CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 28 luglio 2019

MATTEOTTI & L'AFFARE DEL PETROLIO (17)
































Precedenti capitoli:

Considerazioni filosofiche (16) 

Sull'amiko (nemico) amerikano e l'amato russo villano  (15/1)

Prosegue nell'affare...















...Del petrolio (18/1)
















& Progetti separatisti... (19)













& What shall it profit (?) (20)













Perché è stato ucciso Matteotti

‘La faccenda mi sembra davvero grave. Ma che si sono messi in testa di pubblicare? Dobbiamo stare attenti, perché questa storia potrebbe danneggiarci!’




È il 17 novembre 1941 quando il premier britannico Winston Churchill, allarmato, ordina ai membri del suo governo e agli agenti dei servizi segreti di Sua Maestà di stendere una coltre di silenzio sul caso Matteotti, il delitto politico avvenuto diciassette anni prima a Roma. Italia e Regno Unito sono in guerra da quasi un anno e mezzo. Si combatte in Libia. E le carte compromettenti che Churchill teme che vengano allo scoperto sono quelle rinvenute pochi mesi prima, nel marzo del 1941, nell’abitazione di uno dei sicari del deputato socialista  assassinato.

Si tratta di Amerigo Dumini, il quale dal 1934 lavora in Cirenaica per i servizi italiani, e probabilmente non solo per loro.

Con quei documenti si potrebbe assestare un colpo decisivo a Benito Mussolini e al suo regime, ma Churchill interviene inopinatamente per mettere tutto a tacere.

Perché?

Un favore personale al duce, suo grande amico, con il quale ha intrattenuto una fitta corrispondenza fino allo scoppio della guerra?

O paura che emergano anche responsabilità inglesi?




Torniamo indietro di diciassette anni e riprendiamo dall’inizio il filo di questa storia.

Il 10 giugno 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti viene sequestrato da un commando di squadristi, caricato su un’automobile, pestato a sangue, accoltellato e infine abbandonato, ormai privo di vita, in un bosco a venticinque chilometri da Roma, nella macchia della Quartarella, dove viene ritrovato più di due mesi dopo, il 16 agosto.

La notizia suscita una tale ondata di emozione e sdegno, in Italia e all’estero, da scuotere le stesse fondamenta su cui si sta formando il regime fascista. Il delitto è maturato in un crescendo di tensione politica e violenza. Il 6 aprile di quell’anno si sono svolte le nuove elezioni politiche, indette con l’obiettivo di rafforzare il governo presieduto da Mussolini. Lo schieramento liberal-fascista, appoggiato da monarchia, Confindustria, gerarchie militari e Vaticano, ha trionfato con quasi il 70 per cento dei voti contro il 30 per cento ottenuto dalle opposizioni di sinistra, che si sono presentate divise.

Grazie alla legge elettorale maggioritaria, la destra ha conquistato in parlamento 374 seggi su 535.




La vigilia è stata caratterizzata da numerose aggressioni nei confronti di esponenti della sinistra. Durante lo scrutinio, molti sono stati anche gli episodi di brogli.

Il 30 maggio Matteotti ha tenuto alla Camera un durissimo discorso contro Mussolini, chiedendo l’annullamento delle elezioni. E ha annunciato un secondo intervento, ancora più duro, per l’11 giugno. Ma lo hanno assassinato proprio il giorno prima, il 10.

Qualcuno sapeva che avrebbe detto cose molto imbarazzanti per il governo e ha ordinato che gli venisse tappata la bocca.

Per sempre.

Quando è stato rapito, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, aveva con sé una borsa colma di documenti. Sparita insieme a lui. La chiave per decifrare il caso Matteotti è proprio in quel discorso mai pronunciato. Che cosa avrebbe potuto dire di tanto sconvolgente, il deputato socialista, da indurre qualcuno a ordinarne l’assassinio? Intorno al delitto e al suo movente, per molti decenni si sono accavallate diverse ricostruzioni e chiavi di lettura. Non si è mai giunti a una completa verità giudiziaria. Le inchieste della magistratura – ben tre nell’arco di un quarto di secolo (l’ultima risale al 1947) – individuano gli esecutori materiali: Amerigo Dumini e i suoi complici Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Tutti e cinque sono legati al Partito fascista e dipendono da Emilio De Bono (uno dei quadrumviri della marcia su Roma del 28 ottobre 1922), all’epoca del delitto capo della Pubblica sicurezza e della Milizia volontaria. Fanno parte di una sorta di squadrone della morte che chiamano ‘Ceka’, come la famigerata polizia politica sovietica (Čeka) specializzata in operazioni ‘sporche’.




Ma da chi viene impartito l’ordine di eliminare Matteotti?

Da Mussolini o da altri esponenti del regime?

E l’input è solo interno o qualche segnale viene lanciato anche da ambienti stranieri?

Insomma, quali oscure trame si celano dietro l’assassinio del più prestigioso e temuto esponente dell’opposizione?

L’opinione pubblica individua immediatamente in Mussolini il mandante del delitto. Anche perché diversi giornali sostengono la tesi di una sua responsabilità diretta. Una testata con più determinazione delle altre, il ‘Corriere della Sera’, e un suo cronista con più convinzione di tutti: si chiama Carlo Silvestri e all’epoca del delitto è vicino ai socialisti di Filippo Turati, ma in seguito, durante la Repubblica sociale, diventerà uno dei più ferventi sostenitori del duce e addirittura suo amico personale. Dopo la guerra, ammetterà di aver ingigantito le sue accuse contro Mussolini per fini di ‘convenienza politica’. Il comportamento di Mussolini non è proprio lineare. In un primo momento, con il cadavere di Matteotti ancora caldo, respinge sdegnosamente ogni accusa. Qualche mese dopo, il 3 gennaio 1925, in un famoso discorso pronunciato alla Camera, si assume l’intera responsabilità ‘politica, morale, storica’ di tutto quanto è accaduto prima e dopo le elezioni, del clima di intimidazione che le ha precedute e degli episodi di violenza che ne sono seguiti. Un discorso che preannuncia le ‘leggi fascistissime’ che di lì a poco porteranno al consolidamento del regime.




Successivamente, però, in diverse occasioni torna a proclamare la propria innocenza. Intervenendo di nuovo alla Camera a un anno esatto dall’assassinio, il 13 giugno 1925, dichiara: ‘Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione’. E poi, confidandosi con la sorella Edvige: ‘È una bufera che mi hanno scaraventato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla’. Insomma, un ‘cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare’, secondo le parole attribuite a Mussolini dal più autorevole storico del fascismo, Renzo De Felice.

Ma chi avrebbe dovuto evitare che il duce fosse investito da quella bufera?

Il riferimento è ad alcuni dei suoi stessi collaboratori, e fra i più stretti: il capo della sicurezza De Bono, il sottosegretario agli Interni Aldo Finzi e altri due alti gerarchi, Giovanni Marinelli e Cesare Rossi. Tutti e quattro legati da una comune appartenenza alla massoneria, quel filo invisibile che, sin dai tempi del Risorgimento, annoda gran parte delle relazioni segrete tra Roma e Londra. Molti credono all’innocenza di Mussolini. Persino alcuni dei più influenti e prestigiosi esponenti liberali dell’epoca. Personaggi come Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi e Benedetto Croce. Proprio quest’ultimo, nel giugno del 1926, presenta al Senato un ordine del giorno a favore del duce. E dopo la scontata approvazione, dichiara entusiasta che si è trattato di un voto ‘prudente e patriottico’.




Guglielmo Salotti, allievo e collaboratore di De Felice, racconta che Nicola Bombacci, ex dirigente socialista che nel 1931 si avvicina al fascismo, aveva indagato a lungo sul delitto Matteotti, per giungere a questa conclusione: ‘Purtroppo gli imputati non sono qui. Magari, dopo essere stati manutengoli dei tedeschi, saranno oggi al servizio degli inglesi o meglio ancora degli americani’.

Le tangenti che Matteotti voleva denunciare

Mussolini e gli uomini a lui più vicini scaricano dunque la responsabilità del delitto sugli ambienti massonici che collegano il regime ai britannici. Ma quali legami possono mai esserci tra il delitto Matteotti e la Gran Bretagna?

Il 22 aprile 1924, meno di due mesi prima di essere assassinato, il deputato socialista arriva segretamente in Inghilterra. La sua permanenza a Londra, protetta dal più stretto riserbo, dura quattro giorni, durante i quali ha numerosi incontri con esponenti del Partito laburista, all’epoca al governo, e dirigenti sindacali. Il 26 aprile lascia il Regno Unito e sbarca in Francia, da dove poi rientra in Italia. Nonostante la segretezza del viaggio, uno dei suoi futuri esecutori, Albino Volpi, lo ha pedinato per tutto il tempo della sua permanenza in territorio francese. E Mussolini ha inviato un telegramma all’ambasciata italiana a Londra per avere informazioni sui suoi movimenti in terra inglese: quando è stato a Londra e quanto è durato il suo soggiorno, quali contatti ha avuto e perché, se ha incontrato anche membri del governo britannico ed esponenti di altre nazionalità.




A confermare il legame tra il delitto Matteotti e la Gran Bretagna arrivano oggi i risultati di lunghe ricerche condotte da due studiosi molto diversi tra loro ma che, seguendo lo stesso filo, sono giunti a un’identica conclusione. Il primo è lo storico Mauro Canali, docente all’Università di Camerino, che ha scavato negli archivi inglesi e americani. Il secondo è Benito Li Vigni, amico personale e stretto collaboratore di Enrico Mattei all’Eni, nonché per un lungo periodo responsabile dei servizi d’informazione dell’ente petrolifero italiano.

Secondo entrambi il legame sarebbe costituito dal petrolio, l’oro nero che nei primi decenni del Novecento stava diventando sempre più una risorsa strategica per i processi di industrializzazione delle grandi potenze, per la riconversione della loro forza militare e per i loro interessi geopolitici. Una risorsa preziosissima, per la quale gli stati erano (e sono ancora oggi) disposti a qualsiasi cosa.

È proprio in questo contesto che si situerebbe il delitto Matteotti: la guerra del petrolio combattuta fra Italia e Gran Bretagna, senza esclusione di colpi e attraverso l’uso di quinte colonne politiche, militari, diplomatiche e giornalistiche. A Londra Matteotti affronta con i laburisti un argomento molto imbarazzante per il regime. Questi lo mettono infatti al corrente delle tangenti che Arnaldo Mussolini, fratello del duce, e alcuni membri di Casa Savoia, hanno intascato per stipulare una convenzione tra il governo italiano e una società petrolifera americana, la Sinclair Oil. Non solo: Matteotti riceve anche documenti che provano quei maneggi. Ed è questo lo scandalo che il deputato socialista avrebbe voluto denunciare alla Camera l’11 giugno 1924, se il giorno prima non lo avessero fatto sparire insieme alle prove che aveva raccolto.




L’accordo segreto con gli americani colpiva gli interessi inglesi

Sullo sfondo del primo tra i grandi delitti politici italiani del Novecento ci sarebbero dunque i conflitti per il petrolio. Una guerra combattuta anche sul territorio italiano, in primo luogo tra i due colossi energetici dell’epoca: l’americana Standard Oil, privata, e la britannica Anglo-Persian Oil Company (Apoc), di proprietà statale. La prima ha iniziato la sua scalata al mercato italiano sin dalla fine dell’Ottocento, conquistando di fatto una posizione di monopolio dei prodotti raffinati distribuiti nel nostro paese: all’epoca dell’assassinio Matteotti, controlla una quota dell’80 per cento. Una supremazia dovuta al fatto che gli inglesi non possiedono una raffineria nell’area mediterranea e non sono in grado di trattare il petrolio che hanno cominciato a estrarre in Medio Oriente, cosicché la loro presenza sul mercato italiano ed europeo è fortemente penalizzata. Ma, proprio in quel periodo, il governo inglese decide di muovere all’attacco del gigante Usa. Alla fine del 1923, grazie a un accordo con l’Italia, la Apoc rileva una vecchia raffineria austriaca in disuso, a Trieste, a due passi dai depositi della Standard Oil. E nel gennaio del 1924 apre una filiale italiana, la British Petroleum (Bp), una società con capitale misto angloitaliano intorno alla quale si aggregano anche quegli interessi politico finanziari del fascismo più vicini a Londra che a Washington.




L’accordo tra la Apoc e il governo italiano nasconde almeno altre due insidie per la compagnia americana. La prima è nella clausola, inserita su esplicita richiesta di Roma, secondo la quale gli inglesi possono impegnarsi nell’esplorazione del sottosuolo nazionale e nell’eventuale sfruttamento dei giacimenti che venissero scoperti. La seconda insidia risiede in un’altra clausola che consente alla Bp la costruzione in tempi brevi di uno stabilimento in Italia per la raffinazione e la distribuzione anche sul nostro territorio del petrolio estratto in Iraq e in Persia. La raffineria di Trieste, una volta a regime, consentirà alla Gran Bretagna di conquistare un  indubbio vantaggio logistico rispetto agli americani. Perché il greggio Usa, per giungere da New York al porto di Messina, dove si concentra l’intero traffico del petrolio della Standard Oil prima di essere distribuito sul mercato italiano ed europeo, deve compiere un tragitto di 4200 miglia.

Agli inglesi, invece, basterà percorrerne mille per portare il loro prodotto dal Medio Oriente e dai pozzi che controllano nel Mar Nero sino alla raffineria di Trieste. Gli americani reagiscono con prontezza, firmando una convenzione con il governo di Roma che avrebbe spalancato il nostro mercato a un’altra società statunitense, la Sinclair Oil appunto, ‘cugina’ della Standard. ‘I padroni della Sinclair e i loro compari sono pronti a fare qualsiasi cosa pur di colpire gli interessi specifici inglesi, come ottenere concessioni o fare accordi di questo genere’ telegrafa al proprio governo l’ambasciata britannica di Washington.




Per i britannici l’accordo della Sinclair Oil con il governo italiano punta a ledere i loro interessi. Attraverso il colloquio con il deputato socialista, essi intendono quindi attirare l’attenzione dell’opposizione italiana sulle manovre che la loro concorrente d’oltreoceano sta conducendo in combutta con il regime. Che proprio i documenti ricevuti a Londra da Matteotti siano il movente del suo assassinio, lo ipotizzano del resto non solo la stampa italiana, ma anche quella britannica e americana subito dopo la scoperta del cadavere del leader socialista.

‘Si vuole che l’onorevole Matteotti dovesse pronunziare alla Camera – in sede di discussione sull’esercizio provvisorio – un discorso di critica alla convenzione Sinclair’ scrive il ‘Nuovo Paese’, il giornale diretto da Carlo Bazzi. La preoccupazione negli ambienti politici romani è confermata anche da un’informativa datata 14 giugno 1924 (quattro giorni dopo il sequestro del deputato, ma in un momento in cui non si sa ancora della sua morte), secondo la quale sarebbero ‘sulla bocca di tutti le constatazioni che l’onorevole Matteotti possedesse documenti su cui avrebbe parlato alla Camera e che si riferivano a prove contro il Finzi sugli affari compiuti per i petroli, per le case da gioco, e altro’.

Adesso si può capire cosa è successo

Ma torniamo al punto: scoperti gli esecutori materiali e accertati i loro legami con esponenti del regime, restano da individuare i mandanti del delitto. L’implicazione del fratello del duce, di altri esponenti fascisti e della casa reale nell’affare Sinclair farebbe pensare che sia stato direttamente Mussolini a impartire l’ordine di eliminare Matteotti. Ma Mussolini, come abbiamo visto, pur attribuendosi la responsabilità politica e morale di quanto è accaduto, respinge con decisione i sospetti di chi gli addossa la colpa dell’omicidio, scaricandoli di fatto su alcuni gerarchi legati alla massoneria inglese... 


(Prosegue...)











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