CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

venerdì 9 novembre 2018

IL BASTONE DEL FILOSOFO (avverso al Tempo e al metodo) (9)









































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Emerson e gli altri trascendentalisti eccellono come teorici della natura; Thoreau, da pratico. Il primo ne parla, la racconta, la utilizza, la strumentalizza, la verbalizza, la teorizza, la sottomette al suo sistema accanto al fuoco di un caminetto, nel corso di una conversazione con dei conoscitori di Platone, Plotino e Kant, mai lontano dai libri che costituiscono il suo orizzonte; il secondo la vive, la tocca, la assapora, la respira, in canotto sul fiume, nudo nell’acqua del lago, sulla cima degli alberi sui quali si arrampica, impantanato in un oscuro acquitrino, vestito con colori naturali per non turbare il movimento della natura, vivendo in un capanno di legno costruito con le sue mani, mangiando il pesce pescato da lui o le verdure coltivate nel suo orto.

Emerson il filosofo, anche nella caricatura la quale vuole che, come Talete, il pensatore sia caduto nel pozzo che non aveva visto perché completamente assorto a contemplare le stelle; Thoreau il saggio.

Oppure, e più giustamente, Emerson il professore di filosofia, mai troppo diverso dal pastore carente di divinità da adorare, e Thoreau il filosofo che, come i filosofi antichi, vive il suo pensiero e pensa la sua vita.




Ossia, il teorico, re del verbo, e il pratico, imperatore di sé e della sua vita filosofica. Ecco perché una frase del Journal che potrebbe essere considerata un aneddoto, se non una cattiveria gratuita, ha invece un grande valore filosofico: Thoreau afferma di non vedere come Emerson potrebbe attraversare Concord spingendo una carriola.

Sotto la causticità della battuta, si cela una lezione: la teoria di un pensatore implica, per essere convalidata, la sua incarnazione in una vita filosofica. Le dichiarazioni liriche fatte da Emerson sulla Natura obbligano a una pratica conseguente. Altrimenti, è solo una filosofia da salotto, dunque una faccenda da professore di filosofia, e nient’affatto una filosofia o di una saggezza.




La storia di Romolo e Remo allevati con latte di lupa ha evidentemente un suo significato: non si realizzano grandi cose senza avere una relazione privilegiata con l’energia della natura. Thoreau fa l’elogio degli ‘stimolanti e delle cortecce che rinvigoriscono l’umanità’. Invita ad allungare il tè americano con infusioni di abete per tonificare l’anima dei civilizzati troppo saturata di Europa.

Il filosofo, alla maniera di Diogene, vuole ‘rendere selvatico’ il suo popolo. Il cavernicolo negli Indiani ama anche il loro senso dell’orientamento. Nessuno di loro si è mai smarrito nella natura: in qualunque ora, di notte e di giorno, d’estate e d’inverno, il selvaggio sa leggere le informazioni che essa gli dà. Dispone di un magnetismo infallibile che gli impedisce di smarrirsi. Nessun Indiano ha infatti tagliato il cordone ombelicale con la natura, né si considera pari o superiore ad essa, ma dentro la natura, come uno dei suoi elementi costitutivi.




Un Indiano fa parte della natura allo stesso titolo di un arcobaleno, di una rana o delle formiche, né più, né meno. Un’ombra, una traccia, un ramo spezzato, la presenza di un muschio particolare e il suo orientamento, la densità del fogliame di un albero, le stelle, il sole e la luna ovviamente, un profumo, un odore, una deiezione animale, la sua consistenza, il colore, una piuma, un ciuffo di peli, un fiore particolare, il colore di un cielo, la temperatura di un’acqua, la sua trasparenza, e mille altre cose costituiscono altrettanti geroglifici enigmatici e insignificanti, se non addirittura invisibili per il civilizzato, il camminatore urbano, ma è grazie ad essi che la tribù vive, sopravvive, si sposta e si armonizza con le stagioni.

Il cristianesimo ha separato gli uomini dalla natura, ha posto l’uomo al vertice della creazione e gli ha dato il diritto di farne un uso smodato e irrazionale. Gli animali, sprovvisti di anima, come d’altronde il resto della creazione, i vegetali e i minerali, esistono ontologicamente al di sotto degli umani i quali, in base a questa falsa gerarchia, si vedono accordare tutti i diritti sulla natura, dunque contro di essa.




L’homo sapiens sfrutta la natura, vive di fronte ad essa, da nemico. Gli Indiani pensano e agiscono, all’inverso, da amici, complici, partner.

Per Thoreau sono loro i grandi uomini: gli Indiani.

Quando scrive Uomini rappresentativi, sottotitolo I superuomini, Emerson esalta artisti planetari, poeti di fama mondiale, capi militari costruttori di imperi, parla di Platone e di Swedenborg, di Goethe e di Napoleone, di Montaigne e di Shakespeare. Con Margaret Fuller, scopriva Michelangelo e Leonardo da Vinci. Conversando col suo caro amico Carlyle in Inghilterra, si era trovato d’accordo nel condividere il ‘culto degli eroi e l’eroico nella Storia’, sottotitolo dell’opera Gli eroi, tra i quali la palma spetta a Odino, Maometto, Dante, Cromwell, Napoleone e altri.

Ma questi grandi uomini non impressionano Thoreau.

Nel suo universo semplicemente essi non esistono.




Gli eroi di Walden sono topi e marmotte, uccelli e pesci, formiche e nenufari. Mentre Emerson si eccita per gli ‘uomini universali’, Thoreau si rallegra per gli uomini naturali.

L’uno si preoccupa della trascendenza cosmica incarnata in figure insigni di carne e ossa; l’altro apprezza al di sopra di tutto l’immanenza naturale di sconosciuti rimasti semplici, a contatto diretto con la natura, senza la mediazione o il concorso di qualche artificio culturale.

Emerson gira attorno a Napoleone come una falena attirata dalla luce di un lampo?

Thoreau descrive minutamente il suo piacere nell’incontrare un eremita del bosco di ventotto anni, una variazione sul tema del selvaggio.

Ai suoi grandi uomini, l’Indiano e l’eremita dei boschi, Thoreau aggiunge il Bramino.




Sappiamo che fu un lettore attento della letteratura vedica, un buon conoscitore dei testi induisti, e a più riprese, ma in modo impressionistico, esprime la sua simpatia per quei filosofi antichissimi che furono i bramini, saggi indù che praticavano l’ascesi più austera, incarnavano la loro teoria in una pratica e conducevano una vita filosofica.

In un passo di Walden relativo alla sua dieta, Thoreau fa sapere al lettore che, lui che ama tanto la filosofia indù, avrebbe dovuto mangiare più riso. Ciò che a Thoreau piace del pensiero orientale è il modo di vivere distaccato nei confronti di ciò che non è essenziale. La mattina, legge il Bhagavad-Gita e si dice stupefatto di quella antica verità che fa impallidire tutta la letteratura del suo tempo, improvvisamente diventata insignificante e trascurabile.



Immagina di chiudere il suo libro, andare a cercare l’acqua del pozzo, incontrare gli eroi della mitologia induista e impregnare il proprio mondo della saggezza vedica.

Scrive:

‘L’acqua pura di Walden si mescola all’acqua sacra del Gange’.

E poi, un racconto che fonde la saggezza degli Indiani, il talento per la scultura del legno dell’eremita e la pazienza di chi è tormentato dall’assoluto del Bramino: a Kouroo, un artista si era proposto di arrivare alla perfezione. Decise di fare un bastone.

‘Avendo riflettuto che, per un’opera imperfetta, il tempo conta, mentre per un’opera perfetta il tempo è una quantità trascurabile, si disse: sarà perfetto sotto ogni punto di vista, anche se non dovessi fare altro nella mia vita’.

Si mise perciò in cerca del materiale migliore perlustrando senza sosta i boschi. E siccome il tempo non contava niente, si prese tutto il tempo che gli serviva. Ma i suoi amici persero la pazienza, lo abbandonarono e ognuno finì per invecchiare e morire nel proprio cantuccio.

Lui, invece, non invecchiava.




La sua eterna giovinezza derivava ‘dal suo unico scopo, dalla sua risoluzione e dalla sua profonda pietà’.

La sua determinazione a non scendere a patti col tempo ebbe ragione del tempo, che finì per scomparire dalla sua vita. L’artista continuava a cercare il legno adatto. Il tempo lo risparmiava, ma continuava a produrre i suoi effetti sul resto del mondo: la città di Kouroo non esisteva più da molto tempo, e lui si sedette sulle rovine per iniziare il suo lavoro; la dinastia più potente era scomparsa, e lui cominciò a tagliare il suo legno; scrisse con la punta del bastone il nome dell’ultimo rappresentante di quella razza; riprese il suo lavoro; finì di grattare e di pulire il suo bastone, la stella polare non esisteva più; posò la bacchetta e l’impugnatura ornata di pietre preziose, nel frattempo Brahma si era addormentato e svegliato molte volte – e sappiamo che ognuna delle sue giornate è lunga due miliardi centosessanta milioni di anni; l’oggetto finito divenne la più bella delle creazioni di questo dio indiano, mentre si erano succedute nuove città e nuove dinastie; guardando i trucioli caduti ai suoi piedi, vide che lo scorrere del tempo era stato un’illusione: il materiale era puro, la sua arte anche, il risultato meraviglioso.




Conclude Thoreau:

‘Aveva fatto nascere un nuovo sistema facendo del bastone un mondo dalle proporzioni belle e definite’.

La storia, enigmatica – come parecchi brani dell’opera del filosofo, lettore e appassionato della letteratura vedica – ha dato luogo a diverse interpretazioni.

Il bastone conta poco in questa vicenda, mentre l’essenziale è il progetto: arrivare alla perfezione. La risoluzione sospende il tempo, la costruzione di sé dà accesso all’eternità. In questa vicenda, la solitudine è grande. Gli avvenimenti che l’accompagnano non contano nulla. Esiste solo la volontà del progetto che sospende il tempo e dona l’immortalità. Volersi, costruirsi, significa assicurare di non morire mai.

Verità vedica.



Thoreau manifesta a più riprese questa predilezione per parabole che fanno sudare i cattedratici da più di un secolo. Una di esse somiglia a una specie di enigma, su cui gli ermeneuti impazziscono, mi sembra senza successo.

Eccola:

‘Tempo fa ho perduto un cavallo baio e una tortora, e ancora li cerco. Ho chiesto a numerosi viaggiatori se li avessero visti, descrivendo la strada che avevano imboccato, e a quali nomi rispondevano. Ne ho incontrati uno o due che avevano sentito il cane e il passo del cavallo, e alcuni che avevano visto la tortora scomparire dietro una nuvola, e sembravano anche desiderosi di ritrovarli come se a perderli fossero stati loro stessi’.

Un cane? Un cavallo? Una tortora?

Gli specialisti di simboli possono lasciar perdere.

I più furbi andranno magari a cercare in un bestiario orientale, inseguiranno questi animali nei testi vedici, ma Thoreau non è il tipo che si mette a creare enigmi intellettualistici, a criptare i suoi scritti per godere della cerebralità necessaria a decifrarli. Niente gli si addice meno della citazione dissimulata, del significato nascosto destinato agli iniziati. In compenso, il senso di queste storie straordinarie è dato dal filosofo in parecchi altri luoghi della sua opera, quando afferma di preferire di gran lunga il poema al ragionamento, l’immagine alla dimostrazione, la sensazione alla dialettica.




Non c’è affatto bisogno, quindi, di fornire un canovaccio logico, una proposta filosofica chiara e distinta, quando bastano una parabola, una storia, un mito, una favola, una allegoria.

L’artista della città di Kouroo e il suo bastone non servono a sostituire un discorso sul tempo, l’eternità e la potenza dell’uomo su queste istanze a partire dal momento in cui dispone di una volontà e di un progetto, ma a produrre nel lettore una finzione generatrice di immagini e di sensazioni. Il bestiario degli animali smarriti anche. 

(M. Onfray; Fotografie di A. Masuri)
















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