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Meditazioni 'apocalittiche' (1/15)
Prosegue nel...:
Lupo che rifonda il mito (17/8)
È triste
vedere la propria terra natia - questo quanto nel primo millennio nel verde
cuore che la ispira - assalita da incolte non men che ingorde schiere di
barbari. Predata della bellezza che per sempre l’ha resa così unica e mistica,
patria di Santi e Poeti letterati ed Eretici uniti dall’univoco credo contro il
barbaro, ed a loro come l’inutile cimento accompagnato dal cemento qual credo
dell’amplesso e futura orgia per ciò - che in verità e per il vero - li guida, dedico questa mia!
Ci sia
concesso, non tanto un inutile discorso, incomprensibile all’elmo del
‘caratteriale longobardo’, quanto l’Elemento proprio tratto dalla vena Poetica
raccolta dalla miniera della Storia avversare l’Apocalisse testimoniata
attentare la Divina Natura derivata violentata… non men che saccheggiata!
A causa di
tale avvilente melanconia (dell’uomo di Genio specchio della verde terra dal
barbaro offesa): principio della fine e fine della Cultura intera, ci sia
concesso almeno un Epitaffio chiamando in causa il Sidonio Apolinnare, grande sculture di Poesia nonché scrittore di
epitaffi quanto elogi funebri, giacché Novembre
stagione della morte la quale presto trionferà sulla vita.
Ed a Lui
qual futuro nuovo nascituro nel mese dell’epitaffio per ogni tomba e sepolcro scolpito
e nel quale il barbaro fonderà il cimitero in nome e per conto della vita
perita, contraccambio il pane della Poesia incisa qual eterna gloria e moneta,
formulando auguri e grazia per l’imminente nuova venuta.
Nell’oro
degli eterni Elementi tratti ci rinfranchiamo per comporre più solida e certa
moneta reclamare ed annunciare la vita
apparentemente smarrita comporre l’Epitaffio dalla tomba ove ogni Verso Strofa
e Rima possano appena descrivere futura imminente Apocalisse...
Per chi
meglio intende Natura e Poesia nel verde cuore nata.
Se nel
Tempo tratto furono franchi o unni da longobardi accompagnati, nell’odierno
(ri)tratto o scavo medesimi profili ricaviamo e componiamo in ugual carati di
prezioso Elemento attentato…
E da
simmetrici barbari rubato…
Sidonio aveva il dono, rarissimo, della visione precisa
e sfumata; in una breve lettera ad un certo Lampridio, caratterizza attraverso
distinzioni di colore, forme e movimenti le diversi stirpi barbare che allora vagavano
in violente orde per i territori dell’Impero romano: il sassone dagli occhi
azzurri che, abituato al rollio delle imbarcazioni, teme la solidità del
terreno; l’erule dalle gote glauche che abita le più lontane coste dell’oceano
e ha finito per prendere qualcosa del colore di un mare tutto ricoperto di
alghe; il burgundo gigantesco, che piega le ginocchia…
Nei suoi
panegirici di Antemio, di Avito, di Maggioriano, Sidonio ridisegna la fisionomia dei barbari attraverso particolari
tipici. Di queste invasioni che suonano ormai quasi mitiche, ridotte a racconti
che si recitano agli scolari, alcuni poeti furono testimoni diretti.
Videro i
barbari ‘dalla testa stretta come un uovo; sotto la fronte due buchi in cui gli
occhi sembrano assenti… e perché le loro narici non sconfinino nelle gote, non
rechino fastidio al casco e alla maschera, si appiattisce loro con forza il
naso fin dalla nascita…’.
Ed ancora
per ciò che concerne i loro migliori alleati:
‘Scende
dalle balze rifee, sotto il carro dell’Orsa vive un popolo minaccioso
nell’animo e nel corpo: sì, il suo orrore è già nei volti degli infanti. La
testa, una massa rotonda, si erge incassata sul collo; sotto la fronte nelle
due cavità c’è uno sguardo di occhi come assenti; la luce proiettata nella soffitta
del cranio arriva a stento alle pupille rientranti, ma tuttavia non chiuse;
infatti vedono grandi spazi pur essendo l’arcata non spaziosa, e piccoli varchi
in fondo alle cavità compensano l’uso di una vista migliore. Poi, affinché
sulle gote non si amplino i due orifizi del naso, una benda fascia e comprime
le tenere narici, in modo che cedano agli elmi: così per la guerra l’amore
materno deforma i figli, poiché l’appiattita superficie delle guance con un
naso non prominente è più ampia.
Il resto del corpo degli uomini tozzo malformato; ampio si erge il petto, le spalle larghe, il ventre compatto sotto i fianchi. In piedi la statura è nella media, ma risulta imponente se li vedi a cavallo; così spesso pensi che sono alti se son seduti. Non appena il bambino si regge a stento in piedi senza la madre subito un destriero gli offre il dorso; penseresti che gli uomini hanno membra conformi; così sempre ben aderisce al cavallo il fantino; un altro popolo si muove sul dorso degli equini, questo ci abita (un tutt’uno con il cavallo). Archi ricurvi e frecce sono la loro passione, le loro mani sono terribili e ferme, salda è la convinzione di portar morte con le frecce e la furia è istruita a uccidere sotto colpi infallibili. Questo popolo all’improvviso facendo irruzione, dopo aver attraversato con i carri l’Istro gelato, era giunto e la ruota aveva inciso il solco rappreso delle acque. Tu penetrando contro di esso, vagante per le terre della Dacia, avanzi, lo attacchi, lo vinci, lo accerchi…’.
Il resto del corpo degli uomini tozzo malformato; ampio si erge il petto, le spalle larghe, il ventre compatto sotto i fianchi. In piedi la statura è nella media, ma risulta imponente se li vedi a cavallo; così spesso pensi che sono alti se son seduti. Non appena il bambino si regge a stento in piedi senza la madre subito un destriero gli offre il dorso; penseresti che gli uomini hanno membra conformi; così sempre ben aderisce al cavallo il fantino; un altro popolo si muove sul dorso degli equini, questo ci abita (un tutt’uno con il cavallo). Archi ricurvi e frecce sono la loro passione, le loro mani sono terribili e ferme, salda è la convinzione di portar morte con le frecce e la furia è istruita a uccidere sotto colpi infallibili. Questo popolo all’improvviso facendo irruzione, dopo aver attraversato con i carri l’Istro gelato, era giunto e la ruota aveva inciso il solco rappreso delle acque. Tu penetrando contro di esso, vagante per le terre della Dacia, avanzi, lo attacchi, lo vinci, lo accerchi…’.
I franchi,
fratelli dei germani, antenati di una buona parte dei francesi, frammisti ai
longobardi sembravano veri e propri mostri, dalla chioma assolutamente
infantile, o molto simile a quella dei pellerossa. ‘La parte anteriore della
testa fin sulla fronte è coperta da una capigliatura rossa; tutto il resto fino
al collo luccica come un cuoio rasato delle sue setole; i loro occhi acquosi
emettono bagliori di un bianco verdastro; sulle loro guance rasate di fresco si
drizzano come barbe sottili creste di peli arricciati con il pettine…’.
I più
temuti di loro hanno le teste rasate!
Raffinatissimo,
buon cittadino romano, console anziano, caro agli imperatori, vescovo, Sidonio Apolinnare disprezza più che detestare
i barbari, cui aveva tenuto testa e in mezzo ai quali gli era necessario vivere
nella sua sede episcopale di Clemont.
AD V.
C. CATVLLINVM
Quid me, etsi ualeam,
parare carmen
Fescenninicolae iubes
Diones
inter crinigeras situm
cateruas
et Germanica uerba
sustinentem,
laudantem tetrico
subinde uultu
quod Burgundio cantat
esculentus,
infundens acido comam
butyro?
Vis dicam tibi quid
poema frangat?
ex hoc barbaricis abacta
plectris
spernit senipedem stilum
Thalia,
ex quo septipedes uidet
patronos.
Felices oculos tuos et
aures
felicemque libet uocare
nasum,
cui non allia
sordidumque cepe
ructant mane nouo decem
apparatus,
quem non ut uetulum
patris parentem
nutricisque uirum die
nec orto
tot tantique petunt
simul Gigantes,
quot uix Alcinoi culina
ferret.
Sed iam Musa tacet
tenetque habenas
paucis hendecasyllabis
iocata,
ne quisquam satiram uel
hos uocaret.
Lo confessa
il suo amico Catullino: questi
barbari con la criniera, questi burgundi ubriachi e stracolmi di cibo, con la
testa spalmata di burro rancido, questi barbari ex germani oppure longobardi
che, fin dal mattino, appestano l’aria di puzzo delle loro fabbriche
metallurgiche o edili. Questi falsi giganti, uomini alti sette nani, tanto
insolenti quanto indiscreti, lo disgustano profondamente; egli è obbligato a
biascicare una lingua sciocca, priva di riflessioni: come si annoia!, quasi
quanto un poeta moderno che vivesse tra i vandali…
Il poeta,
quindi, si ritrova assediato dai rozzi Burgundi e dai loro idiomi barbari; longobarda e germanica verba. In quest’ultimo luogo il Sulmonese lamenta la sua condizione di esule in una terra
inospitale, abitata da uomini appena degni di questo nome, in quanto più feroci
dei lupi selvaggi, fors’anche veri parenti dei cinghiali; ignari del diritto e
sottoposti alla legge del più forte. Questi barbari, vestiti di pelle e con orridi
volti tra le folte chiome, conoscono solo qualche parola di greco, ormai resa
barbara dall’accento getico. Essi ignorano del tutto il latino, cosicché il
poeta stesso è costretto a parlare in Sarmatico; sta così venendo meno in lui
la consuetudine con la lingua latina. Egli si esercita tra sé e sé, affinché la
sua voce non diventi muta e incapace di esprimersi nell’idioma natio.
Anche Ovidio, come Sidonio, è circondato da esseri che hanno ben poco di umano: Sidonio paragona i Burgundi ai Giganti,
gli esseri mostruosi che cercarono di sopraffare gli dei, garanti dell’ordine e
della razionalità; Ovidio paragona
gli abitanti di Tomi ai cinghiali e li definisce privi di legge; in entrambi i
poeti compare un riferimento ai loro capelli (Sidonio ricorda l’abitudine dei
barbari di spargere sulle chiome burro rancido, Ovidio fa riferimento alla
lunghezza delle loro capigliature); entrambi sono costretti ad ascoltare idiomi
stranieri: Sidonio parla di longobarda-germanica verba e di barbarica
plectra, Ovidio fa riferimento
alla lingua dei barbari, che non conoscono parole greche o latine.
Nel carme
sidoniano Talia è costretta a preferire i versi sgraziati e ametrici dei
Burgundi; il vate romano Ovidio
chiede perdono alle Muse, perché ormai anche la sua lingua poetica è infarcita
di barbarismi. Entrambi i poeti, inoltre, imputano l’indebolimento della loro
vena poetica alle condizioni in cui sono costretti a vivere: Sidonio rifiuta di comporre l’epitalamio
richiestogli da Catullino; Ovidio si
lamenta perché i suoi versi risentono del fatto che il loro autore è ormai
disabituato a parlare in latino. Ovidio
lamenta con il suo interlocutore Severo la
mancanza di ispirazione a Tomi: lo stesso Omero, se fosse trasferito,
diverrebbe un Geta.
La
condizione di Sidonio, però, è quasi
peggiore di quella di Ovidio: se il
Sulmonese è esule a Tomi, Sidonio si
sente un forestiero in casa propria!
Anche Sidonio (che segue, però, la tradizione
secondo cui l’esilio di Ovidio sarebbe stato causato da una relazione con
Giulia) ha rischiato di compromettere la propria amicizia con il princeps a
causa di un errore, un carmen, di cui, però, dichiara di non essere l’autore.
La
convivenza forzata con i Burgundi foederati,
in conclusione, potrebbe aver offerto al poeta tardoantico la possibilità di
accrescere il tono satirico con una criptica allusione allo status esistenziale
dell’Ovidio esule. Sidonio, che pure non è incorso in una
punizione imperiale, è costretto a vivere circondato da barbari, come Ovidio, in un mondo che ignora quella
dimensione della letteratura, che è cifra vitale per i due intellettuali.
Il poeta
doctus del V secolo, di fronte al tracollo della civiltà romana, è indotto a
trasfigurare letterariamente la realtà che lo circonda - e che suo malgrado -
deve subire dall’ignoranza che tende a esportare il proprio dominio, ‘materia’ celebrata qual nuova dottrina
acclamata…
(R. de
Gourmont, Il latino mistico; ringrazio M. Karcz
per le preziose foto....)
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