CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

domenica 18 agosto 2024

E' JITA MALE...

 






Orsù!!

 

…intrepidi forestieri viandanti & più che noti benché sconosciuti latitanti Ciarlatani; seppur più stracchi che stanchi più cotti che accaldati - satolli ma sempre affamati – (e mai diffamati!), in ode alla prematura morte di Madre Natura accompagnata dalla suocera novella Madonna, da ognun ammirata e insegreto violentata seppur dichiarata Vergine (as)salita e Assunta dipinta per ogni edicola, quando cadde dal subaffitato settimo cielo (quello per intenderci e ben volere, celebrato dal noto Dante dato per disperso per l’altrettanta  morta selva…) senza il velo che ben la proteggeva casta e pura, fu arsa allo spiedo da ogni paladino di corte fedele al proprio ed altrui nobilitato Cavaliere; solo doppo aver forzato la serratura le fu tolta anche la solida cintura, affinché la sete dello sfrenato desiderio senza l’amore della Natura poffa compiere la propria breve orgiastica disavventura; fu dichiarata et spafciata per Eretica giacché la sua Storia è l’Esilio d’una Fonte sconosciuta ove un Dio la prega e adora, seppur braccato peggio d’un Lupo… suo ultimo sventurato araldo… 

 

….coniato su una Forca…




Ben compiuta breve nonché accordata o scordata  premessa senza liuto o pagnotta neppur caciotta e/o ricotta dello Pastore in cerca dello noto Lupo e col permesso della Madonna, porgiamo et offriamo i servigi del noto seppur sconosciuto calzolaio, per lo riparo dell’acciaccato sandalo, della sofferente ciabatta, dell’ultima sola non più risolata, dell’ulcerata anca non ancor pregata all’altare della più nota Patria o Suocera melonata, affinché l’intiera brigata possa compiersi al saldo dello pellegrinaggio dalla Cascata fin sulla più alta vetta dal Guerin celebrata in ode alla Sibilla e alla sua Fonte prosciugata dopo l’ultimo sibilo dell’oracolo dallo Settimo Cielo censurato et perseguitato, affiché lo canone della ‘porca’ non ancor porchetta possa compiere lo strazio alla medesima Natura…




Giacché Atene brucia non posso dir o argomentar altro, e come detto nell’ultimo papiro non ancor abbruscato meglio il sigillo dello discreto ulcerato silenzio…. (lo boscaiolo mi punta et osserva per la disadattata fuga senza appunto o appuntato che la protegga…)   

 

Iniziamo lo Viaggio dalla Cascata…:

 

A  natura,  e  l’arte  fono  concorfe  a  formare  la  Caduta  delle  Marmore   ed  a  renderla  un  oggetto  della  giuda  ammirazione  di  quanti  fi portano  ad  offèrvarne  lo  spettacolo.  Quelle  acque  del  Velino,  che  dalla  fommita  d’un  Monte  tagliato  perpendicolarmente  fi  precipitano  nel  fiume,  che corre  alle  radici  del  medefimo  coftituifcono  quefta  maravigliola  Caduta. 



Nafce  il  Velino  nei  monti  dell’ Abruzzo  da  quella  parte,  che  riguarda  lo  Stato  Pontificio   e  tratto  il  fuo  principio  da  due  fòrgenti  delle  quali  l’una  è preffo  Civita  Reale,  e  l’ altra  ad  Antrodoco,  fi  trova  ben  prefto  ricco  di  tale  copia  di  acque   che  prefenta  un  Canale  sufficiente  alla  navigazione,  divide  la  Città  di  Rieti  dal  fuo  Sobborgo   e  quindi  correndo  lentamente  pel  vafto,  e  deliziofo  Territorio  alla  medefìma  lottopofìo,  pafla  vicino  al  Lago  di Piediluco  raccoglie  in  abbondanza  le  acque  di  quell’ampia  Provincia,  e  qua, e    dolcemente  fileggiando,  giunge  finalmente  al  piano  delle  Marmore, ove  comincia  quella  velocità  del  fuo  corfo,  che  quindi  paffo  paffo  crefcendo   monta  ad  un  grado  il  più  forprendente. 

 

Si  è  dalla  dotta  curiofità  degli  eruditi  Etimologici  ricercata  l’origine  del nome  Velino,  e  fi  è  da  alcuni  pretefo  dedurla  dal  nome  della  Dea  Velia,  una delle  molte  Divinità  del  Paganefimo. 

 

Sarebbe peravventura  tollerabile  quefla  pretenfione,  di  dedurre  dalla  Mitologia  tutti  i  nomi  lafciatici  dalla  piu  remota  antichità  quando  Dionifio  d’Alicarnalfo  non  ci  facefle  chiaramente fapere,  che  quello  nome  trae  la  fua  origine  dalla  parola  Velia,  che  anticamente  indicava  un  luogo  paludofo:  ibi  erant  palufìria,  qua  mine  prifco lingua  more  dicuntur  Velia  ( Lib.  I.). 





Si  potrebbe  piuttofto  ricercare  di  qual lingua  foffe  avanzo  quefta  parola  Velia,  fe  della  Celtica,  dell’Etrufca,  della  Volfca  della  Sabina,  o  dell’antico  Idioma  del  Lazio:  ma  farebbe  quello parimente  un  imitare  il  coraggio  di  quegli  Scrittori,  che  fi  avanzano  a  darci le  più  diftinte  notizie  di  quelle  lingue,  di  cui  non  fi  fono  confervate,  che poche  voci.     


Quefte e quelle poche voci che udiamo pascere e delirare per quanto offerto e mai contraccambiato in nome del vigilato tribolato vento, udite in Pio silente silenzio, fra le morte secche foglie arfe al sole del profgresso, rimaste mute e vigili at vigilare ciò che l’Anima rimembra ma non più prega giacché purgata dallo più che affollato Settimo Cielo (or mi dicono immobile et soppalcato), le celebriamo pascoliamo rimembriamo adoriamo et alla prematura fine… preghiamo; e come detto all’ingresso di sifcato sudario, le accompagnamo con altrettanti artisti ciabattini affinché li sudati calzari fino all’oculo che li guarda e brama come tali, rimembri l’antico passo, or meglio l’antico cantico dello Pensiero perso comandato et esiliato ad una differente sofferta Vista, qual miglior ispiractione verso la comune antica Via; et assieme in nome dell’Assunta Madonna con scadenza di contracto - sfrattata dallo stesso Cielo - accompagnata all’intiera brigada della Natura, udirli et ripararli ancora in sofferta esiliata Vita è un dovere a me caro, e che la loro Voce ci sia d’ispiractione per sifcata silente perseguitata eretica preghiera… 

 


Grazie alla indefessa e sincera attività promozionale, forse non del tutto disinteressata ma efficace, dello scultore Aurelio De Felice (1915-1996) Orneore Metelli a guerra appena finita da Parigi fu designato come, se non l’unico, certo uno dei pochissimi pittori cosiddetti da considerare erede del Doganiere Rousseau.

 

Metelli fu infatti definito e accettato come il ‘Rousseau’ del XX secolo. Per altro verso il calzolaio di Terni fu precursore, come creatore e interprete di calzature speciali e di lusso, del poi celeberrimo Salvatore Ferragamo. Metelli si dedicò alla sua riposta, nascosta vocazione e passione primaria per la pittura subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Tuttora viene considerato nel mondo uno dei principali interpreti dell’espressività pittorica ingenua e autodidattica, anche se poco rappresentato perché le sue opere non sono nel giro commerciale perché, credo, sono ‘musualizzate’ (né ‘mussulinizzate’) o comunque in collezioni stabili, consolidate.




Orneore nacque a Terni il 2 giugno 1872 da David e Getulia Fabri. Sua madre svolse la professione di sarta, mentre il padre lavorò come calzolaio nella ditta di famiglia, che era stata fondata da un antenato nel 1798, stando a quanto si evince dall’epigrafe dipinta dal M. nell’Interno della calzoleria (Terni, CAOS - Centro arti opificio Siri, dove sono conservati i dipinti del M., salvo diversa indicazione).

 

Terminati gli studi elementari il M. entrò come apprendista nella calzoleria paterna. Visse sempre a Terni – fatta eccezione per brevi e sporadici viaggi – città nella quale sposò, il 4 giugno 1900, Giulia Ponnetti e dove svolse il mestiere paterno per tutta la vita, occupandosi anche dell’elegante negozio di corso Tacito (arteria principale del centro storico). Il M. produsse scarpe particolarmente apprezzate per l’elevata qualità e l’originalità delle forme: calzature civili, militari e teatrali, esportate anche all’estero, soprattutto in Francia, che ottennero numerosi premi e menzioni d’onore alle esposizioni campionarie nazionali e internazionali nelle quali furono presentate. Raggiunse una tale notorietà in questo settore che all’Esposizione internazionale di Parigi del 1911 venne invitato fuori concorso e fu nominato membro della giuria d’onore preposta alle premiazioni.



In questi anni il M. impiegò il proprio tempo libero, soprattutto serale, per dipingere nella cantina o nella cucina della sua casa. Egli considerò la pittura una pratica intima e personale, condotta con costante impegno, ma senza alcuna velleità o pretesa intellettuale, tanto che, per rammentare la sua vera professione, era solito tracciare accanto alla firma la forma stilizzata di uno stivaletto.

 

Artista di autentica vocazione e maniera naïf, il M. dipinse con vivace gusto narrativo, non privo d’intonazioni aneddotico-didascaliche, e acuta sensibilità cromatica, episodi di vita popolare ternana, scorci urbani e interni domestici, a volte intrisi di riferimenti autobiografici. Nella sua produzione figurano anche vedute di altre località, mai riprese dal vero, ma sempre sulla base di ricordi o immagini sussidiarie, come ad esempio le cartoline illustrate prodotte nella tipografia Alterocca.




Oltre alla più consueta tela utilizzò supporti di vario genere: compensato, cartone, lastre di zinco, terracotta, scampoli della stoffa leggera impiegata per foderare l’interno delle scarpe e persino l’anta lignea di una porta. Nella maggior parte dei dipinti i personaggi, le cui dimensioni risultano stabilite in base all’importanza e al ruolo sociale svolto, sono argutamente atteggiati e inquadrati entro campi scenari architettonici o paesistici, raffigurati secondo un’arbitraria quanto ferma e nitida prospettiva. Il M., infatti, considerò le regole geometriche di rappresentazione dello spazio adattabili alle esigenze compositive, tanto che la dislocazione di uno o più punti di fuga era determinata in base all’importanza e alla funzione dell’oggetto da porre in risalto. Chiari esempi di estrema arditezza prospettica sono Allegoria romana (1935), Processione (1938) o Temporale alla stazione di Assisi, dove la profondità spaziale si alterna a proiezioni assonometriche e le dimensioni di oggetti e figure variano liberamente in ogni porzione del quadro.

 

In maniera analoga il M. elaborò una teoria delle ombre altrettanto inusuale ed empirica, affinché le parti ombreggiate non recassero mai alcun ingombro alla rappresentazione. 




Attento e partecipe cronista della sua epoca, il M. documentò le tradizioni contadine umbre, ma soprattutto le trasformazioni sociali e architettoniche in atto a Terni, città che, divenuta capoluogo di provincia nel 1927, necessitava di un moderno assetto viario e urbanistico con edifici amministrativi di avvenimenti più significativi riguardanti la città, come la Visita di Mussolini a Terni, le periodiche processioni religiose e le sfilate militari, senza trascurare la descrizione delle abitudini piccolo borghesi di una tranquilla vita provinciale: le passeggiate in carrozza nel parco (I giardini pubblici di Terni) o gli allegri incontri dei cacciatori (Bona caccia: la partenza).

 

In queste, come in altre opere, il dato aneddotico risulta non di rado trasposto su un piano d’incantata e favolistica narrazione, che può raggiungere toni nostalgici o persino mitici. In alcuni dipinti il valore didascalico delle scene illustrate è rafforzato dall’inserimento di parole scritte come fumetti, a volte associate addirittura a filastrocche dialettali o partiture musicali, come ne La forza del destino (Basilea, Kunstmuseum).




Nel 1936 il M. dipinse Uno dei Mille e Mio padre garibaldino calzolaio, offrendo uno scorcio di intima vita familiare: l’interno della casa paterna con la madre intenta a cucire accanto al camino, il padre impegnato con le tomaie e il ritratto del nonno Vinceslao, garibaldino della prim’ora, appeso sulla parete di fondo.

 

La galleria dei ritratti del M. è costituita da una serie di personaggi, storici o contemporanei, di cui non è mai possibile conoscere l’identità, come nel caso della Venere di Terni (Basilea, collezione privata), Susanna (Terni, collezione privata), Personaggio storico o Personaggio provinciale.

 

Celebri gli autoritratti, a cominciare da quello nel quale veste la pittoresca divisa della banda cittadina, con tanto di cappello piumato e giubba ornata con lustrini, bottoni e ricami dorati. Il M. non attribuì mai valore artistico ai propri dipinti, mostrati di rado agli amici più fidati. Vivente partecipò soltanto a tre rassegne espositive, a Terni, nel 1936, propose l’opera Rientra la processione; l’anno seguente, a Perugia, espose un olio di analogo soggetto (Processione), ed infine, nel 1938, di nuovo a Terni, prese parte alla VII edizione della Sindacale con due dipinti: La battaglia di Colleluna e È andata male.




Quest’ultima opera, di soggetto autobiografico, è nota anche con il titolo È jita male e documenta l’attività della Fanfara Metelli, il complesso musicale che l’artista costituì nel 1910. Sotto una sferzante nevicata i musicanti rientrano in città, soltanto il M., il capobanda, si protegge con l’ombrello, quel parapioggia verde costantemente presente in tutti i dipinti che descrivono episodi della sua vita.

 

Il M. morì a Terni mentre era ancora in corso la manifestazione, all’alba del 26 nov. 1938, lasciando incompiuto il dipinto al quale stava lavorando, Uscita dal teatro. Dopo la morte del M. le sue opere furono costantemente presenti nelle esposizioni nazionali e internazionali: nel 1941 nell’ambito della VIII Sindacale a Terni gli fu riservata, quale omaggio postumo, una sala personale nella quale vennero esposti tredici dipinti. L’anno seguente le opere del M. varcarono per la prima volta i confini regionali per essere presentate alla LVII Mostra della Galleria di Roma nella rassegna riservata agli artisti partecipanti alle Sindacali umbre. Nel 1946 alla Galleria di Roma fu allestita la prima retrospettiva su iniziativa dello scultore ternano A. De Felice. Le sue opere furono esposte alla II Triennale internazionale d’arte di Bratislava, durante la quale il M. fu riconosciuto come uno dei classici della pittura naïf.







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