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Per tutti i diavoli! (28)
Immaginate un mondo spartito in tre piani….
Nel piano di sopra è il paradiso, la reggia di Dio, la dimora degli angeli e dei beati, sfolgorante di luce, risonante d’ineffabili armonie, odorosa di fiori immarcescibili; è il regno della santità incorruttibile e della eterna letizia….
Nel piano di mezzo è questo mondo terreno, popolato da una umanità decaduta e dogliosa, che pecca anelando al riscatto, e spasima sognando beatitudine; è il regno della perpetua vicenda, del cimento sempre rinnovellato nella mescolanza del bene e del male.
Nel piano di sotto è l’inferno, la voragine e tenebrosa, dove Satana e gli angeli suoi, con l’infinito popolo dei dannati, pagano alla divina giustizia un debito che mai non si salda; è il regno del peccato irreparabile, della scelleratezza irredimibile, del dolore smisurato, disperato ed eterno….
A quest’ ultimo regno è congiunta una regione dove il peccato si ripara e si purga, dove il dolore è alleviato dalla speranza; è il purgatorio, vestibolo buio del cielo radioso.
Il regno di mezzo è come un vivaio immenso di anime, le quali ininterrottamente ne emigrano, spartite in doppia corrente, l’una che sale al cielo, l’altra che scende all’inferno. Satana e la innumerevole sua milizia non intendono ad altro fine, non ad altro usano l’arte e la malvagità loro, che a trarre all’ingiù quante più anime possono, a popolare l’inferno a scapito del paradiso. E della loro riuscita in tale intento non si possono lagnare.
Ma dov’era propriamente l’inferno?
Dice sant’Agostino, nel suo libro della Città di Dio, che nessun uomo lo può sapere se Dio stesso non glielo ha rivelato. Ciò non tolse tuttavia che le più disparate e le più strane opinioni fossero espresse in proposito; e il regno dei dannati fu posto nell’aria, nel sole, nella Valle di Giosafat, sotto i poli, agli antipodi, dentro ai vulcani, nel centro della terra, nell’ultimo Oriente, in isole remote, perdute in grembo di oceani sconosciuti, o, addirittura, fuori del mondo.
Qualche esempio a tale riguardo potrà bastare.
Gregorio Magno racconta di un solitario dell’isola di Lipari, che vide una volta il papa Giovanni e Simmaco precipitar nella bocca di quel vulcano l'anima di Teodorico. Alberico delle Tre Fontane, cronista francese morto nel 1241, dice, parlando dell’Etna, che le anime dei dannati erano quivi portate quotidianamente a bruciar tra le fiamme. Aimoino, monaco di Fleury sul finire del secolo X, e Cesario di Heisterbach, narrano fatti e storie consimili. San Brandano, navigando fuori dei termini del mondo conosciuto, vide un’isola ignominiosa, dove demoni in figura di fabbri ferrai m martellavano sulle incudini le anime arroventate.
L’opinione più comune tuttavia, e nel tempo stesso più naturale, era quella che poneva l’inferno nelle viscere della terra, conformemente a quanto già avevano creduto gli antichi.
Così l’abisso era spalancato, insidia e minaccia perpetua, sotto ai piedi dei peccatori e dei giusti, e la corteccia terrestre diveniva un tenue solaio che trepidava e fremeva per l’impeto delle fiamme penaci e pel mugghio degli eterni tormenti.
La terra, illuminata fuori dal sole, lieta di floridi campi e di selve, rorida di acque, era come un frutto bacato che, sotto vaga buccia, abbia fradicio il midollo; era com’un di quei pomi che a detta dei viaggiatori nascevano sulle rive del Mar Morto, e che coloriti e odorosi di fuori, erano, dentro, pieni di cenere. Il baco che aveva ròsa e guasta la terra era Satana, cui Dante chiama ‘il verme reo che il mondo fora’, e alla cui caduta dal cielo fa seguire, con mirabile fantasia, la formazione del baratro infernale.
L’inferno doveva avere le sue bocche e i suoi aditi, necessari, se non altro, al disimpegno di quelle mille faccende che i diavoli avevano, al loro andare, venire, frullare perpetuo. Negli Evangeli è cenno di porte dell’inferno che non prevarranno contro la Chiesa; Cristo, accingendosi a penetrar nei regni bui, grida ai principi delle tenebre di aprir quelle porte, e non obbedito, le infrange. Dove fossero non si sa con certezza.
Gervasio di Tilbury dice ch’eran di bronzo, e che si vedevano ancora, cosi infrante, in fondo a un lago, presso Pozzuoli. Dante entra in inferno per una porta senza serrarne, su cui si leggono le parole di colore oscuro.
Altre entrate ad ogni modo non mancavano.
Più di una caverna tortuosa e cupa, più di una voragine sprofondante sotterra, fu creduta una bocca dell’inferno, e se alcuni pensavano che dentro i vulcani abitassero i demoni e fossero tormentate le anime dannate, altri dicevano i vulcani essere più propriamente bocche e spiriti dell’inferno, d’onde esalavano gli ardori e il fumo dell’eterna fornace.
L’inferno era come un mostro immane sul cui corpo si moltiplicavano le bocche, avide di procacciare nuova pastura al ventre voraginoso. Non senza ragione dunque si vede rappresentato l’inferno, nelle pitture e nei misteri del medioevo, sotto la forma di una mostruosa bocca di drago che divora anime e vomita turbini di fiamme e di fumo. L’inferno è il regno del dolore e del bujo, come il paradiso ò il regno della letizia e della luco. Le tenebre vi sono dense, profonde, fatte in qualche modo consistenti. La dolorosa valle d’abisso, dice Dante, Oscura, profonderà e nebulosa/, Tanto, che per ficcar lo viso al fondo/, Io non vi discernea nessuna cosa/.
In inferno capitavano anime d’ogni qualità e condizione, anime di papi e d’imperatori, di frati e di cavalieri, di mercanti e di giullari, di donne impudiche e di fanciulli malvagi; tutte le classi, tutte le professioni gli pagavan tributo e tributo larghissimo. Il compito principale dell’umanità, il fine de’suoi lunghi travagli pareva esser quello di vettovagliare l’inferno. Le anime, o erano catturate e trasportate dai diavoli, o precipitavano nell’abisso come tratte da una specifica gravità di peccato.
Un eremita dell’ottavo secolo, san Baronto, vide i demoni portar l’animo in inferno con la frequenza che mostrano le api, quando, fatto il loro bottino, se ne tornano all’alveare; sant’Obizzo (m. c. 1200) vide cader le anime in inferno fìtte come neve, e santa Brigida dice in una delle sue Rivelazioni che le anime le quali piombano ogni giorno in inferno sono più numerose delle arene del mare.
All’inferno era facilissimo andare come inquilino perpetuo; difficilissimo, per contro, andarci come semplice visitatore. Ciò nondimeno molti lo visitarono, a cominciare dalla Vergine Maria, che vi andò accompagnata dall’arcangelo Michele, e da numerosa schiera di angeli, quanto è narrato in certa apocalissi greche.
Subito dopo lei v’andò san Paolo, secondo una leggenda molto divulgata nel medioevo, che Dante certamente conobbe.
Siffatte discese nel regno dei dannati solevano essere effetto della divina grazia, sollecita della salute di alcun peccatore, o di quella di un intero popolo, dimentico dei precetti e degli ammonimenti divini; ma non sempre la grazia c’entrava, almeno in modo diretto.
San Gutlaco, di cui ho già ricordato più di una volta il nome, è assalito nella sua cella, una notte, da una legione di diavoli, che con molti tormenti lo trascinano a vedere le pene dell’inferno. Ugone d’Alvernia, l’avventuroso cavaliere, va in inferno per ordine espresso del suo re, che voleva tributo da Lucifero. L’anno 1218 un conte di Geulch offre gran premio a chi sappia dargli notizia della condizione del padre, morto poco innanzi. Un intrepido cavaliere offre i suoi servigi, scende con l’aiuto di un negromante in inferno, e quivi trova il vecchio conte, il quale dice che le pene gli saranno alleviate, se si restituiranno alla Chiesa certi benefici da lui tolti indebitamente. Quando la grazia divina operava in modo diretto, un angelo soleva guidare il visitatore.
La visita poteva compiersi in ispirato soltanto, e anche corporalmente.
Nel primo caso si aveva la visione propriamente detta; nel secondo, una vera e propria peregrinazione. Le visioni toccavano di solito a chi era in stato di sovreccitazione mentale, o spossato da lunga infermità: mentre l’anima viaggiava per conto suo, il corpo rimaneva in stato di profondo letargo, simile alla morte. Io non debbo qui entrar nell’esame delle condizioni psicologiche e patologiche del fenomeno; mi basta di recar qualche esempio…
San Furseo, monaco irlandese del settimo secolo, essendo ammalato da tre giorni, fu condotto a vedere le pene dell’inferno da due angeli, preceduti da un altro angelo, che aveva una spada sfavillante e uno scudo luminoso. Una notte, Carlo il Grosso stava per coricarsi, quando udì una voce terribile gridargli: “su Carlo, l’anima tua lascerà il corpo, e sarà condotta a vedere i giudizi di Dio;” e cosi fu. Alberico, figliuolo di un barone della Campania, fu sorpreso, all’età di nove anni, da un deliquio che durò nove giorni, durante il qual tempo, guidato da san Pietro e da due angeli, visitò l’inferno e il paradiso.
L’anno 1149, un cavaliere irlandese per nome Tundalo, uomo empio e di mali costumi, fu pressoché ucciso con un colpo di scure da un suo debitore. Rinsensato, raccontò ciò che aveva veduto delle cose dell’altro mondo. Altri invece, come Ugone d’Alvernia e Guerino il Meschino, già ricordati, e il cavaliere Owen, andarono all’inferno in carne ed ossa, imitando gli esempi di Ulisse e di Enea.
Dante v’andò allo stesso modo.
Comunque ci si andasse del resto, col corpo o senza il corpo, l'andata non era senza pericolo: san Furseo portò tutto il tempo di vita sua le tracce del fuoco infernale che l’aveva tocco. I demoni vedevano assai mal volentieri aggirarsi pel regno loro chi non doveva restarci, e si studiavano di nuocere in tutti i modi agli intrusi. Essi tentarono di uncinar Carlo il Grosso con uncini arroventati, e di afferrare con ignee tenaglie un buon uomo di Nortumbriadi cui narra la visione il Venerabile Beda. Il giovane Alberico, il cavaliere Owen, altri assai, furono da loro in vari modi minacciati o tormentati. Senza l’aiuto di Virgilio e del messo celeste.
Dante si sarebbe trovato più d’una volta a mal partito….
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