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circa trascorse e future
PROSEGUE NELLA FONDA-
BREVE INTRODUZIONE
Il
potere del ciarlatano poggia sulla falsificazione: egli profana la verità, la conoscenza
e le parole, privandole del loro contenuto autentico. Il suo potere, proprio
come la ‘credenza superstiziosa in uomini demoniaci’ di cui parlava Goethe, non
tramonterà mai finché tanti creduloni, pur nella convinzione di aborrire le
menzogne, desiderano chiudere gli occhi davanti all’intera verità per poterli
riaprire, con stupore e fiducia, davanti alle immagini variegate della mezza
verità.
Nella
prospettiva del cristianesimo, tali ‘credenti’ sono in realtà increduli. Il
cristiano recepisce il miracolo ‘nella fede e non nella visione’ (2 Cor 5,7).
Nel
Vangelo di Giovanni (Gv 20,27-29) è scritto: Poi disse a Tommaso: ‘Metti qui il
tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco, e
non essere incredulo, ma credente!’ Gli rispose Tommaso: ‘Mio signore e mio
Dio!’. Gesù gli disse: ‘Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che
non hanno visto e hanno creduto!’.
Tommaso è divenuto noto a tutti come l’incredulo, per aver creduto solo dopo aver visto il miracolo e averlo toccato con le sue mani. Gli ‘increduli credenti’ del ciarlatano volano come falene vacillanti attorno alla magica luce irradiata dal prodigio. Vogliono vedere, sentire e toccare, come ben sa il famoso uomo delle meraviglie. Quest’ultimo offre un’esposizione permanente di prodigi tangibili, esortando il pubblico a prendere parte alla sua presentazione e a osservare ogni cosa.
I
suoi potenziali proseliti, incalzati da una serie ininterrotta di parole e
immagini, finiscono col credergli e col credere in lui.
Questo
genere di dimostrazioni basate sull’apparenza esteriore trasmette loro una
sicurezza nella quale amano cullarsi. Subito dopo, però, sono costretti a
difendere le loro prove fallaci contro ogni tentativo di esame critico, e
tremano di fronte alla minaccia di un’odiata controprova tangibile che possa
minare la felicità promessa e garantita.
Dinanzi a questa controprova, si rifugiano nell’illusione. E così accade che i seguaci dell’uomo delle meraviglie, pur esigendo continuamente da costui prove tangibili, al tempo stesso disdegnano qualsiasi riscontro concreto, e ripongono incondizionatamente la loro fiducia in colui che sa come risvegliare l’illusione e tenerla in vita.
Come
il prestigiatore, l’esperto e abile artefice di illusioni, il ciarlatano giocoliere
ha scoperto quanto sia facile soddisfare i desideri del suo pubblico; egli
mostra ai suoi credenti increduli le immagini chimeriche di una mezza verità, e
riesce a farlo in modo così vivido che questi sono convinti di vivere e
assaporare concretamente fin da ora la realizzazione dei loro sogni.
Una volta ubriachi di illusione, gli adepti aborrono non solo le inquietanti controprove, ma anche qualsiasi altro tipo di dimostrazione palese. Questo non perché ‘non hanno visto e hanno creduto’, bensì perché credono e non vogliono vedere. Il ciarlatano riesce a rendere visibile il sortilegio con la stessa maestria con cui evoca le immagini ingannevoli dell’illusione. La sua natura assomma in sé capacità in virtù delle quali è in grado di soddisfare i desideri apparentemente contraddittori dei suoi credenti increduli.
DIALOGO
DEL FILOSOFO & IL CIARLATANO
‘Voi vi pensaste - disse il mendico - per l’aspetto ch’io mostro ch’io fossi un uomo infelice, bruttissimo, sporcissimo e di miserie e d’infermità ripieno?’
‘Cosi
- disse il filosofo - io mi penso ancora’.
‘E
pur - ripigliò il mendico - voi di gran lunga v’ingannate, perché tale io non
sono. È ben vero che il tutto con arte faccio e molto più di quello che voi
vedete. E quantunque agli occhi vostri io appaia qual vi rassembro, tutto ciò d’altro
aspetto son riguardevole. Perché, oltre che mi trovo assai giovane e gagliardo,
non vivo cosi poveramente come a voi par che viva. Anzi, se ’l ver dir voglio,
trapasso una vita felicissima d’allegrezze e di comodità ripiena. Io me ne vo
tutto 'l giorno a spasso a l’altrui spese, ricerco tutto il mondo senza
spendervi pur un picciolo, con l’altrui danaro soccorrendomi.
Cammino securamente giorno e notte senza punto temer di ladri; anzi talor rubo loro con le affettate parolucce mie di molti danari. Godo quello ch’io m’attrovo, né di perderlo temenza m’affiigge. Non son obbligato ad alcuno di render di mia roba conto. Né alcuno mi porta invidia, ma tutti hannomi compassione; son iscusato di non prestar giammai o di dar a credenza. Non ho de liti travaglio. E manco temo che le tignuole mi rodano le vestimenta. Non dubito de’ corsari, di tempeste o di scogli che mi rubino, sommerghino o rampino le mie navi. Né punto temo di guerre o di revoluzioni di stati.
Di
gabelle, di dazi o di decime non son tassato: solamente per riscuotere ho qualche
obbligo. Per me può tempestare, venir la gragnuola, soffiare i venti e
scuotersi il mondo, che non mi si levaranno le mie entrate. Non temo di ladri
che mi rubino l’oro, che gli avari facciano carestia, o chi per ereditar mi
brami la morte. Manco dubito che alcuno, per levarmi le comodità, tradir mi
voglia. Io non sono ansioso di accumular molto, né tormentato da diligenza di
conservarlo, o afflitto da temenza di perderlo.
Dove io m’attrovo vi son anco co 'l cuore. Ciò che mi guadagno il giorno, me lo godo la sera; e quello che la sera godo, non temo che involato mi sia la notte. Né mi stimola il pensiero di quello che abbi a venire, perché sonovi molti che vi provvedono e che si togliono da sé questi pensieri: le limosine pubbliche, gli spedali, le vedovelle, tutti di me prendono cura. Qualche necessità mi tiene ben disposto e la fatica in esercizio: di dove io me ne vivo sano, molto contento e senza alcun pensiero. Ogni luogo mi è patria, per ogni canto mi ritrovo casa e abitazione; e bene spesso dormo in quel letto ch’altri s’avranno per loro accomodato.
Non
è dunque tanto infelice, né tanto miserabile lo stato nostro che ne dobbiamo
desiderar la morte’.
‘Se
cosi lo provi - rispose il filosofo - e in effetto, come lo sai dire, non sei
per certo così infelice come io ti stimai; anzi tu tieni di quella felicità di
quel filosofo che portava seco tutti i suoi beni’.
‘Per disgannarvi meglio - replicò il mendico - vi ritorno a dire ch’io non son cosi povero come mi stimate; anzi vo’ spendendo molto più di quello che bisogno mi sia e mi godo bel tempo. E sento non picciolo piacere quando io, nel resto di poche lettere, inganno i più prudenti uomini del mondo e gli sforzo a donarmi qualche cosa, incantandoli con queste mie parolucce, piene di miserie, quali usai con voi da principio. Partito da questi, di lor mi rido e tra me dico: come è possibile che uomo si saggio sia ingannato da uomini della nostra sorte? Ma in oltre questi tali ci stimano amici di Dio e compagni degli angeli. E con ciò non v’è gente di Dio più nemica di noi, poi che io bestemmiamo, lo rinneghiamo, e gli danari acquistati nel suo nome giuochiamo e dissipiamo malamente.
Attendete
ch’io non mi ritrovi aver moglie altramente né figliuoli; ma bene tengomi per
mio diporto certa femminella a casa; e quando quella a noia mi viene,
scacciandola, un’altra a mio gusto ne piglio; e cosi faccio della seconda e della
terza. Ed anco talor ho le poste dove vado per l’ordinario a riscuotere le
limosine, che dopo l’avermi ben alzato il fianco e vivo appresso senza sospetto
d’esserne scoperto, perché d’un così mal andato, come mi mostro, non fora
creduto’.
‘Io resto - disse il filosofo - attonito e stupefatto e non so quello che crederme ne debbia: perché mi pari tutto squallido, arsicciato, rugoso, enfiato e lordato di marcia e amalliato. Anzi scorgo in te così cattiva complessione, che non può esser di meno che ognor non t’accompagni la febbre e mille altri mali. Persino nella rauca voce dimostri la tua fiacchezza’.
‘Uditemi,
vi priego - soggiunse il mendico - che già che cominciai a scoprirvi le malizie
nostre, da uomo dabbene, che vogliovene raccontar buona parte. Ma priegovi bene
che ad altri non vogliate insegnare quest’arte. Eccovi qui due ghiande: queste
me le porto in bocca e mi fanno la voce confusa e mozza; e rivolgendole per lo
palato me la rendono debile e tremante. Con la lingua le mando talora da un
canto e mi fanno parere nell’una delle guance enfìato e apostemoso. Porto con
esso meco sotto questo taccone alcuni colori co’ quali mi vo impiastrando il
viso secondo l’occasione e il tempo. Anzi quando avrò scorso tutta la città con
chieder limosina, dipingendomi la faccia con altro colore e cangiandomi di
vestito ritorno a pelarla un’altra fiata, né mi manca partito per scorticarla
la terza e la quarta volta: facendomi radere, o con pece e raggia attaccandomi alcuni
peli forestieri al mento, tenendomi buona parte della faccia coperta d’una
benda insanguinata e d’unguenti lordata’.
E cavando fuori certi scartocci disse:
‘Questa
è polvere di comino che fa la pelle giallastra; questa è caligine con biacca
che palliduzza la rende. Un uovo intiero mi serve per finger una postema: rotto
su la benda sembra la marcia. Il fumo di rasa mi fa livide le carni. L’unguento
di biacca sovrapposto dà credito alle percosse e cadute per terra, quali si
pensano le genti avvenirmi per debolezza. Il vischio, la farina, con poco di
sangue e pan grattugiato, mi fanno queste croste che voi mi vedete. E con una
sanguetta tirando fuori alquanto di sangue dalle gambe e !asciandolo colare,
sovrapponendovi caligine e pan cotto, mi fanno parer impiagato e ulceroso come
mi vi mostro.
Alcune
fìate fìngomi idropico con gonfiar la panza, portandola in fuori. Talor di
questa maniera riverso le palpebre degli occhi, e cosi mi vo contraffacendo che
a pena conosco me stesso.
Alcune
fìate imito lo spiritato e ragiono fuori di proposito, né mi manca garbo in dar
ad intendere ch’io mi caggia per svenimento.
Alcune fìate fingendomi cieco e facendomi dal guidone condurre, muovo a pietà le genti; e dove in guisa di Proteo avrò ingannato qualche città in cento maniere, allora fingendo d’aver una gran piaga su una coscia, fatta apparente con l’avervi ligato un pezzo di milza aspersa di farina, ritorno a saccheggiarla. E incamminandomi ad altre città faccio l’istesso e travestendomi in diverse maniere ora mi porto una gamba in collo, ora mi rivolgo molti stracci intorno a piedi e cammino in quattro. Talora ligandomi con stretta fascia un braccio lo lascio cader pendolone; alcune fìate porto le membra così attratte e stinchide che immobili sembrano; facciomi anco a certo tempo portar da un altro e mostro esser storpiato di tutte le membra.
Bene
spesso con due crocciole portando i piedi riversi, curva la schiena, inganno
oggi chi ieri pensossi d’un altro. Fingomi talor sciancato, si che strascinando
mi vo per le strade; in certi tempi ancora mi giova far il sempliciotto, o con
stravaganti pazzie far creder alle genti ch’io mi sia un furioso matto. Con
queste e altre maniere trovo limosina e danari, coi quali giuocando a carte, a
dadi, me ne sto allegramente, e me ne vivo molto meglio e mangio più di buono
che non fanno i nobili e ricchi: insomma non sparmio cosa alcuna per
accontentarmi e godere’.
‘Come
ti vo’ bene - disse il filosofo - la indovini. Ma che t’avverrebbe se fossero
scoperte queste tue malizie?’.
‘Niuno - rispose il mendico - si piglia di ciò cura. E quando pur volesse trista sorte che in qualche città fossi scoperto, non mi mancarebbero partiti per ingannare meglio, perché soglio in questi casi vestirmi da romito con una gran corona in mano e camminando con gli occhi bassi dimando con gravità la limosina, e quanta maggior divozione scuopro nell’abito, tanto maggiori trovo le limosine. Alcune fiate infastidito di starmene in quella continenza, mi travesto da pellegrino; e con una immagine di san Giacomo in mano, con due scorcie d’ostriche sul cappello e col bordone in spalla passeggio il mondo all’altrui scotto. Talor piglio l’abito vergognoso e, coprendomi il viso, con un scartoccio in mano, muovo con cenni e gesti a pietade ognuno: compassionandomi chiunque s’immagina che di nobile o ricco, che stato mi sia, in miserabile povertà, per occorrente disgrazia, caduto mi vegga.
Giovami
anco sovente far lo spirato, e con urli e gridi alla presenza delle
sempliciotte donne spaventare chi non dona qualche cosa; e con indovinar loro
qualche desiderio al quale inclina te le veggia (come che dallo spiri t o n’abbia
revelazione), mi fanno di molto bene e mi temono ancora.
Ma
che direste nel vedermi cadere dalla brutta, o mal caduco, il cui effetto so
benissimo imitare?
Allor che con grande strepito andando a boccone o all’indietro con agitazion stravagante, con torcer d’occhi e con spuma alla bocca muovo ciascun presente ad esser pronto a darmi soccorso?
Ed
io allora fingo di non mai poter ritornar in me stesso, se prima o chiave con
croce, o qualche moneta benedetta non mi vien posta in mano. Allora, quasi che
miracolosamente mi sia porta salute, sospirando profondamente apro gli occhi, e
poscia a poco a poco levandomi e gemendo ritrovo chi, d’avermi in così strano
spettacolo mirato, mi paga largamente.
Infiniti
sono i modi che raccontare vi potrei, co’ quali mi servo in questa meravigliosa
professione’.
‘Perché
ti trovi sano - disse il filosofo - tu puoi far le travestite e gl’inganni
passeggiando il mondo. Ma se da dov’era e non da beffe tu ti trovassi infermo,
non saresti tu il più misero tra tutti gli infelici?
E
con tutto ciò, a questo, che pure avvenir ti può, tu non pensi in conto alcuno.
Perché quantunque in diversi modi tu vadi ingannando il mondo, non perciò tu
riponi da banda (a quel che dici), cosa veruna per poterti sostentar in una
vera infermità, la qual da senno occorrerti potrebbe’.
‘Perdonatemi - soggiunse il mendico - voi siete poco pratico dei vantaggi nostri. Allora, s’io fussi infermo, sarei felicissimo. Noi altri ci allegriamo grandemente di certe infermità, anzi abbiamo per particolar dono de Dio l’aver una delle gambe enfìata e apostemosa, con piaghe od altro somigliante male. E la chiamiamo gamba de Dio’.
‘Oh
meschino te - gridò il filosofo - e che ti resterebbe se non una estrema
necessità di morir all’ospitale?’.
‘Quanto più – replicò il mendico - noi altri
siamo infermi, tanto più ci facciamo buone spese. Par ben che non ci conoscete.
Sappiate che i valenti uomini di questa nostra stupendissima professione e di
questa nostra sottilissima arte, altro che alchimia o dar a cambio, non vanno
mai agli spedali, né meno vengono astretti da necessità veruna. Vi sono certi
goffi pitocchi, infìngardi, da poco, e manco pratichi; e questi tali
bisognarebbe parli alla galera e privar li di questo bene. Perché guastano l’arte
e ne sono indegni. Un scaltrito e vero mendicante, sia da qual si voglia
infermitade oppresso, non perde mai il suo guadagno, anzi quanto più da grave
infermità è molestato, allora ritorna più carico degli altrui danari: perché va
mostrando la sua infermità per le strade, per le piazze e per le chiese’.
‘Da
davvero - disse il filosofo - che s e quel tale fosse aggravato da importante e
gagliarda malattia che non si potrebbe a pena volger per lo letto non che andar
vagando per le chiese o per le piazze’.
‘V’è rimedio - soggiunse il mendico - perché allora noi doventiamo prencipi degli altri: abbiamo servitori in questi casi piu fedeli de’ vostri i quali sono anch’eglino cercanti e portano quell’infermo sulle spalle e lo ripongono sulle porte delle chiese assai ben accomodato, dove bene spesso, vedendosi favorito da tante limosine, guarisce per allegrezza senza pigliar medicine; e quando è maggiore e piu crudele la infermità, ci facciamo allora condur in carretta. Ma non è al mondo infermità così rabbiosa che vaglia a ritener in casa un onorato cercante’.
‘Per
mia fè - disse il cortigiano - che a questi tali non voglio più far bene alcuno’.
‘Oh
, Signore - soggiunse il mendico non fate che 'l mio libero procedere mi
ritorni in danno. E poi voi siete che ricevete maggior bene di quello che fate
a noi, perché non resta che non sia meritoria la limosina che ci fate, ancor
che noi la impieghiamo in questa maniera’.
‘Non parlo di te - replicò il cortigiano - anzi,
perché io ti conosco galantuomo, voglio che sovente tu venghi a desinare meco,
che so che ne racconterai di più belle’.
‘Voi ne sentirete - rispose il mendico - di quelle che non le seppe mai ma per ora basteravvi sapere che tra noi sono molti i quali a molt’altri comandano, come fanno i principi: perché mantengono molti cercanti a spese in casa sua, e quanto trovano lo portano al padrone, e se portano pane od altro che gli avanzi del mangiare lo vendono a vastaggi, a villani e ad altri poveri artisti; se trovano vesti o altre masserizie in limosina le vendono agli ebrei e tutto cambiano in danari.
Ma
di più questi tali signori dagli altri comprano certi putti a questo effetto, e
quanto più sono brutti e piagati tanto più cari costano. Ma udite anca questa. Alcuni
altri ricevono tutto quello che lor vien dato, tozzi di pane, vino, erbaggi,
carne, pesce, minestre, e tutto ripongono entro una sportella nascosta sotto il
vestito e il vino in un bottaccio, e quello che a lor non piace vendono
nascostamente e poi comprano dei miglior cibi che trovano e spessissime fiate
si chiudono in qualche segreta taverna, si mutano di vestimenta e si stanno a
piacere. Venuta poi l’ora di ritornar alla cerca, si spogliano le buone vesti,
e si cuoprono delle più vili e stracciate che trovano, a ttendendo con ogni
accortezza a questo meraviglioso esercizio che ben si può chiamar e riputar
arcimestier degli altri’.
‘Questa per certo - disse il filosofo - è una bellissima arte, e non m’avrei mai pensato ch’ella avesse tanti capi e tanti termini’.
‘Non
occorre dir, Signore - rispose il mendico – ch’ella è un’arte tanto stupenda e
tanto benedetta, che nessuno l’assaggia che non vi voglia morir dentro; e se ci
lasciassimo intendere da molti, come ho fatto con voi, la maggior parte la
vorrebbe esercitare. Ma se ritroviamo alcuno che inclinazione v’abbia, subito
gli ne diciamo tanto male che non vi si mette cosi facilmente, e noi ce ne
restiamo più pochi a partirei questo bene che ci vien fatto. S’io volessi
andarvi raccontando quanto avrei che dirvi, conoscereste che non ho cagione d’abbandonar
questa felice vita, né di desiderar la morte. Ma questo vi può ben trar di dubbio,
che pochi si trovano contenti come noi. Né più voglio dirvene perché passarebbe
il tempo nel qual voglio avvantaggiarmi la giornata’.
‘Questo
è stato pur troppo - disse il filosofo – anzi,
soggiunse il cortigiano - perché ha proceduto da uomo schietto, voglio
donarli questo mezzo scudo. Or va’, e datti buon tempo, e seguita in ingannar
altrui con la mentita faccia e con le tremolanti parole’.
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