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& al suo cammello)
Silenzio del Tempo (29)
Silenzio del Tempo (29)
Un saggio monaco
buddista narra una storia alquanto strana, prima degli albori dell’èra pagana o
cristiana, era solito dimorare presso delle grotte ove il legno quanto la
pietra cantavano - durante l’intero arco temporale delle stagioni - le loro
strofe i propri inni. Molti Esseri divenuti Elementi dall’apparente inanimato
al simmetrico suono udito, una goccia una foglia un fruscio di vento, lo
raggiungevano lo studiavano, e talvolta si accorgeva anche, lo accompagnavano e
contemplavano, e nella sua Anima, quando da fuori dalla città giungeva festa,
in lui si riponevano e riparavano.
Con gli anni il mistico asceta, colpa la
dura vita a cui esposto nel desiderio del Dio contemplato, enumerava ferite e
dolori, pregava e a Lui raccontava tal disgrazia chiedendo il beneficio della
forza non ancor grazia, di poter sopportare, oltre il dolore morale dell’altrui
ignoranza, anche quello della rigida condizione cui ognuno soggetto causa il
tempo divenuto materia. Gli anni ed i secoli come le stagioni passarono, il
vecchio monaco pregava all’ombra d’ogni albero, e questi dopo il tempo da
entrambi condiviso gli fecero dono del Genio. Esseri animati dalla linfa strofa
di Vita lo elevano sin al di sopra dell’umida crosta - dell’umida grotta - al
di sopra della materia; altri gli si avvicinano, un altro dèmone lo attende
all’uscio non vuole lasciare quel suo fratello all’intemperie dei capricci
divenuti ingiurie del tempo.
Guarì ogni sua ferita dall’alba sino alla sera,
pregando per lui, pur non coniugando una sola nota non ancor parola, eccetto
tutte quelle (precedenti) dall’alto d’un cielo all’improvviso sereno, cantare
ed apostrofare ogni Inno. Lo guarì del dolore della materia dimostrandogli, in
ogni silente hora della solitudine con lui condivisa, congiungersi alla voce o
tante note di un Dio fors’anche tanti Dèi dell’Universo intero. L’asceta non
rivelò il segreto eccetto dopo essersi mascherato dell’altrui malattia così da
poter esorcizzare il male per sempre combattuto, il Dio (da loro) pregato non
avrebbe mai permesso che tal miracolo o peccato… venga curato…
L’Egitto
antico è stato la terra classica del misticismo, così individuale come
associato. I templi delle divinità egiziane sono stati palestre, nelle quali
gli Spiriti si sono pazientemente addestrati all’esercizio dell’ascesi e al conseguimento
della beatifica contemplazione.
I sapienti dell’Egitto ritenevano che la sola
forma di adorazione appropriata alla sacra maestà divina fosse quel culto
interno dello Spirito che si esplica nel
silenzio e si celebra nell’occulto. Un senso profondo dell’intima
familiarità col mondo delle realtà soprannaturali accompagna l’esplicazione
della vita religiosa nella valle del Nilo.
Giamblico, trattando dei misteri egiziani, descrive con minuta precisione i caratteri
differenziali che distinguono le epifanie degli dei da quelle degli angeli, dei
demoni, degli arconti, delle anime. La misteriosofia egiziana ha impregnato di sé,
nelle sue forme più raffinate, la speculazione neoplatonica.
Plotino allude molto spesso alle consuetudini liturgiche
proprie dei templi della sua patria. Egli colma di vituperi coloro che nelle
solennità religiose si danno alla gozzoviglia, ‘reputando simile godimento
quasi più certo che la visione del dio’ e che, non avendo praticato l’astinenza
necessaria, sono incapaci di partecipare ai misteri. E poiché nelle cerimonie rituali
il dio non discopre ad essi il suo volto, essi lasciano di credere alla sua
esistenza.
Duro invece
e il sentiero del possesso divino. Per giungervi, occorre, secondo Plotino, che l’uomo si affranchi da ogni
sensazione, si spogli di ogni desiderio, si liberi da ogni passione, pronto a
rimanere solo a solo con l’Uno.
La Monade infatti non può rivelarsi e comunicarsi
ad una Diade, quale sarebbe la ragione, espressa attraverso la parola:
ama bensì l’adorazione silenziosa.
Nel segreto
di questo culto ineffabile si raggiunge in qualche modo un’anticipazione della
immortalità beata. Il mista che ha gustato nell’epoptea il piacere del divino
possesso, ha avuto presagio di quella che sarà la felicità eterna nel regno dei
morti, quando egli vivrà in una interminabile contemplazione della divinità,
che l’aveva antecedentemente ammesso, attraverso la gnosi, alla sua
dimestichezza.
Sulla terra
che aveva visto sbocciare forme così elevate di religiosità mistica,
l’ascetismo e il cenobitismo cristiano gettavano nel quarto secolo le più
profonde e salde loro radici. Corrono fra
i due movimenti spirituali delle pure analogie astratte e dei semplici
avvicinamenti e parallelismi esteriori, o non più tosto dei vincoli concreti di
successione cronologica e di dipendenza causale?
Il monachismo del resto, non va reputato affatto come
un fenomeno tipicamente cristiano. Esso aveva avuto dei precedenti perfettamente
analoghi e consanguinei nelle forme pratiche della religione egiziana (derivata
però…), e precisamente nel recinto del Serapeo, nell’ambito cioè di
quell’insieme di edifici che la pietà e le esigenze dei servizi liturgici
avevano innalzato, ad ovest di Menfi, lungo la pianura che di fronte al Nilo
costeggia la montagna libica, sulle sepolture ospitanti le spoglie dei tori
sacri.
Il giudaismo dell’epoca ellenistica conosce anch’esso, così
in Palestina come nella Dispersione, forme costituite di esperienza ascetica, a
cui si è fatto appello, come a modelli precostituiti del cenobitismo cristiano.
Il più abbondante testimone della loro esistenza e delle loro pratiche è, lo si
comprende, quell’interprete sottile e raffinato della tradizione storica del
giudaismo, il quale, posto cronologicamente a cavallo fra l’economia religiosa del
Vecchio Testamento e il messaggio del Nuovo, ha elaborato della prima
interpretazioni allegoriche così elevate e ha offerto, inconsapevolmente, alla
propagazione del secondo, motivi ideali così appropriati e così fecondi:
Filone di Alessandria.
La vita di
questo esegeta mistico impareggiabile dell’insegnamento biblico ci è frammentariamente
nota. Solo un episodio della sua carriera pubblica ci è da lui stesso narrato
per disteso. Nel 40 d. Cr., già avanti negli anni, Filone veniva a Roma a capo di una missione giudaica, inviata dalla
comunità alessandrina, per portare a Caligola la protesta degli israeliti del
grande emporio egiziano, contro le ostilità implacabili delle autorità
cittadine e della popolazione.
Le
dissertazioni filoniane non sono mai dettate con intenti aridamente speculativi
e rigorosamente argomentativi. Della filosofia, cui egli del resto in alcuni
passi delle sue opere mostra di attribuire un valore tutt’altro che assoluto, Filone si serve unicamente come di guida
e di propedeutica alla religione. L’esegeta alessandrino non è un dialettico: è
un maestro di morale ed un mistico, che dissolve la rigidezza delle tradizioni
ricevute nella plastica applicazione del simbolo, preparando così il transito
dalla vecchia economia della legge alla nuova ed ineffabile disciplina della
salvezza carismatica.
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