CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

lunedì 24 luglio 2023

OSSERVAZIONI

 









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& con la caccia e la tortura







26 febbraio, ore 08:52:34, annunciava come un ciak la scritta gialla al piede dell’inquadratura prima che il video inaugurale partisse. Ed ecco che apparve un topolino minuscolo intento ad annusare il terreno. Si aggirava lì di fronte, muovendosi a scatti. Il fruscio del suo zampettare che usciva dal computer sembrava provenire dalla realtà che ci circondava. Subito, istintivamente, gettai lo sguardo lì dove era passato. Il topolino sul monitor fece un giro su se stesso e trotterellando se ne andò, fino a sparire dietro l’albero in fondo allo slargo.




27 febbraio, ore 16:30:01, annunciava ancora la scritta sul primo fotogramma della seconda scena. C’era vento, le foglie che costituivano il tappeto marrone e giallo del sottobosco vibravano, alcune si sollevavano e partivano tra le raffiche. Entrò sulla scena un bestione, che subito, visto da dietro, non riconobbi. Era un cinghiale. Passò con il muso radente al terreno, fiutando con le narici dilatate e, seguito da un suo simile, si allontanò offrendo alla telecamera il suo immenso posteriore peloso.




27 febbraio, ore 22:01:44. L’inquadratura svelava che nel frattempo, in quelle quattro ore della sera del 27 gennaio, era caduta la neve. Una decina di centimetri. E in quel momento continuava a nevicare. Ma si era di notte, e la scena col buio aveva perso i colori. Di notte la telecamera a infrarossi registra in bianco e nero. Solo gli occhi degli animali, scoprii di lì a breve, se rivolti alla video-trappola, si illuminano di una luce giallognola. Sul fronte della scatoletta si trova un piccolo led, mi spiegava Paolo, che emana una luce rossa indispensabile alle riprese notturne. Col buio gli animali possono non accorgersi del puntino rosso che brilla sull’albero. Ma se osservano nella direzione giusta percepiscono un vago tremolio luminoso. A quel punto reagiscono nei modi più disparati: alcuni si spaventano e scappano, altri, incuriositi, si avvicinano posando il naso proprio sulla video-trappola per cercare qualche odore che gli sveli l’identità del misterioso puntino.




Ma ecco un cervo!

 

Si ferma. Si guarda intorno, e riprende a camminare nella neve che cade abbondante.

 

28 febbraio, ore 07:06:15. Ora, dopo l’intera notte di nevicata, una spessa coltre bianca ricopriva il sottobosco. Si sentì un lontano guaito, e poi fu lui ad entrare in scena: il lupo. Ne arrivò uno, poi un altro, e un altro ancora.




‘Eccoli’, esclamò Massimo di fronte al computer portatile. Alla fine erano in sei. Si fermarono nello spazio, e lì si aggirarono, lenti, come se volessero concedersi una pausa nella loro marcia nella luce dell’alba livida.

 

…Gli animali non sono rinchiusi in gabbia perché possano essere ammirati dagli spettatori come fossero statue viventi in rappresentanza dei loro più fortunati conspecifici in libertà. Qui gli animali vengono ospitati in ampi spazi aperti che riproducono il loro stesso ambiente vitale. Sono aree allestite principalmente per studiare il comportamento degli animali, in uno stato che si avvicina a quello di libertà, oppure, come in questo gestito da Massimo, per recuperare alla vita libera gli animali feriti.





‘Adesso mi raccomando la discrezione’, mi ammonì Massimo. Il punto di osservazione sul recinto di Merlino nel Centro recupero dei Sibillini si trova in cima a un ripido sentiero. È posto in modo – e questa è la sua specificità inderogabile – che l’animale non veda il visitatore. Il visitatore è celato da una parete, nella quale sono state prodotte sottili feritoie per gli occhi. Tutto, l’avvicinamento, l’osservazione, deve svolgersi nel più assoluto silenzio. Solo il cinguettio degli uccellini deve sentirsi nella pace inalterata del boschetto. 

 

Solo Massimo, unico essere umano (con l’unica eccezione della veterinaria), può farsi vedere da Merlino quando gli porta il cibo.

 

È evidente, però, che il lupo ha un vantaggio, e dunque sa che qualcuno si trova nei paraggi. Il suo olfatto non lo tradisce. Quando ci avviciniamo a piccoli passi, quasi trattenendo il respiro nell’illusione di fare ancor meno rumore, il nostro odore è già nell’aria e per Merlino agisce come una sirena d’allarme. Mi avvicino con lentezza estrema. Vedo la luce uscire dalla feritoia, avvicino gli occhi.




….E guardo.

 

…Nessuno.

 

Nello spazio aperto al di là della barriera non c’è nessuno.

 

Massimo sa che Merlino non passa il tempo in un sol posto a ridosso dell’osservatorio, ma anzi vaga di continuo nel suo vasto spazio come farebbe allo stato libero. Però Massimo sa anche che Merlino in questo momento sta riconoscendo il suo odore. Odore benvenuto, perché associato a quello del cibo. E infatti passano poco più di tre minuti, ed ecco che un’ombra scivola silenziosa dal fitto del boschetto, e si avvicina.

 

È lui!

 

Il lupo.




Si approssima con un’andatura trotterellante, elegante, elastica. I suoi passi lo conducono verso di noi. La sua sagoma si fa più nitida. Poi si ferma a pochi metri dalla rete schermata. Rizza le orecchie. Si agita. È nervoso. Capisce che qualcosa di inconsueto sta accadendo intorno a lui. Interroga l’aria con il naso. Guarda a destra e sinistra. Si avvicina ancora di più. Ora si trova a non più di cinque metri dalle feritoie dove due occhi invisibili lo puntano. Sta dritto nella sua postura scattante, energica, potente. Ma è guardingo, teso. Tutto il contrario di un pigro animale nella gabbia dello zoo. Il suo corpo è quello di un maschio adulto, vigoroso e sano. Da tempo è ormai guarito dalla vecchia infestazione da rogna. È lungo all’incirca quanto un uomo sdraiato: 130 centimetri, più la coda di 35. Ed è alto una settantina di centimetri al garrese.

 

È grande, potente, robusto e allo stesso tempo flessuoso e aggraziato.




Il colore del mantello di Merlino, in questi giorni di marzo, è ancora velato del grigio argentato dell’inverno, ma presto prenderà quello estivo che tenderà al rossiccio. Le zampe sono lunghe, tenute semipiegate quelle posteriori perché pronte a scattare, mentre quelle anteriori partono dritte da un petto prominente e muscoloso. Mi concentro sulla testa. Il cranio è piuttosto grande, ben più grande di quello di un cane pastore tedesco, ed è sorretto da un collo massiccio. Ha orecchi corti. E la dentatura, ovviamente, è sviluppata come in tutti i carnivori di grossa taglia: i canini superiori sono lunghi come un mignolo della mano.

 

…E poi gli occhi – gli occhi, la parte del corpo che più lo contraddistingue – sono ampi, espressivi, gialli, luminosi. E sono posizionati verso la parte frontale della testa con una leggera inclinazione verso il passo.

 

Eccolo lì, il lupo, finalmente.

 

Lo osservavo cercando di fissare il più possibile la sua immagine nella memoria.

 

Quando avrò ancora occasione di vedere un lupo?




In quel momento, pensai, per una rarissima deroga alla consuetudine era il lupo ad essere osservato dall’uomo, e non viceversa. Era osservato dall’uomo resosi invisibile perché celato dietro un riparo. Uno sguardo fisso tra uomo e lupo correva anche in quegli istanti, ma in un senso opposto a quello abituale. E mi venne da riflettere sul terribile divario di potere che dà guardare senza essere visti, sul senso di tremenda impotenza e oppressione che si riceve dal sentire gli occhi di qualcuno che ti fissano, senza poter ricambiare lo sguardo.

 

Sarà proprio su questo punto, mi chiesi, che si sono addensate le paure dell’uomo nei confronti del lupo?

 

Il lupo, in fondo, non ha mai rappresentato una vera minaccia materiale per l’uomo. Non attacca l’uomo, come per esempio fanno la tigre, l’elefante, il bufalo. Il lupo può attaccare gli animali domestici, ma lo fanno anche altri animali, come la volpe, e comunque ci si può sempre difendere. Eppure non sono la tigre, l’elefante, il bufalo o la volpe ad essere percepiti come gli antagonisti per antonomasia dell’uomo.




No, qualche cosa d’altro deve aver concorso a determinare un così ampio campionario di leggende infamanti, di miti e di proverbi ingiusti che hanno dipinto il lupo come il male assoluto. Quel giorno, osservando Merlino, mi sembrò di intuire che molto, del rapporto uomo-lupo, stava proprio nello sguardo.

 

Nello sguardo del lupo.

 

Perché se è vero che non c’è niente di più pauroso di essere osservati senza poter vedere, allora si spiega la paura che incute il lupo nei lunghissimi appostamenti che precedono la caccia. Il lupo è capace di aspettare giornate intere nascosto in un cespuglio. Il suo sguardo, lo abbiamo visto, filtra tra i rami, esce dal buio e vigila, controlla, prende la mira.

 

Così aveva fatto 1/2 per mesi sul paese di Villetta Barrea prima di essere ammazzato.

 

Quegli occhi infondono timore. Sono loro, gli occhi del lupo, non i denti a incutere paura. E al Centro recupero animali selvatici di Massimo Dell’Orso, le parti, per pochi minuti, si erano invertite.

 

(M.A. Ferrari)




 Guarda direttamente negli occhi un animale e questi sono pieni di dolore e di bellezza perché contengono la verità della vita, dolore e piacere in ugual misura, la capacità di gioire e la capacità di soffrire.

 

Gli occhi degli uomini molto primitivi e inconsci hanno la stessa strana espressione di uno stato mentale precedente alla coscienza, che non è né di dolore né di piacere; non si sa esattamente che cosa sia. È piuttosto sconcertante, ma indubbiamente qui sta guardando nella vera anima dell’animale, e questa è esattamente l’esperienza che doveva avere. In caso contrario sarebbe rimasta scollegata dalla Natura. È l’esperienza che ognuno di noi dovrebbe avere per ritrovare il legame con la Natura interiore, con la propria natura e con il dio dei primitivi.




Si potrebbe dire che questi sono gli occhi dell’inizio, del Creatore, il quale era inconscio perché all’inizio tutto era inconscio.

 

Non si può sapere che cosa sia in se e perché, dal nostro punto di vista, un animale non ha coscienza corrisponde esattamente a ciò che noi chiamiamo inconsceità.

 

Non posso addentrarmi in una discussione filosofica su questo argomento, ma è davvero possibile che in ciò che noi chiamiamo inconscio - la somma dei contenuti autonomi - ognuno di quei contenuti abbia in sé una coscienza.

 

Perché no?




La nostra coscienza è un complesso autonomo, e ognuno degli altri complessi potrebbe avere una coscienza indipendente; non è dunque possibile che la somma totale di coscienza e inconsceità abbia un centro con cui i contenuti possano entrare in relazione?

 

Sarebbe quella allora la coscienza, perché l’unica definizione di coscienza che si possa produrre è un’associazione di cose con un Io al centro. Ovunque si trovi un tale centro è perciò davvero possibile che li si trovi la coscienza; pertanto ciò che chiamiamo l’inconscio sarebbe un’altra forma di coscienza di qualcos’altro in qualcun altro.

 

(da G. Lazzari L’Eretico Viaggio[Osservazioni]; C.G. Jung, Visioni)









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