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UN APPROFONDIMENTO
Ma ogni passo vien fatto con piedi di piombo e sembra durare più di un’ora... e d’un tratto sorge in lui una selva di lance aguzze: mille paure.
…E già si abbattono su di lui di
nuovo i motivi di queste paure: (gli inquisitori
entrano nel quadro con i loro prodigiosi e nuovi artifizi, nulla è pur mutato,
non siamo ad Anversa in quest’hora ma nel patrio suolo italiano…) lo arresteranno, lo prenderanno per un ladro, lo perquisiranno –
e non troveranno altro che una zampogna e qualche disegno.
‘Gran Dio!’
d’un tratto gli sembra di
portare un serpente sotto il braccio…
‘i disegni sono stati fatti
sulle preghiere degli eretici!’
La gola gli si chiude!
Se glieli trovano, lo
manderanno al patibolo!?
Tutto ciò più reale della
realtà a cui l’inquisitore procede all’artifizio del quotidiano inganno!
Si ferma e rapido come il lampo
sotto al mantello fa i disegni in mille pezzi, che caccia sotto la neve.
‘Domani ne faccio degli altri’
si consola. Liberato,
…continua il cammino.
(19 gennaio vecchio calendario) Questi sono tutti schemi e considerazioni generali. Brevemente li si può esprimere con le seguenti parole: nella rappresentazione si registra anche il percorso dell’artista.
Percorso soprattutto nel
senso più semplice e immediato.
Camminiamo, per esempio,
in un bosco.
Camminando abbiamo
davanti le immagini dei tronchi degli alberi. Ci fermiamo, e il quadro
istantaneo, pur restando formalmente identico, si fa al tempo stesso
sostanzialmente diverso. Sparisce istantaneamente la legnosa profondità dello
spazio del bosco, e i tronchi stessi perdono il loro volume. Abbiamo
l’impressione che quella lontananza legnosa abbia perduto improvvisamente una
dimensione. Il rapporto fra l’immagine del bosco percepita da un punto di vista
in movimento e la nuova immagine, stazionaria, è uguale a quello esistente fra
un fiore e il suo campione secco in un erbario. In breve, nella posizione
stazionaria dell’osservatore l’immagine del bosco si schiaccia, mentre nel
movimento si sviluppa.
Il bosco viene percepito
con acutezza sorprendente, quasi dolorosa, d’inverno, quando si cammina lungo
una strada di nudi boschetti di salici e noccioli: l’intreccio dei rami,
proiettandosi sul fondo luminoso, il cielo o la neve, si presenta come un
reticolo piano, in rapporto al quale la questione della profondità non si pone
nemmeno.
Il cammino di un artista, tuttavia, può passare vicino non solo a un albero o a molti alberi ma estendersi a un intero luogo, a molti luoghi e infine durare giorni, settimane, mesi. Di questo viaggio può anche non restargli nella coscienza un’immagine totale ma soltanto impressioni frammentarie divise in impressioni singole, non interiormente connesse fra loro.
E tuttavia questo
dimostrerebbe soltanto la fragilità della sua appercezione e la mancanza di una
sua capacità di sintesi abbastanza forte. Al contrario, in una maggiore
elasticità appercettiva, il viaggio, in quanto risultato delle saldature, degli
ispessimenti, delle generalizzazioni di ciò che ha visto, dà all’artista un’immagine
integrale, e questa immagine può essere fissata e incarnata attraverso l’arte.
(19 gennaio 1925) Basta che questo viaggio sia percepito come una totalità, perché anche la sua immagine possa essere fissata e incarnata con tutto il suo movimento interiore.
Un geografo attento ha
nozione di ampie regioni geografiche e distingue subito il paesaggio di una
regione da quello di un’altra. E queste idee possono essere nella maggioranza
dei casi un po’ confuse, ma ciò nonostante sono concrete e visivamente evidenti;
sarebbe però un errore pensare che il geografo le abbia esaminate
analiticamente e, in ogni caso, egli non viene guidato nella sua
identificazione da segni analitici. Se il geografo possedesse un’appercezione
più forte, potrebbe, probabilmente, fissare le sue rappresentazioni delle
regioni geografiche come immagini artistiche con un movimento interiore. Questo
si dovrebbe ripetere in generale anche per un Viaggio.
Ma esiste un percorso ancora più vasto di quello di un viaggio, ed è il percorso interiore dell’artista.
Il lettore o lo spettatore deve crescere nell’opera insieme all’autore e sopportare le fratture e le svolte attraverso le cui stratificazioni si è formato il tessuto stesso dell’opera. Sono proprio queste infatti le giunture del tempo che danno all’opera il proprio ritmo interiore senza il quale essa è morta e meccanica. Se non si cerca nell’opera una nuda trama ma proprio l’opera stessa, allora non si può non vedere come la bellezza essenziale dell’opera, la sua incisività, la sua anima, stiano in questa sua crescita, nel suo svilupparsi nella vita dell’artista, in queste contraddizioni inaspettate, e tuttavia stimolate dalla necessità stessa di crescita interiore.
(P.A. Florenskij)
Sembrano tutti così felici!
Come se il ghiaccio fosse
il loro elemento. Piroettano sui pattini, attraversano la scena del mondo a
bordo di slitte aggiogate a cavalli, se la spassano in piccoli gruppi. I
signori con grosse pellicce eleganti drappeggiate su una spalla. Le dame con le
loro cuffiette di trina o le loro parrucche. I popolani in giacchetta corta.
Nessuno ha pensato ad accendere un falò per riscaldare le membra intirizzite.
Nessuno ha l’aria di patire il freddo.
È uno spettacolo avvincente, questo caleidoscopio di vita umana in un paesaggio gelato. La grande veduta è suddivisa in scenette di genere dove il pittore ha messo tutto e tutti: dalla coppia di amanti appartata in un fienile (saranno davvero due uomini?) fino alle terga ignude che protrudono dai resti malconci di uno scafo, passando per un secondo deretano al vento il cui proprietario si tiene accovacciato sotto il tronco di un salice, giù giù fino alla madre con bambino in primo piano, ai giocatori di golf, al raccoglitore di canne palustri con la sua grossa fascina sulle spalle e ai due giovani che pattinano mano nella mano. La donna che avanza verso lo spettatore sta vuotando un boccale: è una delle rare figure che guardano dalla nostra parte, mostrandoci il viso. Tutti gli altri, o quasi, ci volgono le spalle: si allontanano volteggiando su lame d’acciaio, verso l’orizzonte, verso un futuro vago e malcerto.
Sulla sinistra della linea mediana si vede un gruppo di persone agiate, in lussuosi abiti trapunti d’oro. Le dame in crinolina e parrucche alte; i signori con la piuma sul cappello. Uno squallido mendicante sta cercando di muoverli a pietà, ma viene ignorato. Che cosa ci fanno dei ricchi signori in quel villaggio imprecisato, senza vettura al seguito, senza servitori, in piedi sul ghiaccio?
Come sono arrivati fin
lì?
Perché tutta quella gente
all’aperto?
Non sembra trattarsi di
una ricorrenza solenne: non è Natale, non è carnevale, non è neppure domenica,
perché la chiesa sullo sfondo è vuota e abbandonata.
Più ci attardiamo a studiare la scena, meno il dipinto ci appare plausibile, quella che di primo acchito poteva sembrare una veduta realista si rivela a poco a poco un’allegoria: un’intera società squadernata su uno strato di ghiaccio, con i suoi ricchi e i suoi pezzenti, gli uomini e le donne, i bambini e gli anziani, i signori e i servi, resi tutti uguali dal gelo e dal freddo, che pure sembrano lasciarli indifferenti. Soltanto la carcassa di un animale nell’angolo in basso a sinistra sembra ricordare che la morte esigerà la sua parte anche in questo spensierato idillio; come la trappola per uccelli dipinta lì accanto ammonisce chi guarda, anche le gioie più innocenti possono finire all’improvviso, mentre l’alveare vuoto parla ancora di opulente giornate estive e fiori variopinti.
Su questo indaffarato
mondo in miniatura plana un uccello che sembra librarsi verso il cielo, banale
cacciagione o una fuggevole reminiscenza dello Spirito Santo, custode del
genere umano?
L’artista, Hendrick Avercamp (1585-1634), era specializzato in paesaggi invernali. Nel suo atelier di Amsterdam, e poi a Kampen, ne dipingeva tutto l’anno. Gli uomini e le donne che si svagano nelle sue scene, pressoché immuni al freddo, incarnavano la sua nostalgia: Avercamp era sordomuto e conduceva una vita ritirata in casa di sua madre, che avrebbe seguito nella tomba a distanza di pochi mesi. Le gioiose scenette con le quali si guadagnava il pane raffiguravano sempre la vita degli altri.
Come tutti gli artisti
della sua epoca, Avercamp lavorava sulla base di schizzi e motivi
pittoreschi colti sul vivo: anche per questo le sue grandi vedute ci appaiono a
volte come degli insiemi di gruppetti e figure isolate ricuciti in un tutto. Le
sue scene non ambivano a porsi come rappresentazioni fedeli del mondo esterno,
non hanno mai preteso di documentare la realtà. Eppure un fondamento concreto
l’avevano eccome: quella spensierata società intenta a darsi al buon tempo sul
ghiaccio è un’invenzione del pittore, un’allegoria della concordia civica e
dell’unità nazionale, ma il paesaggio, di per sé, non ha richiesto alcuno sforzo
di fantasia.
Il primo indizio è racchiuso nella data del quadro, completato intorno al 1608, cioè a ridosso di un inverno tra i più gelidi della storia. I fiumi e i canali, coperti di ghiaccio, si erano trasformati in un colossale palcoscenico all’aperto sul quale l’artista poteva distribuire la sua società in miniatura, e questo non solo nei Paesi Bassi: a Londra, in quei mesi, il Tamigi era gelato. Lo strato di ghiaccio era talmente spesso che ci si teneva addirittura un mercato. Enrico IV di Francia, per parte sua, si era svegliato un bel mattino con la brina nella barba. Il vino si solidificava nelle botti, nell’Europa dell’Est gli uccelli congelavano in volo e precipitavano a terra come pietre, e una fitta coltre di neve ricopriva ampie zone dell’Italia e della Spagna. L’Europa si era trasformata in un regno dei ghiacci.
L’ondata di gelo abbattutasi in quegli anni sull’intero continente ha lasciato tracce visibili anche in pittura. Fino al XVI secolo la neve è quasi assente in arte: tutt’al più la si ritrova associata ai mesi invernali nelle miniature di certi libri d’ore, come Les très riches heures du duc de Berry (1412-1416). Poi, con l’inverno del 1564-1565, uno dei più rigidi a memoria d’uomo, gli artisti del Nord Europa scoprono il ghiaccio e il gelo. Proprio quell’anno Pieter Bruegel il Vecchio dipinge i celebri Cacciatori nella neve, anch’essi parte di un ciclo ispirato al calendario, ma trasferito dalla pagina di pergamena allo spazio più grande di una tavola. In altri dipinti coevi, Bruegel ambientava l’Adorazione dei magi e la Strage degli innocenti in un paesaggio tipicamente fiammingo, freddo e innevato. Mentre il gelo avanzava sull’Europa, la veduta invernale si affermava come un genere a parte nella storia dell’arte occidentale, specialmente in area olandese. Nel XVII secolo sono in molti a farne addirittura una specialità, come appunto Hendrick Avercamp.
Le vedute di Avercamp descrivono un mondo nella morsa del gelo e annunciano già i primi effetti del nuovo clima. Sulla grande distesa ghiacciata le differenze vengono meno: alle prese con i rigori dell’inverno tutti gli uomini sono chiamati a lottare. I signori eleganti e il povero pescatore di anguille con il suo tridente, i passeggeri della slitta trainata da un cavallo bianco e il gruppo di contadini: soffrono dello stesso freddo, sono tutti costretti a inventare uno stile di vita inedito, a rispondere con nuove idee a un pericolo che minaccia la loro sopravvivenza.
Questo breve post dal
libro ispirato, nasce da una domanda molto semplice, ma ricca di esplicite
assonanze con il nostro tempo: come si trasforma una società quando cambia il
clima in cui vive?
Quali sono le ricadute
dirette e indirette del mutato contesto naturale sulla sua cultura e sul suo
orizzonte emotivo e intellettuale?
Studiare il lungo secolo XVII consente di prendere in esame e capire meglio l’impatto del cambiamento climatico su tutti gli aspetti dell’esistenza umana. L’episodio anomalo ribattezzato dagli storici ‘piccola era glaciale’, il cui culmine si può situare nella prima metà del XVII secolo, non si limita a cambiare la vita degli europei: il calo di temperatura osservabile tra il 1570 e il 1685, due gradi centigradi in media, modifica il percorso delle correnti oceaniche, sconvolge il ciclo delle stagioni e scatena un po’ in tutto il mondo catastrofi meteorologiche di inaudita violenza. Gelate e nevicate, grandinate estive, tempeste, rovesci piovosi durati intere settimane e anni di siccità hanno provocato tremende carestie in Cina, inverni di letale rigore hanno perseguitato il Nord America, mentre i raccolti decimati mettevano in ginocchio l’India. Nei territori dell’Impero ottomano nessuno ricordava un freddo così devastante.
In questo contesto
studierò le conseguenze della piccola era glaciale nel solo contesto europeo.
In primo luogo perché in Europa, come mostrano gli studi più recenti, le
ricadute culturali dello sconvolgimento climatico sono eccezionalmente ben
documentate. In secondo luogo perché la barriera linguistica e una preparazione
insufficiente non mi consentirebbero di affrontare con uguale rigore la storia
culturale del Giappone, della Cina o dell’India. In terzo e ultimo luogo, in
quegli anni l’Europa si trova a fare i conti con rivolgimenti sociali,
economici e intellettuali di portata storica: tanto più urgente sarà allora
interrogarsi sulla parte giocata dai fattori climatici in quegli sviluppi.
L’idea che il decorso delle cose umane sia legato anche a variabili di tipo ambientale non è certo nuova. Ne hanno scritto già Aristotele e gli autori del Corpus hippocraticum. I filosofi della scolastica medievale e certi pensatori del primo Illuminismo, come Montesquieu, hanno ripreso e ampliato quel concetto, fino a dare vita a una vera e propria teoria culturale del clima.
Il dibattito sulle cause
della piccola era glaciale è ancora in corso. Gli studiosi non concordano
neppure sull’esatta datazione del fenomeno e sulle sue principali
manifestazioni. Il tentativo di chiarire questi aspetti ha già espresso una
corposa letteratura specializzata che si va continuamente arricchendo. Prima di
passare a occuparmi della dimensione specificamente culturale del fenomeno
(intesa nel senso più ampio possibile) mi limiterò a riassumere in poche parole
lo stato attuale degli studi.
Il pianeta Terra provvede da sé a documentare la propria storia. I paleoclimatologi, cioè gli specialisti di storia del clima, sono ormai in grado di ricostruire il passato meteorologico di una regione e l’andamento delle curve termiche trivellando il ghiaccio, le banchise polari, i terreni e i fondali oceanici, prelevando campioni di profondità e studiando lo spessore, la densità e la composizione dei diversi strati. Negli anni di grande rigore, particolarmente difficili per la vegetazione, gli anelli dei tronchi risultano più stretti che negli anni caldi e umidi: esaminando in sezione certi alberi si possono ricavare dati affidabili sull’andamento climatico di una regione nel corso degli ultimi secoli, a volte addirittura negli ultimi millenni. La stratificazione dei pollini e di altre materie vegetali nei terreni fangosi o nelle torbiere ci informa sulla distribuzione della flora, degli insetti e di altri piccoli animali, indicativi di certe specifiche condizioni climatiche. Sulla base di questi e altri elementi diviene possibile mappare in modo estremamente dettagliato l’andamento di una zona.
Il materiale prodotto dalle scienze esatte si può incrociare con una documentazione storica di una ricchezza addirittura strabiliante, specialmente in Europa. Diari, lettere, osservazioni naturalistiche, opere letterarie, registri di vendemmie, inventari di mercanti, diari di bordo, sermoni, dipinti, libri mastri: sono tutte fonti che consentono di mettere a fuoco la situazione in una data zona, rivelando non solo gli effetti immediati del cambiamento climatico sull’agricoltura e sull’andamento demografico, ma anche le ripercussioni sociali e culturali di quei fenomeni. Un aspetto di cui riparleremo a breve.
Provando a mettere
insieme le tessere del rompicapo si mette in luce il quadro seguente: nel tardo
Medioevo, fino a tutta la prima metà del
XIV secolo, l’Europa conosce un periodo molto caldo, con temperature fino a
due o tre gradi più elevate di quelle odierne. A partire dal 1400 circa, nell’arco di neppure un secolo, quel
clima insolitamente mite si va raggelando. Le temperature precipitano,
attestandosi su una media di due gradi in meno rispetto ai livelli registrati nel XX secolo, dando luogo a
un’escursione complessiva di quattro o cinque gradi rispetto al tardo Medioevo.
Per quali ragioni tutto questo sia accaduto e quando esattamente il clima inizi a raffreddarsi non è del tutto chiaro. Alcuni studiosi fanno risalire i prodromi della piccola era glaciale già al XIV secolo, mentre altri, la cui periodizzazione riprendo in questo libro, situano l’esordio del fenomeno nella seconda metà del XVI secolo. Quando l’episodio si possa ritenere concluso è un punto non meno controverso.
Le cause ultime di quel
brusco rivolgimento del clima sono misteriose. Alcuni parlano di un assestamento
dell’asse di rotazione del pianeta, altri di una periodica riduzione
dell’attività solare, che risulta effettivamente comprovata da varie
testimonianze sul finire del XVII
secolo, ma che non basta a spiegare gli esordi precoci della piccola era
glaciale. L’abbassamento delle temperature si è accompagnato a un’attività
sismica più intensa della norma. Gli studiosi hanno documentato un numero
insolitamente alto di scosse telluriche ed eruzioni vulcaniche. Anche in questo
caso bisogna accontentarsi di ipotesi: secondo alcuni il raffreddamento
dell’aria dovuto a una rarefazione delle radiazioni solari avrebbe modificato
la ‘pompa biologica’ negli strati oceanici più profondi. Un volume sempre
maggiore di acque fredde sarebbe sceso verso il basso, mentre l’espansione del
ghiaccio polare incrementava la salinità dei mari.
Il raffreddamento delle acque avrebbe ristrutturato l’intero sistema delle correnti oceaniche, e quindi anche il quadro meteorologico sulla terraferma. Modificando la pressione sismica in corrispondenza delle faglie tra le placche continentali, la riconfigurazione delle correnti di profondità avrebbe agito sulla tettonica della crosta terrestre, provocando sismi e attività vulcanica. Tutte queste, però, sono ricostruzioni congetturali. Certo è invece che le eruzioni hanno proiettato polveri e cenere nell’atmosfera, creando un effetto-schermo che a sua volta ha indotto un ulteriore raffreddamento delle temperature nell’arco di mesi o addirittura di anni.
Le ragioni del
cambiamento climatico che ha interessato la prima età moderna sono ancora poco
chiare, ma in compenso alcune delle sue ricadute, specialmente per quanto
riguarda l’Europa, risultano molto ben documentate. La prima ondata di inverni
glaciali, estati piovose e primavere funestate dalla grandine cade negli anni settanta del XVI secolo.
Alla devastazione dei raccolti sono seguiti dei periodi di carestia, tanto che
i livelli di produttività del 1570
sono stati nuovamente raggiunti soltanto nel 1750, quando le curve termiche
hanno iniziato a risalire.
Il raffreddamento delle temperature medie ha rappresentato una catastrofe per l’agricoltura, più ancora delle precipitazioni eccessive e delle terribili gelate. Un differenziale di due gradi corrisponde a sei settimane di ciclo vegetativo: sei preziose settimane dalle quali dipende la maturazione dei cereali, della vite, dei foraggi destinati al bestiame nei mesi invernali e della frutta. Invece di scaldare le piante, il sole tiepido di quegli anni rischiarava delle campagne fradice di pioggia dove il grano marciva ancora in spiga.
Per l’Europa è stato un
colpo particolarmente duro. In epoca medievale, complice un clima più mite, la
popolazione del continente era molto cresciuta, prima di venire ridotta di
circa un terzo dalla peste del 1348 (la cui fulminea propagazione, ancora una
volta, è stata favorita dalle temperature elevate). In certe zone addirittura
la metà degli abitanti è caduta vittima della Morte nera.
La peste, il Rinascimento,
la Riforma e le guerre di religione avevano brutalmente stroncato lo sviluppo delle
società europee, oppure lo avevano deviato su nuovi binari. Nulla viene mai
inventato da zero, e rarissimi sono gli sviluppi senz’altro riconducibili in
termini di causa ed effetto a fenomeni come il calo delle temperature. Eppure
il cambiamento climatico ha funto da catalizzatore, accelerando i processi già
in corso e al tempo stesso costituendo una fonte di pressioni ineludibili che
hanno favorito ulteriori rivolgimenti, spesso resi addirittura inevitabili dal
tracollo di antiche strutture fattesi traballanti.
Nel giro di sole quattro generazioni, un mondo nel quale i teologi detenevano il monopolio dell’interpretazione, la medicina e le scienze si nutrivano di una lettura allegorica dei testi antichi, l’economia poggiava sulla cerealicoltura, il sole girava intorno alla terra e le società si concepivano e si organizzavano come strutture statiche di tipo feudale è risultato completamente stravolto, lasciando il posto a qualcosa di nuovo: un mondo nel quale ci riconosciamo ancora. Nonostante le sfasature storiche, le inerzie e le asimmetrie che ci separano da esso, quel mondo era già per molti versi moderno.
(P. Blom)
Si è soliti spiegare il
grande successo incontrato dalle pubblicazioni di argomento teologico a partire
da questo periodo con l’aumento delle tensioni confessionali al tempo della
Controriforma. Dopo che il luteranesimo si fu affermato, l’ascesa del
calvinismo da un lato e del cattolicesimo tridentino dall’altro portò a
fronteggiarsi due raggruppamenti ideologicamente consolidati. Tuttavia, se ci
chiediamo come mai una simile letteratura teologico-controversistica fosse in
grado di cogliere le esigenze spirituali dell’epoca, potremo trovare una
risposta soltanto nelle intemperie che caratterizzarono la Piccola era
glaciale. Il successo di tale letteratura ci appare più plausibile se teniamo
presente che la sensazione di insicurezza esistenziale non si limitava
all’ambito religioso.
Le prediche e la letteratura edificante fanno spesso riferimento agli eventi naturali e alle catastrofi della vita quotidiana. I fenomeni meteorologici e climatici, cui la popolazione prestava grande attenzione, fornivano più di uno spunto anche alle riflessioni teologiche. Seguendo una propria dinamica, la letteratura dedicata alla cura delle anime arrivò a rivolgersi alle persone disperate, ad esempio a chi aveva perso un parente o soffriva di una malattia cronica o acuta. Di fronte a tanta sofferenza, le varie confessioni dovevano essere in grado di proporre ai credenti qualche strumento di identificazione. Manfred Jakubowski-Tiessen ha mostrato come l’importanza assunta dal Venerdì santo nel luteranesimo, di cui divenne la festività più importante, non si basasse sull’esegesi biblica di Lutero. Esso rappresentò piuttosto una nuova offerta della Chiesa luterana ai suoi fedeli per la gestione di situazioni di grande dolore, dopo che le forme tradizionali di incorporazione della sofferenza, come le madri addolorate e i santi martiri, erano divenute indisponibili.
Lo storico inglese Norman Cohn è stato il primo a capire che nel XV secolo le streghe assunsero lo stesso ruolo di capri espiatori che in precedenza era stato svolto dagli ebrei. La stregoneria può essere considerata come il crimine tipico della Piccola era glaciale, in quanto le streghe erano ritenute responsabili per le condizioni del tempo, come pure per l’infecondità dei terreni, la sterilità femminile e, naturalmente, per ogni sorta di malattia ‘innaturale’ che apparisse come una conseguenza della crisi. In quanto costruzione sociale, il delitto di stregoneria cominciò a diffondersi nel corso del XIV secolo, parallelamente all’evoluzione della Piccola era glaciale, e in Europa centrale la caccia alle streghe raggiunse l’apice proprio negli anni peggiori della Piccola era glaciale, cioè nei decenni immediatamente prima e dopo il 1600. Tale crimine scomparve dal catalogo del diritto penale alla fine di tale glaciazione, cioè con la scoperta di modelli interpretativi più efficaci.
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