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Della 'Grande Svolta' (9)
... fra Stalin & Dugin (10)
Prosegue ancora con:
l'Avvenire del lavoratore (12/3)
Dopo la
sconfitta della Germania, Stalin era intenzionato a mantenere ogni pezzo di
territorio concordato in origine con Hitler, in particolare la Polonia – per
questo la promessa fatta a Jalta di tenere libere elezioni nei territori
occupati dall’Armata Rossa era una bugia fin dall’inizio, che avrebbe reso poi
inevitabile la guerra fredda.
Personalmente,
Stalin era a detta di tutti intelligente, colto e indagatore, era capace di esercitare
sui suoi subordinati un fascino seppure grossolano, ma non tollerava che le sue
opinioni fossero messe in discussione e non dimenticava mai le offese.
Stalin
sembrava credere alla sua stessa propaganda che lo definiva un genio in tutte
le sfere dell’attività umana, tanto da intervenire spesso in questioni
artistiche. Ammonì Pasternak su come andava scritto un romanzo sovietico e non
risparmiò consigli a Šostakovič su come comporre musica autenticamente
bolscevica (senza nessuna influenza modernista, che Stalin considerava anticomunista).
Diffidava di chiunque fosse di origini sociali superiori, e quasi perse la
guerra con Hitler perché aveva epurato gran parte della classe degli alti gradi
militari.
Le massicce
purghe all’interno del partito permisero ai giovani di occupare rapidamente le
posizioni rimaste vacanti, il che, oltre a renderlo adorato per l’aura quasi
divina del suo potere, rafforzò la sua autorità sulla generazione più giovane.
Un altro uomo del miracolo come Lenin, seppe sfruttare il vero nucleo
nietzschiano dell’ethos bolscevico. Non vi è atto di brutalità, crudeltà e
sadismo commesso poi dai nazisti che non seguisse un percorso tracciato già da
Stalin e dai bolscevichi.
Non
c’è da stupirsi che il ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop, di ritorno
da Mosca doveva aveva siglato il patto di non aggressione, avesse riferito in
toni entusiastici al Führer che l’incontro con Stalin e i suoi paladini era
stato ‘proprio come trovarsi tra i nostri
vecchi compagni di partito!’.
Stalin
sosteneva che la morte della prima moglie aveva rimosso ogni traccia di pietà
dal suo cuore. Ma ne aveva mai avuta?
Solženicyn
osservò che il suo unico vero talento era quello di percepire con precisione il
punto in cui l’anima di ogni uomo si interseca con il fango, ovvero quel punto
dove le nostre migliori aspirazioni di compiere del bene vengono sovvertite
dalla paura, dall’avidità e dal desiderio di trarne un vantaggio personale. Gli
piaceva giocare con le sue vittime: tormentò per esempio Bucharin facendolo
convocare dall’NKVD per un interrogatorio e finse poi di intervenire per
salvarlo dall’arresto, sapendo benissimo che presto lo avrebbe fatto arrestare
davvero.
In un
momento rivelatore disse a Dzeržinskij:
‘Scegliere le proprie vittime, preparare
minuziosamente i propri piani, per appagare una vendetta implacabile, e poi
andare a dormire... Non c’è nulla di più dolce al mondo’.
Mentre
molti pezzi grossi del partito vivevano nel lusso, lo stile di vita di Stalin
era quasi frugale. Godeva del potere, ma non provava grande godimento della
ricchezza che esso portava. Il suo biografo Simon Sebag Montefiore paragona le
dimensioni e gli arredi del suo appartamento al Cremlino con quelli di un
docente di Oxford. I suoi gusti erano rozzi: enormi porzioni di carne mandate
giù con litri di vino dolce. Verso la fine, trascorreva mesi e mesi in Crimea
per il suo clima, come facevano gli zar. Come un tiranno dei tempi antichi, era
difficile distinguere la sua abitazione personale dal governo: dirigeva
l’intero paese seduto alla sua tavola, spesso in chiassosi bagordi che andavano
avanti tutta la notte. Perseguiva la visione utopica di Lenin con quello che
Montefiore descrive come un ‘fanatismo quasi islamico’, anche se, in ultima
analisi, l’intero esperimento si tradusse in una grande e inutile tragedia.
Prima del
1917, la Russia era una delle economie con la crescita più rapida di tutta
l’Europa: tutto ciò che Lenin e Stalin ottennero, dopo decine di milioni di
morti, fu di danneggiarla in modo quasi irreparabile.
La guerra e
l’aggressione imperialista contribuirono ai fallimenti economici dell’Unione
Sovietica: dall’occupazione di Stalin dell’Europa orientale alla tentazione di
Chruščëv di provocare una guerra nucleare con la procura di Castro durante la
crisi dei missili a Cuba, fino all’invasione dell’Afghanistan sotto Brežnev. Contrariamente
a una visione ancora inspiegabilmente diffusa in Occidente, la guerra fredda fu
da attribuirsi interamente a Stalin per aver infranto ogni promessa fatta a
Jalta.
IL
POPOLO DEL DESTINO
La
dimensione millenarista in questo caso non è certo così estrema come nella
variante giacobina, bolscevica, nazionalsocialista, terzomondista o jihadista,
ma senza dubbio esiste, e il suo esponente principale è Aleksandr Dugin, uno tra i consiglieri più stretti di Putin. I suoi
scritti sono un ritorno agli anni trenta. In essi, la Russia prende il posto
della Germania come il ‘popolo del destino’, che in nome del genere umano
condurrà una rivoluzione contro i valori degradati dell’Illuminismo e della
democrazia liberale, con la missione di diffondersi non solo spiritualmente, ma
anche con la forza delle armi, mano a mano che la Russia ribadirà il suo ruolo
imperiale.
Come il
nazionalsocialismo attingeva ai precedenti decenni di fascino per l’Oriente
come il vero cuore teutonico della razza ariana nonché antidoto al logoro
Occidente liberale e borghese, Dugin sostiene che i russi sono fondamentalmente
un popolo orientale, eurasiatico, insieme con i loro fratelli slavi dei Balcani
e dell’Europa orientale che devono essere richiamati alla Madrepatria (e tra essi,
tanto per cominciare, l’Ucraina e la Bielorussia). Egli ha riportato in vita
l’idea della Russia come Terza via (si noti la sfumatura millenarista degli
Ultimi giorni che precedono il Regno di Dio) tra l’Occidente e l’Estremo
Oriente, la cui profonda spiritualità può redimere l’umanità attraverso una
rivoluzione antimaterialista fondata su valori arcaici, coniugando questo
motivo slavofilo, mutuato da Dostoevskij e Berdjaev, con l’ideologia
nazional-patriottica del Terzo Reich.
‘In linea
di principio’, ha scritto Dugin, ‘l’Eurasia e il nostro spazio, il cuore della
Russia, rimangono il palcoscenico di una nuova rivoluzione antiborghese e
antiamericana. [...] Il nuovo impero eurasiatico sarà edificato secondo il
principio fondamentale del nemico comune, del rifiuto dell’atlantismo, del
controllo strategico degli Stati Uniti e dell’opposizione al dominio dei valori
liberali. Questo comune impulso civilizzatore sarà alla base di un’unione
politica e strategica.
La
reinterpretazione di Dugin dell’era sovietica come nazional-bolscevismo elimina
la sua impiallacciatura pseudoscientifica marxista e la restituisce alle sue
origini, al populismo rivoluzionario del movimento Narodnaja Volja e ai
Bogostroiteli. Il marxismo-leninismo, sostiene Dugin, fu solo un’importazione
superficiale dall’Occidente. Il cuore e l’anima del bolscevismo stavano in un
ritorno alla vera anima slava della Russia agraria e al rifiuto delle tendenze
occidentaliste di Turgenev e di altri scrittori elitari filoeuropei.
Questo
rimodellamento del comunismo sovietico come una forma di nazionalismo slavo
aderisce perfettamente al programma a lungo termine di Putin: chiudere
l’apertura verso l’Occidente avvenuta sotto Gorbačëv e riabilitare gradualmente
l’era sovietica come episodio legittimo e fiero della storia russa. Il Partito
nazional-bolscevico ispirato alle idee di Dugin, e poi dissolto nel 2007,
riteneva che una guerra per restaurare l’ex impero sovietico non solo avrebbe
reso di nuovo grande la Russia, ma, essendo la guerra condotta in ultima
analisi contro il principale nemico, l’America, essa avrebbe riscattato tutto
il genere umano (comprese le stesse masse americane, schiave delle loro élite
plutocratiche) dal materialismo senz’anima e dalla decadenza dell’Occidente, di
cui l’America è epitome.
Dugin vuole
fare causa comune con il jihadismo contro il nemico americano, ritenendo che il
collettivismo islamista e quello eurasiatico abbiano molti più elementi in
comune tra di loro che non con l’individualismo illuminista occidentale.
Dugin
gode del potente patrocinio di Putin, e non è da escludere la
possibilità che, annettendo la Crimea e minacciando l’Ucraina, Putin (noto per
l’ammirazione per autori slavofili come Berdjaev) stia cominciando ad attuare
il programma millenarista di Dugin e a ricreare l’impero sovietico, come
trampolino di lancio di una guerra mondiale con gli Stati Uniti – o vi veda
almeno una qualche utilità alle aspirazioni di grande potenza e un modo per
risvegliare in patria il nazionalismo slavofilo e ottenere il fervido sostegno
del popolo ai suoi scopi espansionistici.
La
sensazione di una missione salvifica per il mondo intero avvolge il programma
espansionista di Putin di una sfumatura di fervore millenaristico, che, pur non
convincendo alla lettera lo stesso presidente, torna certamente utile alle sue
ambizioni. Nelle relazioni internazionali Putin agisce razionalmente, nel senso
che, a differenza di Hitler o, più recentemente, di Ahmadinejad, non contempla
neppure l’idea di vedere se stesso e il suo paese avvolti dalle fiamme come un
prezzo accettabile per aver tentato di realizzare un’utopia. Ma per lo stesso motivo, il fatto stesso che egli sia
cosciente del bisogno della Russia di recuperare il proprio onore e la propria
grandezza e vendicare l’umiliazione inflittale dalla sconfitta nella guerra
fredda significa che sarà disposto a correre rischi enormi – tra cui,
certamente, un duro colpo all’economia russa a causa delle sanzioni e, forse,
perfino un’attiva opposizione militare da parte dell’Occidente – prima di
essere disposto a scendere a compromessi riguardo alla sua idea di missione
storica. Quando a un leader importa più dell’onore che della prosperità
economica, la negoziazione diventa in effetti molto difficile.
La destra
neofascista europea, inoltre, guarda sempre più a Putin e alla ‘rivoluzione dei
valori arcaici’ di Dugin per trarre ispirazione nelle proprie speranze di una
rinascita. Agli occhi di questa destra, la Russia oggi sta all’Unione europea
come il nazionalsocialismo stava un tempo alla Repubblica di Weimar – un
baluardo di populismo collettivista solido e aggressivo in grado di mandare in
frantumi il materialismo corrotto, la decadenza urbana, l’elitarismo e la
borghesia politicante della democrazia liberale.
Proclamando
che gli europei sono diventati una massa senza radici di ‘consumatori senza più
legami con i loro affetti naturali – la famiglia, la nazione e il divino’, il
leader del Front National francese Aymeric Chauprade (su consiglio di Le Pen) stava forse citando Dugin, oppure
l’Heidegger degli anni trenta.
Se
il fascismo può essere descritto come le nozze tra gli intellettuali
rivoluzionari anti-illuministi e i teppisti violenti dei bassifondi urbani,
ammaliati dalle idee dei primi, allora gli skinhead neonazisti dell’Europa, che
già cavalcano la politica ungherese e un rigurgito di ingiurioso antisemitismo,
potrebbero sentirsi attratti dal professor Dugin come dal visionario che stanno
aspettando.
I
giornalisti europei e americani convinti che sarebbe quantomeno sconcertante se
Putin, pronto a etichettare come fascisti gli ucraini che si oppongono alla sua
conquista, fosse pronto a stringere alleanze con gruppi fascisti nel resto
dell’Europa, peccano di superficialità. Lo stigma di fascista con cui l’Unione
Sovietica marchiava chiunque e qualsiasi cosa che si opponesse al regime è
stato uno dei tratti più irritanti e stantii della politica del Cremlino, a
causa della disagevole ammissione che, in fondo, i nemici fascisti non erano
che l’immagine speculare dei dirigenti dell’URSS.
Come un
retaggio dell’era sovietica, Putin (ex ufficiale del KGB) usa questo termine
anche per diffamare le sue vittime ucraine designate, ed è altrettanto privo di
significato. In fondo, Putin può fare causa comune con l’estrema destra europea
perché entrambi condividono gli stessi valori. La sta corteggiando sia per
affinità ideologiche sia per proprio interesse strategico.
(Waller R. Newell)