CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

sabato 9 novembre 2019

IL MISTICO SILENTE (28)




















Precedenti capitoli:

Quando l'Anima era pura (26)  &  (27)

Prosegue nel...:

Silenzio del Tempo (29)














Un saggio monaco buddista narra una storia alquanto strana, prima degli albori dell’èra pagana o cristiana, era solito dimorare presso delle grotte ove il legno quanto la pietra cantavano - durante l’intero arco temporale delle stagioni - le loro strofe i propri inni. Molti Esseri divenuti Elementi dall’apparente inanimato al simmetrico suono udito, una goccia una foglia un fruscio di vento, lo raggiungevano lo studiavano, e talvolta si accorgeva anche, lo accompagnavano e contemplavano, e nella sua Anima, quando da fuori dalla città giungeva festa, in lui si riponevano e riparavano. 




Con gli anni il mistico asceta, colpa la dura vita a cui esposto nel desiderio del Dio contemplato, enumerava ferite e dolori, pregava e a Lui raccontava tal disgrazia chiedendo il beneficio della forza non ancor grazia, di poter sopportare, oltre il dolore morale dell’altrui ignoranza, anche quello della rigida condizione cui ognuno soggetto causa il tempo divenuto materia. Gli anni ed i secoli come le stagioni passarono, il vecchio monaco pregava all’ombra d’ogni albero, e questi dopo il tempo da entrambi condiviso gli fecero dono del Genio. Esseri animati dalla linfa strofa di Vita lo elevano sin al di sopra dell’umida crosta - dell’umida grotta - al di sopra della materia; altri gli si avvicinano, un altro dèmone lo attende all’uscio non vuole lasciare quel suo fratello all’intemperie dei capricci divenuti ingiurie del tempo. 




Guarì ogni sua ferita dall’alba sino alla sera, pregando per lui, pur non coniugando una sola nota non ancor parola, eccetto tutte quelle (precedenti) dall’alto d’un cielo all’improvviso sereno, cantare ed apostrofare ogni Inno. Lo guarì del dolore della materia dimostrandogli, in ogni silente hora della solitudine con lui condivisa, congiungersi alla voce o tante note di un Dio fors’anche tanti Dèi dell’Universo intero. L’asceta non rivelò il segreto eccetto dopo essersi mascherato dell’altrui malattia così da poter esorcizzare il male per sempre combattuto, il Dio (da loro) pregato non avrebbe mai permesso che tal miracolo o peccato… venga curato…





                  
L’Egitto antico è stato la terra classica del misticismo, così individuale come associato. I templi delle divinità egiziane sono stati palestre, nelle quali gli Spiriti si sono pazientemente addestrati all’esercizio dell’ascesi e al conseguimento della beatifica contemplazione.

I sapienti dell’Egitto ritenevano che la sola forma di adorazione appropriata alla sacra maestà divina fosse quel culto interno dello Spirito che si esplica nel silenzio e si celebra nell’occulto. Un senso profondo dell’intima familiarità col mondo delle realtà soprannaturali accompagna l’esplicazione della vita religiosa nella valle del Nilo.




Giamblico, trattando dei misteri egiziani, descrive con minuta precisione i caratteri differenziali che distinguono le epifanie degli dei da quelle degli angeli, dei demoni, degli arconti, delle anime. La misteriosofia egiziana ha impregnato di sé, nelle sue forme più raffinate, la speculazione neoplatonica.

Plotino allude molto spesso alle consuetudini liturgiche proprie dei templi della sua patria. Egli colma di vituperi coloro che nelle solennità religiose si danno alla gozzoviglia, ‘reputando simile godimento quasi più certo che la visione del dio’ e che, non avendo praticato l’astinenza necessaria, sono incapaci di partecipare ai misteri. E poiché nelle cerimonie rituali il dio non discopre ad essi il suo volto, essi lasciano di credere alla sua esistenza.




Duro invece e il sentiero del possesso divino. Per giungervi, occorre, secondo Plotino, che l’uomo si affranchi da ogni sensazione, si spogli di ogni desiderio, si liberi da ogni passione, pronto a rimanere solo a solo con l’Uno.

La Monade infatti non può rivelarsi e comunicarsi ad una Diade, quale sarebbe la ragione, espressa attraverso la parola:

ama bensì l’adorazione silenziosa.

Nel segreto di questo culto ineffabile si raggiunge in qualche modo un’anticipazione della immortalità beata. Il mista che ha gustato nell’epoptea il piacere del divino possesso, ha avuto presagio di quella che sarà la felicità eterna nel regno dei morti, quando egli vivrà in una interminabile contemplazione della divinità, che l’aveva antecedentemente ammesso, attraverso la gnosi, alla sua dimestichezza.




Sulla terra che aveva visto sbocciare forme così elevate di religiosità mistica, l’ascetismo e il cenobitismo cristiano gettavano nel quarto secolo le più profonde e salde loro radici. Corrono fra i due movimenti spirituali delle pure analogie astratte e dei semplici avvicinamenti e parallelismi esteriori, o non più tosto dei vincoli concreti di successione cronologica e di dipendenza causale?

Il monachismo del resto, non va reputato affatto come un fenomeno tipicamente cristiano. Esso aveva avuto dei precedenti perfettamente analoghi e consanguinei nelle forme pratiche della religione egiziana (derivata però…), e precisamente nel recinto del Serapeo, nell’ambito cioè di quell’insieme di edifici che la pietà e le esigenze dei servizi liturgici avevano innalzato, ad ovest di Menfi, lungo la pianura che di fronte al Nilo costeggia la montagna libica, sulle sepolture ospitanti le spoglie dei tori sacri.




Il giudaismo dell’epoca ellenistica conosce anch’esso, così in Palestina come nella Dispersione, forme costituite di esperienza ascetica, a cui si è fatto appello, come a modelli precostituiti del cenobitismo cristiano. Il più abbondante testimone della loro esistenza e delle loro pratiche è, lo si comprende, quell’interprete sottile e raffinato della tradizione storica del giudaismo, il quale, posto cronologicamente a cavallo fra l’economia religiosa del Vecchio Testamento e il messaggio del Nuovo, ha elaborato della prima interpretazioni allegoriche così elevate e ha offerto, inconsapevolmente, alla propagazione del secondo, motivi ideali così appropriati e così fecondi:

Filone di Alessandria.




La vita di questo esegeta mistico impareggiabile dell’insegnamento biblico ci è frammentariamente nota. Solo un episodio della sua carriera pubblica ci è da lui stesso narrato per disteso. Nel 40 d. Cr., già avanti negli anni, Filone veniva a Roma a capo di una missione giudaica, inviata dalla comunità alessandrina, per portare a Caligola la protesta degli israeliti del grande emporio egiziano, contro le ostilità implacabili delle autorità cittadine e della popolazione.


Le dissertazioni filoniane non sono mai dettate con intenti aridamente speculativi e rigorosamente argomentativi. Della filosofia, cui egli del resto in alcuni passi delle sue opere mostra di attribuire un valore tutt’altro che assoluto, Filone si serve unicamente come di guida e di propedeutica alla religione. L’esegeta alessandrino non è un dialettico: è un maestro di morale ed un mistico, che dissolve la rigidezza delle tradizioni ricevute nella plastica applicazione del simbolo, preparando così il transito dalla vecchia economia della legge alla nuova ed ineffabile disciplina della salvezza carismatica. 













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