sono stati reintrodotti da naturalisti sconsiderati ma sono saliti sulle loro zampe dagli Appennini alle Alpi. Un passo dopo l’altro, in cerca di cibo, foresta e territorio. Adesso sono in Piemonte, e inquietano, e danno fastidio. Il lupo è il ribelle per eccellenza, fuorilegge e fuoritempo, perché rappresenta quello che non siamo più: la natura selvaggia, il coraggio di andare, l’emozione primordiale. La bestia ribelle abita terre ribelli.

 

Il centro di gravità dei lupi al tempo di internet oscilla tra le Alpi del mare e le valli di Cuneo, Saluzzo, Pinerolo e Susa, attraversando i luoghi che furono presidiati dai partigiani di Nuto Revelli, i crinali del comandante valdese Janavel, i villaggi delle rivendicazioni occitane, i boschi dei No TAV e della resistenza valsusina. Il ritorno del lupo ha fatto scalpore, scatenando una disputa furibonda tra i suoi amici, perlopiù ambientalisti e gente di città, e i suoi detrattori: montanari, pastori, allevatori.

 

Molti valligiani non lo sopportano.




Mariano Allocco, voce ascoltata nelle valli del Cuneese, scrive dalla Val Maira: parliamoci chiaro, la presunzione della convivenza possibile tra predatore e animali in alpeggio è un assunto ideologico. In Val Maira l’alpeggio ovino ha chiuso e tra breve andrà ridiscusso quello brado di bovini ed equini e l’alpeggio così come lo si è gestito per secoli non sarà più possibile. Il piano di difesa degli ovini dal lupo della Regione Piemonte prevede la sorveglianza continua del gregge, il confinamento notturno degli animali, i cani da guardiania, i dissuasori acustici, la gestione coordinata delle greggi...

 

E se, per assurdo, il problema in montagna non fossero i lupi, ma la presenza dei montanari?

 

Il lupo ha acceso lo scontro tra chi vive la montagna ogni giorno e chi semplicemente la difende, forse idealizzandola, immaginandola diversa: un grande laboratorio di biodiversità e convivenza ecologica nel cuore della vecchia Europa.

 

Il lupo è un catalizzatore di contraddizioni.




Porta un messaggio ancestrale e modernissimo. Ci dice che esiste la natura primitiva e che siamo in grado di annientarla, lo facciamo ogni giorno, tagliando un pezzo di noi. Perché noi siamo natura. Da questione ecologica è diventata questione ideologica. Visto da sinistra il lupo è un simbolo di libertà, visto da destra è un impostore. Visto da sinistra il difensore del lupo è un uomo di pace, visto da destra il giustiziere del lupo è un uomo d’ordine.

 

Ma il lupo non mangia solo gli ungulati, sfoltendo i capi in eccesso, il lupo mangia anche le pecore. E allora ecco il problema: come giustificare le pecore sbranate dal lupo? Non c’è figura più pacifica dell’agnello e non c’è immagine più prevaricatrice di chi gli beve sopra al ruscello (‘superior stabat lupus’) eppure lo incolpa di sporcargli l’acqua. La pecora rovescia gli schemi perché rappresenta la parte indifesa e oppressa, innegabile simbolo di sinistra.

 

Dunque il lupo da che parte sta?




Il cortocircuito ideologico è evidente, ma lui non c’entra. Pecore e lupi dovrebbero essere creature apolitiche come la luna, le farfalle e le stelle alpine. La politica appartiene all’uomo, avverte Wisława Szymborska: Siamo figli dell’epoca, l’epoca è politica. Tutte le tue, nostre, vostre faccende diurne, notturne sono faccende politiche... Perfino per campi, per boschi fai passi politici su uno sfondo politico... Il mangiatore di pecore sta spaccando la nostra società – almeno la comunità piemontese, ma anche quella francese – in due partiti agguerriti e distinti, senza se e senza ma; il lupo calamita estremismi e divisioni all’ultimo sangue. Ormai è diventato come il TAV: o stai di qua o stai di là, ugualmente sdegnato, senza mezze misure.

 

Come il treno ad alta velocità, le pale eoliche, gli organismi geneticamente modificati e altre cento questioni di questa confusa epoca politica, il lupo non è più un tema o un problema su cui riflettere. È un tabù ideologico. I pensieri non contano: conta l’appartenenza. La questione è recente ma ha solidi fondamenti storici. Il lupo era già un simbolo bipolare ben prima di essere cacciato, sterminato, cancellato dall’arco alpino. L’archetipo risale a molti secoli fa, come osserva lo storico Gherardo Ortalli: nessun altro selvatico è stato nell’età di mezzo altrettanto pensato, temuto, riconsiderato, tenuto presente, in un contesto generale per cui davvero è lecito chiedersi se la presenza del lupo fosse più inquietante o familiare per gli uomini del tempo.




…E il mondo medievale non soltanto lo combatté, ma di lui anche parlò, scrisse, pensò con un’intensità e una tensione tali da rimodellarne l’immagine in termini nuovi rispetto al passato, mettendo a punto una nuova cultura dell’animale. È nel Medioevo che nasce la figura del lupo ‘cattivo’. Ha successo e si afferma nei secoli successivi. Nel 1573, in un famoso e apprezzato trattato sulla Venerie, Jacques du Fouilloux afferma senza tema di smentita che

 

‘fra tutti gli animali selvatici il lupo è sicuramente il più malvagio, quello che più fa danno, il più nocivo, quello che merita di essere cercato, inseguito e cacciato dai cani e dagli uomini’.

 

E tre secoli più tardi, nel 1863, il barone Dunoyer de Noirmont sostiene ancora con convinzione che

 

‘di tutte le grandi cacce, quella al lupo è la sola che abbia un carattere di utilità pubblica’.




Secondo la credenza popolare il lupo attacca i bambini che portano al pascolo gli animali domestici. Il lupo non è solo un predatore di pecore, è anche un perfido infanticida. Le favole non l’hanno aiutato: oltre a Cappuccetto rosso, che ha colorato l’infanzia di molte generazioni, con il ‘cattivo’ si confrontano i Tre porcellini di Orchard Halliwell-Phillipps e il Pierino della fiaba russa musicata da Prokof’ev. Il lupo ha suggerito il nome del quartiere Louvre di Parigi e cento inquietanti toponimi nostrani: Prà del luv, Buel del lovo, Tana du luvu, Passo d’a lupa, Lova, Lupari, Lupicello, Lupaia, Lupicaia, Lupareccia...

 

L’epoca dei computer ha riportato i lupi sulle Alpi, non gli strumenti culturali per una convivenza tra uomini e lupi. Così nascono leghe ‘per la difesa dell’uomo dal lupo’ che impattano con le fedi di natura opposta. I montanari di Barcellonette fondano l’unione degli Indignati dell’Ubaye dichiarandosi neutrali ‘perché nessuno di noi è allevatore; agiamo semplicemente mossi dal buon senso a fronte delle flagranti ingiustizie determinate dalla presenza dei lupi che minacciano il mondo della pastorizia’.

 

Gli Indignati precisano: ‘Questa secolare attività fa parte del nostro patrimonio umano, storico e naturale, occorre proteggerla e incoraggiarla, ne dipende la qualità dell’ambiente’.




Sempre in Francia, nel 2015 le prefetture autorizzano l’abbattimento di una trentina di lupi dove la densità ha superato il limite di tolleranza. Per esempio in Savoia e nel Dévoluy. All’inizio di settembre gli allevatori infuriati sequestrano il presidente, il direttore e un collaboratore del Parco nazionale della Vanoise per quindici ore. Yves Derbez, presidente dell’associazione degli allevatori di alta quota, dice chiaro e tondo: ‘tra noi e i lupi la coabitazione non è possibile. Vogliono che teniamo in piedi un allevamento di montagna di qualità o vogliono i lupi? Se il governo sceglie la prima opzione, i lupi vanno sterminati tutti. Non c’è alternativa’.




Ogni partito ha le sue ragioni, anche se si scrivono e raccontano un sacco di sciocchezze: che i lupi sono migliaia, che agiscono in branco contro le persone, che attaccano gli escursionisti. In campagna elettorale un politico cuneese ha perfino scambiato il numero dei lupi con quello delle pecore. A tali assurdità si contrappone la semplificazione romantica di alcuni osservatori esterni, che non hanno pecore da difendere e vivono la montagna come la proiezione festiva di un sogno. Per questi cittadini, che probabilmente non lo incontreranno mai, il lupo è sempre quello delle favole, ma è diventato buono e giusto. Spesso la tolleranza degli amici del lupo sfocia in aperta simpatia, come testimoniano i duecentoquarantasei racconti che tra il 2011 e il 2012 hanno partecipato al concorso ‘Lupus in fabula’ della Fondation Grand Paradis, in Valle d’Aosta. Gli autori del concorso stanno quasi tutti dalla parte del cattivo, ignorando i problemi del rapporto uomo-lupo, pastore-predatore, domestico-selvatico.




Il conflitto, quando c’è, si stempera nella metafora morale (lupo buono e mondo malvagio) e sfocia nella vecchia antitesi tra natura innocente e civiltà pervertita. I bambini capiscono gli animali perché conservano lo stupore e la pietà, gli adulti uccidono perché sono accecati dal cinismo e dal materialismo. I racconti in concorso ribadiscono il mito romantico della città corrotta, anche se poi nella realtà, paradossalmente, sono i cittadini a prendere le difese del lupo.

 

Intanto la bestia scorrazza impunemente nei territori più caldi di storia, su montagne lavorate e abitate, convergendo sul triangolo magnetico del Monviso. Ancora lui, il Viso, la montagna dei piemontesi, che da quando la Regione Piemonte ha deciso di farne un parco pare l’ombelico del mondo. Lo tirano per la giacca come il lupo, da destra e sinistra. Grandi odi e grandi amori. 




Nel 2015 passa la legge regionale e s’insedia il nuovo Ente di gestione delle Aree protette del Monviso, che governa sulla vecchia Riserva del Pian del Re alle sorgenti del Po e sugli altri territori di pregio naturalistico. Il parco sale in cima al re di pietra e scende a proteggere gli altipiani tempestati di laghi multicolori, abbassandosi fino alla cembreta dell’Alevé in Val Varaita, nel giardino della Castellata. Le reazioni non si fanno attendere. Il 16 agosto 2015 il pittoresco sindaco di Casteldelfino, Domenico Amorisco, dichiara il lutto cittadino. Bandiera a mezz’asta e lutto al braccio. All’Assunta il sindaco fa la faccia scura e spiega:

 

‘Sarà il funerale della montagna, non una festa di paese; avremo candele al posto delle fiaccole’.

 

‘Perché?’, chiedono i giornalisti.




Perché il parco ‘è stato un omicidio politico e noi non possiamo farci niente, solo piangere come si piange un caro che muore’.

 

Poi la protesta si estende alla Val Maira, che si affaccia sul Monviso dal Colle di Sampeyre. Nelle fiere di ottobre gira una petizione intitolata ‘Laissatz-nosviure, lasciateci vivere!’. Il foglio porta due sottotitoli inequivocabili: ‘Basta lupi!’ e ‘Basta parchi!’.

 

Gli attacchi ripetuti contro le nostre greggi e mandrie vanno fermati: col fucile! Salviamo i pascoli, il nostro antico lavoro, il paesaggio alpino! I Parchi sono solo un business sostenuto artificialmente dall’Europa, ultima forma moderna di colonialismo cittadino. L’ambiente alpino è stato per secoli ben custodito dai montanari senza vincoli e controlli esterni. L’unica specie vivente a rischio di sopravvivenza sulle Alpi è l’uomo, in particolare l’uomo che coltiva la terra e alleva bestiame, i giovani e le famiglie: nelle valli oggi ci sono più lupi che bambini, più branchi di predatori che scuole!




La tesi è condivisa da tutti gli allevatori e da una parte della popolazione. I cacciatori sono contro il parco, gli artigiani sono indifferenti, gli operatori turistici si dividono tra chi non vuole vincoli e chi vede opportunità. I più avveduti sanno che un parco non vuol dire niente se resta una scatola vuota, mentre potrebbe diventare un logo straordinario se raccontasse al mondo gli incanti del Monviso, i suoi passati storici, la meraviglia di un monte che sorveglia la pianura come un dio pagano.

 

Nella ridda di voci favorevoli e contrarie al parco si distingue un’osservazione di ‘Nunatak’, la rivista di ‘storie, culture, lotte della montagna’, che nasce in Val Chisone. Il numero di settembre 2015 pubblica un articolo dal titolo L’istituzione di un parco non ha niente di naturale, firmato Giulio e Fra’, che nelle prime pagine argomentano: la montagna diventa area ‘protetta’ da chi attorno ad essa ha fatto il vuoto, devastando senza pietà.

 

Ed è questo uno dei punti su cui si basa la nostra critica: chi gestisce, promuove, finanzia il parco è principalmente lo stesso insieme di enti e soggetti responsabili dei peggiori scempi in valli probabilmente limitrofe... Le Alpi si sono trovate ad essere vendute all’interno della cultura di massa come depositarie di quella natura ‘selvaggia’ e ‘incontaminata’... creata su misura per il cittadino alienato dalla civiltà del cemento.

 

(E. Camanni)