CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

martedì 22 ottobre 2019

ESULE A 'TOMI' (16)




















































Precedenti capitoli:

Meditazioni 'apocalittiche' (1/15)

Prosegue nel...:

Lupo che rifonda il mito (17/8)















È triste vedere la propria terra natia - questo quanto nel primo millennio nel verde cuore che la ispira - assalita da incolte non men che ingorde schiere di barbari. Predata della bellezza che per sempre l’ha resa così unica e mistica, patria di Santi e Poeti letterati ed Eretici uniti dall’univoco credo contro il barbaro, ed a loro come l’inutile cimento accompagnato dal cemento qual credo dell’amplesso e futura orgia per ciò - che in verità e per il vero - li guida, dedico questa mia!




Ci sia concesso, non tanto un inutile discorso, incomprensibile all’elmo del ‘caratteriale longobardo’, quanto l’Elemento proprio tratto dalla vena Poetica raccolta dalla miniera della Storia avversare l’Apocalisse testimoniata attentare la Divina Natura derivata violentata… non men che saccheggiata!

A causa di tale avvilente melanconia (dell’uomo di Genio specchio della verde terra dal barbaro offesa): principio della fine e fine della Cultura intera, ci sia concesso almeno un Epitaffio chiamando in causa il Sidonio Apolinnare, grande sculture di Poesia nonché scrittore di epitaffi quanto elogi funebri, giacché Novembre stagione della morte la quale presto trionferà sulla vita.




Ed a Lui qual futuro nuovo nascituro nel mese dell’epitaffio per ogni tomba e sepolcro scolpito e nel quale il barbaro fonderà il cimitero in nome e per conto della vita perita, contraccambio il pane della Poesia incisa qual eterna gloria e moneta, formulando auguri e grazia per l’imminente nuova venuta.   

Nell’oro degli eterni Elementi tratti ci rinfranchiamo per comporre più solida e certa moneta reclamare ed annunciare la vita apparentemente smarrita comporre l’Epitaffio dalla tomba ove ogni Verso Strofa e Rima possano appena descrivere futura imminente Apocalisse...




Per chi meglio intende Natura e Poesia nel verde cuore nata.

Se nel Tempo tratto furono franchi o unni da longobardi accompagnati, nell’odierno (ri)tratto o scavo medesimi profili ricaviamo e componiamo in ugual carati di prezioso Elemento attentato…

E da simmetrici barbari rubato…




Sidonio aveva il dono, rarissimo, della visione precisa e sfumata; in una breve lettera ad un certo Lampridio, caratterizza attraverso distinzioni di colore, forme e movimenti le diversi stirpi barbare che allora vagavano in violente orde per i territori dell’Impero romano: il sassone dagli occhi azzurri che, abituato al rollio delle imbarcazioni, teme la solidità del terreno; l’erule dalle gote glauche che abita le più lontane coste dell’oceano e ha finito per prendere qualcosa del colore di un mare tutto ricoperto di alghe; il burgundo gigantesco, che piega le ginocchia…

Nei suoi panegirici di Antemio, di Avito, di Maggioriano, Sidonio ridisegna la fisionomia dei barbari attraverso particolari tipici. Di queste invasioni che suonano ormai quasi mitiche, ridotte a racconti che si recitano agli scolari, alcuni poeti furono testimoni diretti.




Videro i barbari ‘dalla testa stretta come un uovo; sotto la fronte due buchi in cui gli occhi sembrano assenti… e perché le loro narici non sconfinino nelle gote, non rechino fastidio al casco e alla maschera, si appiattisce loro con forza il naso fin dalla nascita…’.

Ed ancora per ciò che concerne i loro migliori alleati:

‘Scende dalle balze rifee, sotto il carro dell’Orsa vive un popolo minaccioso nell’animo e nel corpo: sì, il suo orrore è già nei volti degli infanti. La testa, una massa rotonda, si erge incassata sul collo; sotto la fronte nelle due cavità c’è uno sguardo di occhi come assenti; la luce proiettata nella soffitta del cranio arriva a stento alle pupille rientranti, ma tuttavia non chiuse; infatti vedono grandi spazi pur essendo l’arcata non spaziosa, e piccoli varchi in fondo alle cavità compensano l’uso di una vista migliore. Poi, affinché sulle gote non si amplino i due orifizi del naso, una benda fascia e comprime le tenere narici, in modo che cedano agli elmi: così per la guerra l’amore materno deforma i figli, poiché l’appiattita superficie delle guance con un naso non prominente è più ampia. 




Il resto del corpo degli uomini tozzo malformato; ampio si erge il petto, le spalle larghe, il ventre compatto sotto i fianchi. In piedi la statura è nella media, ma risulta imponente se li vedi a cavallo; così spesso pensi che sono alti se son seduti. Non appena il bambino si regge a stento in piedi senza la madre subito un destriero gli offre il dorso; penseresti che gli uomini hanno membra conformi; così sempre ben aderisce al cavallo il fantino; un altro popolo si muove sul dorso degli equini, questo ci abita (un tutt’uno con il cavallo). Archi ricurvi e frecce sono la loro passione, le loro mani sono terribili e ferme, salda è la convinzione di portar morte con le frecce e la furia è istruita a uccidere sotto colpi infallibili. Questo popolo all’improvviso facendo irruzione, dopo aver attraversato con i carri l’Istro gelato, era giunto e la ruota aveva inciso il solco rappreso delle acque. Tu penetrando contro di esso, vagante per le terre della Dacia, avanzi, lo attacchi, lo vinci, lo accerchi…’.




I franchi, fratelli dei germani, antenati di una buona parte dei francesi, frammisti ai longobardi sembravano veri e propri mostri, dalla chioma assolutamente infantile, o molto simile a quella dei pellerossa. ‘La parte anteriore della testa fin sulla fronte è coperta da una capigliatura rossa; tutto il resto fino al collo luccica come un cuoio rasato delle sue setole; i loro occhi acquosi emettono bagliori di un bianco verdastro; sulle loro guance rasate di fresco si drizzano come barbe sottili creste di peli arricciati con il pettine…’.

I più temuti di loro hanno le teste rasate!

Raffinatissimo, buon cittadino romano, console anziano, caro agli imperatori, vescovo, Sidonio Apolinnare disprezza più che detestare i barbari, cui aveva tenuto testa e in mezzo ai quali gli era necessario vivere nella sua sede episcopale di Clemont.





AD V. C. CATVLLINVM

Quid me, etsi ualeam, parare carmen
Fescenninicolae iubes Diones
inter crinigeras situm cateruas
et Germanica uerba sustinentem,
laudantem tetrico subinde uultu
quod Burgundio cantat esculentus,
infundens acido comam butyro?
Vis dicam tibi quid poema frangat?
ex hoc barbaricis abacta plectris
spernit senipedem stilum Thalia,
ex quo septipedes uidet patronos.

Felices oculos tuos et aures
felicemque libet uocare nasum,
cui non allia sordidumque cepe
ructant mane nouo decem apparatus,
quem non ut uetulum patris parentem
nutricisque uirum die nec orto
tot tantique petunt simul Gigantes,
quot uix Alcinoi culina ferret.
Sed iam Musa tacet tenetque habenas
paucis hendecasyllabis iocata,
ne quisquam satiram uel hos uocaret.





Lo confessa il suo amico Catullino: questi barbari con la criniera, questi burgundi ubriachi e stracolmi di cibo, con la testa spalmata di burro rancido, questi barbari ex germani oppure longobardi che, fin dal mattino, appestano l’aria di puzzo delle loro fabbriche metallurgiche o edili. Questi falsi giganti, uomini alti sette nani, tanto insolenti quanto indiscreti, lo disgustano profondamente; egli è obbligato a biascicare una lingua sciocca, priva di riflessioni: come si annoia!, quasi quanto un poeta moderno che vivesse tra i vandali…




Il poeta, quindi, si ritrova assediato dai rozzi Burgundi e dai loro idiomi barbari; longobarda e germanica verba. In quest’ultimo luogo il Sulmonese lamenta la sua condizione di esule in una terra inospitale, abitata da uomini appena degni di questo nome, in quanto più feroci dei lupi selvaggi, fors’anche veri parenti dei cinghiali; ignari del diritto e sottoposti alla legge del più forte. Questi barbari, vestiti di pelle e con orridi volti tra le folte chiome, conoscono solo qualche parola di greco, ormai resa barbara dall’accento getico. Essi ignorano del tutto il latino, cosicché il poeta stesso è costretto a parlare in Sarmatico; sta così venendo meno in lui la consuetudine con la lingua latina. Egli si esercita tra sé e sé, affinché la sua voce non diventi muta e incapace di esprimersi nell’idioma natio. 




Anche Ovidio, come Sidonio, è circondato da esseri che hanno ben poco di umano: Sidonio paragona i Burgundi ai Giganti, gli esseri mostruosi che cercarono di sopraffare gli dei, garanti dell’ordine e della razionalità; Ovidio paragona gli abitanti di Tomi ai cinghiali e li definisce privi di legge; in entrambi i poeti compare un riferimento ai loro capelli (Sidonio ricorda l’abitudine dei barbari di spargere sulle chiome burro rancido, Ovidio fa riferimento alla lunghezza delle loro capigliature); entrambi sono costretti ad ascoltare idiomi stranieri: Sidonio parla di longobarda-germanica verba e di barbarica plectra, Ovidio fa riferimento alla lingua dei barbari, che non conoscono parole greche o latine.





Nel carme sidoniano Talia è costretta a preferire i versi sgraziati e ametrici dei Burgundi; il vate romano Ovidio chiede perdono alle Muse, perché ormai anche la sua lingua poetica è infarcita di barbarismi. Entrambi i poeti, inoltre, imputano l’indebolimento della loro vena poetica alle condizioni in cui sono costretti a vivere: Sidonio rifiuta di comporre l’epitalamio richiestogli da Catullino; Ovidio si lamenta perché i suoi versi risentono del fatto che il loro autore è ormai disabituato a parlare in latino. Ovidio lamenta con il suo interlocutore Severo la mancanza di ispirazione a Tomi: lo stesso Omero, se fosse trasferito, diverrebbe un Geta.




La condizione di Sidonio, però, è quasi peggiore di quella di Ovidio: se il Sulmonese è esule a Tomi, Sidonio si sente un forestiero in casa propria!

Anche Sidonio (che segue, però, la tradizione secondo cui l’esilio di Ovidio sarebbe stato causato da una relazione con Giulia) ha rischiato di compromettere la propria amicizia con il princeps a causa di un errore, un carmen, di cui, però, dichiara di non essere l’autore.

La convivenza forzata con i Burgundi foederati, in conclusione, potrebbe aver offerto al poeta tardoantico la possibilità di accrescere il tono satirico con una criptica allusione allo status esistenziale dell’Ovidio esule. Sidonio, che pure non è incorso in una punizione imperiale, è costretto a vivere circondato da barbari, come Ovidio, in un mondo che ignora quella dimensione della letteratura, che è cifra vitale per i due intellettuali.

Il poeta doctus del V secolo, di fronte al tracollo della civiltà romana, è indotto a trasfigurare letterariamente la realtà che lo circonda - e che suo malgrado - deve subire dall’ignoranza che tende a esportare il proprio dominio,  ‘materia’ celebrata qual nuova dottrina acclamata…

(R. de Gourmont, Il latino mistico; ringrazio M. Karcz 

Karezoid's avatar      per le preziose foto....) 














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