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Prosegue con alcune...:
MA LUI DA CHE PARTE STA?
Il lupo
Ligabue si è appena ripreso da un terribile incidente sulla tangenziale di Parma.
L’hanno curato bene, è guarito e hanno deciso di restituirlo alla montagna; gli
zoologi lo seguiranno sui monitor per vedere quanta strada fa. L’11 marzo 2004
gli fissano al collo il rilevatore satellitare e lo lanciano in una faggeta.
Ligabue
sembra contento, anche se i lupi hanno sempre gli occhi tristi. Dopo una
ragionevole convalescenza sul crinale appenninico sente il richiamo del nord e
comincia il suo viaggio: Toscana, Emilia, Lombardia, Liguria, Piemonte. Nella
notte tra il 28 e il 29 settembre arriva sulle Alpi Matittime, al confine con
la Francia. Sono belle le Marittime a settembre: i cirri filano il cielo e le
nebbie appannano le distanze. Il satellite dice che Ligabue ha percorso
cinquecentosessanta chilometri, ma probabilmente ne ha camminati il doppio.
Il lupo ha
inventato il trekking prima dell’uomo.
Poi viene l’inverno e il segnale luminoso si ferma. E anche la vita di Ligabue. Il 17 febbraio 2005 lo trovano morto in Valle Pesio, sui monti di Mondovì. Ligabue è la prova che i lupi sono arrivati da soli. Anche se molti sostengono il contrario, non sono stati reintrodotti da naturalisti sconsiderati ma sono saliti sulle loro zampe dagli Appennini alle Alpi. Un passo dopo l’altro, in cerca di cibo, foresta e territorio. Adesso sono in Piemonte, e inquietano, e danno fastidio. Il lupo è il ribelle per eccellenza, fuorilegge e fuoritempo, perché rappresenta quello che non siamo più: la natura selvaggia, il coraggio di andare, l’emozione primordiale. La bestia ribelle abita terre ribelli.
Il centro
di gravità dei lupi al tempo di internet oscilla tra le Alpi del mare e le
valli di Cuneo, Saluzzo, Pinerolo e Susa, attraversando i luoghi che furono
presidiati dai partigiani di Nuto Revelli, i crinali del comandante valdese
Janavel, i villaggi delle rivendicazioni occitane, i boschi dei No TAV e della
resistenza valsusina. Il ritorno del lupo ha fatto scalpore, scatenando una disputa
furibonda tra i suoi amici, perlopiù ambientalisti e gente di città, e i suoi
detrattori: montanari, pastori, allevatori.
Molti
valligiani non lo sopportano.
Mariano Allocco, voce ascoltata nelle valli del Cuneese, scrive dalla Val Maira: parliamoci chiaro, la presunzione della convivenza possibile tra predatore e animali in alpeggio è un assunto ideologico. In Val Maira l’alpeggio ovino ha chiuso e tra breve andrà ridiscusso quello brado di bovini ed equini e l’alpeggio così come lo si è gestito per secoli non sarà più possibile. Il piano di difesa degli ovini dal lupo della Regione Piemonte prevede la sorveglianza continua del gregge, il confinamento notturno degli animali, i cani da guardiania, i dissuasori acustici, la gestione coordinata delle greggi...
E se, per
assurdo, il problema in montagna non fossero i lupi, ma la presenza dei
montanari?
Il
lupo ha acceso lo scontro tra chi vive la montagna ogni giorno e chi semplicemente
la difende, forse idealizzandola, immaginandola diversa: un grande laboratorio
di biodiversità e convivenza ecologica nel cuore della vecchia Europa.
Il lupo è
un catalizzatore di contraddizioni.
Porta un messaggio ancestrale e modernissimo. Ci dice che esiste la natura primitiva e che siamo in grado di annientarla, lo facciamo ogni giorno, tagliando un pezzo di noi. Perché noi siamo natura. Da questione ecologica è diventata questione ideologica. Visto da sinistra il lupo è un simbolo di libertà, visto da destra è un impostore. Visto da sinistra il difensore del lupo è un uomo di pace, visto da destra il giustiziere del lupo è un uomo d’ordine.
Ma il lupo
non mangia solo gli ungulati, sfoltendo i capi in eccesso, il lupo mangia anche
le pecore. E allora ecco il problema: come giustificare le pecore sbranate dal
lupo? Non c’è figura più pacifica dell’agnello e non c’è immagine più
prevaricatrice di chi gli beve sopra al ruscello (‘superior stabat lupus’) eppure lo incolpa di sporcargli l’acqua.
La pecora rovescia gli schemi perché rappresenta la parte indifesa e oppressa,
innegabile simbolo di sinistra.
Dunque il lupo da che parte sta?
Il cortocircuito ideologico è evidente, ma lui non c’entra. Pecore e lupi dovrebbero essere creature apolitiche come la luna, le farfalle e le stelle alpine. La politica appartiene all’uomo, avverte Wisława Szymborska: Siamo figli dell’epoca, l’epoca è politica. Tutte le tue, nostre, vostre faccende diurne, notturne sono faccende politiche... Perfino per campi, per boschi fai passi politici su uno sfondo politico... Il mangiatore di pecore sta spaccando la nostra società – almeno la comunità piemontese, ma anche quella francese – in due partiti agguerriti e distinti, senza se e senza ma; il lupo calamita estremismi e divisioni all’ultimo sangue. Ormai è diventato come il TAV: o stai di qua o stai di là, ugualmente sdegnato, senza mezze misure.
Come il
treno ad alta velocità, le pale eoliche, gli organismi geneticamente modificati
e altre cento questioni di questa confusa epoca politica, il lupo non è più un
tema o un problema su cui riflettere. È un tabù ideologico. I pensieri non
contano: conta l’appartenenza. La questione è recente ma ha solidi fondamenti
storici. Il lupo era già un simbolo bipolare ben prima di essere cacciato,
sterminato, cancellato dall’arco alpino. L’archetipo risale a molti secoli fa,
come osserva lo storico Gherardo Ortalli: nessun altro selvatico è stato
nell’età di mezzo altrettanto pensato, temuto, riconsiderato, tenuto presente,
in un contesto generale per cui davvero è lecito chiedersi se la presenza del
lupo fosse più inquietante o familiare per gli uomini del tempo.
…E il mondo medievale non soltanto lo combatté, ma di lui anche parlò, scrisse, pensò con un’intensità e una tensione tali da rimodellarne l’immagine in termini nuovi rispetto al passato, mettendo a punto una nuova cultura dell’animale. È nel Medioevo che nasce la figura del lupo ‘cattivo’. Ha successo e si afferma nei secoli successivi. Nel 1573, in un famoso e apprezzato trattato sulla Venerie, Jacques du Fouilloux afferma senza tema di smentita che
‘fra tutti
gli animali selvatici il lupo è sicuramente il più malvagio, quello che più fa
danno, il più nocivo, quello che merita di essere cercato, inseguito e cacciato
dai cani e dagli uomini’.
E tre
secoli più tardi, nel 1863, il barone
Dunoyer de Noirmont sostiene ancora con convinzione che
‘di tutte
le grandi cacce, quella al lupo è la sola che abbia un carattere di utilità
pubblica’.
Secondo la credenza popolare il lupo attacca i bambini che portano al pascolo gli animali domestici. Il lupo non è solo un predatore di pecore, è anche un perfido infanticida. Le favole non l’hanno aiutato: oltre a Cappuccetto rosso, che ha colorato l’infanzia di molte generazioni, con il ‘cattivo’ si confrontano i Tre porcellini di Orchard Halliwell-Phillipps e il Pierino della fiaba russa musicata da Prokof’ev. Il lupo ha suggerito il nome del quartiere Louvre di Parigi e cento inquietanti toponimi nostrani: Prà del luv, Buel del lovo, Tana du luvu, Passo d’a lupa, Lova, Lupari, Lupicello, Lupaia, Lupicaia, Lupareccia...
L’epoca dei
computer ha riportato i lupi sulle Alpi, non gli strumenti culturali per una
convivenza tra uomini e lupi. Così nascono leghe ‘per la difesa dell’uomo dal
lupo’ che impattano con le fedi di natura opposta. I montanari di Barcellonette
fondano l’unione degli Indignati dell’Ubaye dichiarandosi neutrali ‘perché
nessuno di noi è allevatore; agiamo semplicemente mossi dal buon senso a fronte
delle flagranti ingiustizie determinate dalla presenza dei lupi che minacciano
il mondo della pastorizia’.
Gli
Indignati precisano: ‘Questa secolare attività fa parte del nostro patrimonio
umano, storico e naturale, occorre proteggerla e incoraggiarla, ne dipende la
qualità dell’ambiente’.
Sempre in Francia, nel 2015 le prefetture autorizzano l’abbattimento di una trentina di lupi dove la densità ha superato il limite di tolleranza. Per esempio in Savoia e nel Dévoluy. All’inizio di settembre gli allevatori infuriati sequestrano il presidente, il direttore e un collaboratore del Parco nazionale della Vanoise per quindici ore. Yves Derbez, presidente dell’associazione degli allevatori di alta quota, dice chiaro e tondo: ‘tra noi e i lupi la coabitazione non è possibile. Vogliono che teniamo in piedi un allevamento di montagna di qualità o vogliono i lupi? Se il governo sceglie la prima opzione, i lupi vanno sterminati tutti. Non c’è alternativa’.
Ogni partito ha le sue ragioni, anche se si scrivono e raccontano un sacco di sciocchezze: che i lupi sono migliaia, che agiscono in branco contro le persone, che attaccano gli escursionisti. In campagna elettorale un politico cuneese ha perfino scambiato il numero dei lupi con quello delle pecore. A tali assurdità si contrappone la semplificazione romantica di alcuni osservatori esterni, che non hanno pecore da difendere e vivono la montagna come la proiezione festiva di un sogno. Per questi cittadini, che probabilmente non lo incontreranno mai, il lupo è sempre quello delle favole, ma è diventato buono e giusto. Spesso la tolleranza degli amici del lupo sfocia in aperta simpatia, come testimoniano i duecentoquarantasei racconti che tra il 2011 e il 2012 hanno partecipato al concorso ‘Lupus in fabula’ della Fondation Grand Paradis, in Valle d’Aosta. Gli autori del concorso stanno quasi tutti dalla parte del cattivo, ignorando i problemi del rapporto uomo-lupo, pastore-predatore, domestico-selvatico.
Il conflitto, quando c’è, si stempera nella metafora morale (lupo buono e mondo malvagio) e sfocia nella vecchia antitesi tra natura innocente e civiltà pervertita. I bambini capiscono gli animali perché conservano lo stupore e la pietà, gli adulti uccidono perché sono accecati dal cinismo e dal materialismo. I racconti in concorso ribadiscono il mito romantico della città corrotta, anche se poi nella realtà, paradossalmente, sono i cittadini a prendere le difese del lupo.
Intanto la bestia scorrazza impunemente nei territori più caldi di storia, su montagne lavorate e abitate, convergendo sul triangolo magnetico del Monviso. Ancora lui, il Viso, la montagna dei piemontesi, che da quando la Regione Piemonte ha deciso di farne un parco pare l’ombelico del mondo. Lo tirano per la giacca come il lupo, da destra e sinistra. Grandi odi e grandi amori.
Nel 2015 passa la legge regionale e s’insedia il nuovo Ente di gestione delle Aree protette del Monviso, che governa sulla vecchia Riserva del Pian del Re alle sorgenti del Po e sugli altri territori di pregio naturalistico. Il parco sale in cima al re di pietra e scende a proteggere gli altipiani tempestati di laghi multicolori, abbassandosi fino alla cembreta dell’Alevé in Val Varaita, nel giardino della Castellata. Le reazioni non si fanno attendere. Il 16 agosto 2015 il pittoresco sindaco di Casteldelfino, Domenico Amorisco, dichiara il lutto cittadino. Bandiera a mezz’asta e lutto al braccio. All’Assunta il sindaco fa la faccia scura e spiega:
‘Sarà il
funerale della montagna, non una festa di paese; avremo candele al posto delle
fiaccole’.
‘Perché?’,
chiedono i giornalisti.
Perché il parco ‘è stato un omicidio politico e noi non possiamo farci niente, solo piangere come si piange un caro che muore’.
Poi la
protesta si estende alla Val Maira, che si affaccia sul Monviso dal Colle di
Sampeyre. Nelle fiere di ottobre gira una petizione intitolata ‘Laissatz-nosviure,
lasciateci vivere!’. Il foglio porta due sottotitoli inequivocabili: ‘Basta lupi!’
e ‘Basta parchi!’.
Gli
attacchi ripetuti contro le nostre greggi e mandrie vanno fermati: col fucile!
Salviamo i pascoli, il nostro antico lavoro, il paesaggio alpino! I Parchi sono
solo un business sostenuto artificialmente dall’Europa, ultima forma moderna di
colonialismo cittadino. L’ambiente alpino è stato per secoli ben custodito dai
montanari senza vincoli e controlli esterni. L’unica specie vivente a rischio
di sopravvivenza sulle Alpi è l’uomo, in particolare l’uomo che coltiva la
terra e alleva bestiame, i giovani e le famiglie: nelle valli oggi ci sono più
lupi che bambini, più branchi di predatori che scuole!
La tesi è condivisa da tutti gli allevatori e da una parte della popolazione. I cacciatori sono contro il parco, gli artigiani sono indifferenti, gli operatori turistici si dividono tra chi non vuole vincoli e chi vede opportunità. I più avveduti sanno che un parco non vuol dire niente se resta una scatola vuota, mentre potrebbe diventare un logo straordinario se raccontasse al mondo gli incanti del Monviso, i suoi passati storici, la meraviglia di un monte che sorveglia la pianura come un dio pagano.
Nella ridda
di voci favorevoli e contrarie al parco si distingue un’osservazione di ‘Nunatak’,
la rivista di ‘storie, culture, lotte della montagna’, che nasce in Val
Chisone. Il numero di settembre 2015
pubblica un articolo dal titolo L’istituzione di un parco non ha niente di
naturale, firmato Giulio e Fra’, che nelle prime pagine argomentano: la
montagna diventa area ‘protetta’ da chi attorno ad essa ha fatto il vuoto,
devastando senza pietà.
Ed è questo
uno dei punti su cui si basa la nostra critica: chi gestisce, promuove,
finanzia il parco è principalmente lo stesso insieme di enti e soggetti
responsabili dei peggiori scempi in valli probabilmente limitrofe... Le Alpi si
sono trovate ad essere vendute all’interno della cultura di massa come
depositarie di quella natura ‘selvaggia’ e ‘incontaminata’... creata su misura
per il cittadino alienato dalla civiltà del cemento.
(E. Camanni)
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