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Nella bufera con Muir (23/5)
Prosegue con i...:
Cercatori d'oro (27/8)
L’articolo
col quale la Rivista, nel suo numero dello
scorso Viaggio, annunziava la partenza della spedizione diretta da S. A. R. il Duca degli Abruzzi, mi permette di essere
molto breve nel dire dei preliminari riguardanti la genesi del progetto e l’organizzazione
della carovana.
Fu nei
primi giorni di Febbraio, che il Principe decise di dirigere una spedizione nell’Alaska, in un tentativo di salita al monte Sant’Elia, scegliendo a compagni il cav. Umberto Cagni, Suo
ufficiale d’ordinanza (Socio della Sezione di Torino del C. A. I.); il cav.
Francesco Gonella, presidente della Sezione di Torino del C. A. I.; il cav.
Vittorio Sella (Socio della Sezione di Biella del C. A. I.) e me. Completavano
la carovana quattro guide valdostane: Giuseppe Petigax e Lorenzo Croux di Courmayeur,
Antonio Maquignaz e Andrea Pellissier di Valtournanche, ed Erminio Botta,
portatore abituale di Sella, già suo compagno nel Caucaso.
Fu
cominciato subito il non breve né facile lavoro di preparazione. Dal dott.
Paolo De Vecchi, socio della Sezione di Torino del C. A. I., che abita a San
Francisco di California; dal prof. Fay di Boston, già presidente dell’Appalachian
Mountain-Club; dal prof. Davidson di San Francisco, e Israel C. Russel di
Michigan, arrivarono in copia consigli ed indicazioni bibliografiche; e a poco
a poco si venne riunendo tutto il materiale di equipaggiamento, mentre si
davano le disposizioni per facilitare e rendere più rapido possibile il
viaggio. L’equipaggiamento venne fatto quasi per intero in Italia ed a Londra:
solo i viveri e le armi furono acquistate negli Stati Uniti, a San Francisco.
La
spedizione partì da Torino il 17 Maggio u. s., salutata da numerosi amici e
colleghi, seguita dai voti e dagli augurii di tutti; il 22, dopo passati tre
giorni a Londra per completare il materiale, salpava da Liverpool sul postale
Lucania della Canard Line, e arrivava a Nuova York la sera del 28, dopo una
buonissima traversata. La mattina del 29 proseguiva sulla Pennsylvania
Railroad, recandosi direttamente a San Francisco, dove arrivò la sera del 3
Giugno.
I giorni
dal 4 al 9 furono impiegati nel fare l’approvvigionamento di viveri, e la sera
del 9 partimmo da San Francisco in ferrovia, diretti a Seattle, città del Puget
Sound, percorrendo la California del Nord, l’Oregon, e lo Stato di Washington,
sul versante occidentale delle Montagne Rocciose, quasi sempre in mezzo alla
lussureggiante vegetazione della foresta vergine.
Arrivati a
Seattle la sera dell’11, c’imbarcammo il 13 sul piroscafo City of Topeka diretti
a Sitka, la capitale dell’Alaska. Qualche giorno prima di noi era partita da
Seattle l’Aggie, una goletta noleggiata da S. A. R., doveva raggiungere Sitka,
parte a rimorchio di un vapore, parte navigando a vela, e aspettarci là. Aveva
a bordo dieci portatori americani, di Seattle, comandati da W E. S. Ingraham,
che li aveva arruolati ed equipaggiati completamente per la spedizione.
Il nome d’Alaska è oggi diventato così
popolare per la scoperta dei ricchi depositi d’oro, che mi posso limitare a pochi
cenni geografici.
Il 141° di
longitudine ovest (Greenwich) la separa dal territorio Inglese fino a 30 miglia
dal Pacifico: da tale punto il confine segue la sommità delle montagne situate parallelamente
alla costa e quindi fino a 54. 40' di latitudine una linea irregolare lungo il
canale di Portland e compresa fra i 131° e 133° di longitudine. Esso assegna
così all’Alaska una stretta lingua di terra che orla la Columbia per circa 500
miglia. Nella sua parte meridionale questa porzione di costa è coperta da un
intricato arcipelago d’isole, in continuazione con quello che si protende lungo
la costa della Columbia fino all'isola di Vancouver. Su questa estrema punta
meridionale del territorio che si trova Sitka, la capitale dell'Alaska, e poche
altre piccole colonie di bianchi, frammisti ad un numero più o meno grande di
Indiani.
Le
condizioni generali del paese sono oggi presso a poco quelle che erano trent’anni
fa, quando esso passò dal dominio Russo a quello degli Stati Uniti. Questi
hanno continuato con mezzi più equi e sotto un controllo più rigoroso del
governo centrale lo sfruttamento della regione, che fino ad oggi ha dato come
prodotti principali pelliccia, pesce e minerali.
Gli Indiani
della costa, sottoposti ora ad un regime liberalissimo, in gran parte
semicivilizzati, almeno nell’apparenza esteriore, vivono indisturbati, e, senza
le invincibili tendenze di razza, che ne rendono molto limitata la
perfezionabilità, potrebbero procurarsi condizioni di esistenza molto migliori
con ciò che ricavano dal commercio colla Compagnia che monopolizza i prodotti
della penisola.
Il viaggio
da Seattle a Sitka dura sei giorni; il battello percorre il lungo stretto fra l’isola
di Vancouver e la costa della Columbia, poi i canali tortuosi dell’arcipelago
Alexander, straordinariamente pittoreschi, ricchi di quadri grandiosi di
foreste vergini e di ghiacciai che scendono fino al mare. Mi duole che l’ampiezza
dell’argomento non mi permetta di fermarmi a descrivere l’ambiente fantastico,
dalle strane notti luminose, nelle quali i tramonti si confondono coll’alba; il
mare popolato di candidi icebergs che vanno alla deriva
silenziosi, cullati dolcemente dall'onda lunga del battello; le rive
capricciosamente frastagliate da insenature e canali, coperte dappertutto da un
fitto mantello di conifere.
Il viaggio
è un continuo succedersi di quadri così ricchi di disegno e di colori, che ad
ammirarli si passano notti intere sul ponte del battello, soggiogati dal
fascino di quella natura selvaggia, così nuova e così forte mente
impressionante.
La città
più popolosa dell’Alaska è Juneau, l’unica sorta dopo che
il paese appartiene agli Stati Uniti, situata in fondo a una piccola
insenatura, in vicinanza di una importante miniera d’oro, la Treadwell Mine.
Juneau è ora diventata il centro d’approvvigionamento dei
minatori che si recano ai ricchi placers
dell’interno, e, se disillusioni troppo gravi non troncheranno la forte emigrazione
che si sta compiendo ora, la città prenderà uno sviluppo notevole in pochi
anni. Quando vi passammo in Giugno (si cominciava appena a parlare delle
scoperte aurifere), era un paese tranquillo, dalle case di legno, colle vie in
parte coperte da un rozzo impiantito d’assi, in parte ancora suolo di foresta
coi monconi sporgenti dagli alberi abbattuti.
In mezzo ai
bianchi, che formano il nucleo principale di abitanti, circolavano Indiani sudici,
dai visi abbrutiti, giallastri, incorniciati da capelli neri, uscii, le spalle
coperte da scialli color rosso-mattone.
Due mesi dopo
arrivandovi, alle 11 di notte, trovammo la città brillantemente illuminata, le
botteghe aperte, le vie piene di una folla eccitata che discorreva animatamente
in gruppi, creando un ambiente elettrizzato, in preda al fermento di desideri
sconfinati, di speranze pazze.
Da Juneau il battello risale ancora fino a Glacier Bay prima di far rotta verso Sitka. Sul golfo azzurro, cosparso di blocchi di ghiaccio, che
paiono tombe marmoree in un vasto cimitero, si innalzano due grandi bacini
glaciali. A sinistra la catena imponente del
Fairweather, a destra e sul fondo della baia il ghiacciaio di Muir, una enorme fiumana che
termina bruscamente nel mare con un muro verticale di ghiaccio lungo due miglia
e alto 100 metri, coronato da innumerevoli pinacoli e guglie, colla base minata,
scavata di solchi e di caverne dall'onda clic vi si infrange. Dalla parete
cadono a brevi intervalli masse di ghiaccio nel mare con un tonfo sordo.
Misurazioni accurate fatte dal geologo G. F. Wright stabilirono che il centro
del ghiacciaio si muove con una velocità di oltre 20 metri nelle 24 ore.
…La notte che seguì alla partenza da Juneau fu la
più fantastica di tutto il viaggio…
Col calar
del sole tutto l’orizzonte, limitato da grandi catene cariche di ghiacciai, si
fece limpidissimo, e cominciò a tingersi dei colori meravigliosamente sfumati
del tramonto. Alle dieci era ancora giorno chiaro, poi la luce diminuì
gradatamente fino alla mezzanotte.
Il color di
rosa che tingeva le vette e le pareti nevose si fece più pallido, le strisce
aranciate, azzurre e rosee del mare scomparvero a poco a poco, passando pei toni
più delicati. Persisteva sempre a ponente una fascia rosso-aranciata che dava
strani riflessi ai monti da quella parte; tutto il resto del cielo era tinto in
azzurro pallido, che di ventava più chiaro e più freddo all’orizzonte. Su di
esso spiccavano nei loro particolari più minuti le montagne, il bianco crudo
della neve, le dentellature bizzarre delle creste.
La luna
gialla, sbiadita, non dava nessuna luce; si vedevano poche stelle, pallidissime.
All’una e
mezzo del mattino cominciò la luce dell’aurora, mentre scompariva a poco a poco
il colore di ponente. La nave scivolava senza rumore, come furtiva, nell’ alto
silenzio di quel mondo fatato.
Al di là
del promontorio che separa il canale di Lynn dalla Glacier Bay, si cominciarono
ad incontrare icebergs, dapprima rari, isolati, poi sempre più numerosi,
staccatisi dai ghiacciai che scendono nella baia, oramai poco distanti. Ma
eravamo nel paese delle sorprese, degli improvvisi cambiamenti di scena. L’aria
è così satura di umidità che il minimo abbassamento di temperatura, causato da
un mutamento di direzione del vento, dal nascondersi del sole dietro una nube,
ne determina la condensazione.
Compare
all’orizzonte una bassa cortina di nebbie grigiastre che si allarga, si
estende, fino a coprire tutto di un leggiero velo bianco, luminoso, ma non
trasparente, e la nave deve fermarsi per non correr rischio di incontrare un
iceberg. A vederli non si direbbero temibili; senonché il ghiaccio che sporge
dall’acqua è appena una piccola parte della massa totale, e l’urto non sarebbe
indifferente. Essi sorgono improvvisamente dalla nebbia e improvvisamente
scompaiono, portati dalle correnti, come sono venuti.
Ad un
tratta, nel mezzo di un enorme alone, compare il disco pallido del sole; in
meno di un minuto, come per magia, la nebbia si dilegua e risplendono di nuovo
luce e colore. Il mare bigio è diventato azzurro ametista; migliaia d’anitre,
stupite della vicinanza del piroscafo, s’alzano a volo gridando dall’acqua e
dagli icebergs.
La scena
dura appena dieci minuti e s’è da capo avvolti nella nebbia, formatasi in un
batter d’occhio, come per incanto, nell’aria circostante. Finalmente il sole,
già alto sull’orizzonte, trionfa della nebbia, permettendo alla nave di entrare
nella insenatura dove scende maestoso il
ghiacciaio di Muir.
Tutta
l’atmosfera è limpida e trasparente, il mare, di un azzurro appena più intenso
di quello del cielo, è leggermente increspato, con strisce d’acqua lucida, che
segnano le correnti, ed è coperto da un gran numero di icebergs non molto
grossi, con qualche raro blocco gigantesco che conserva la forma
caratteristica, irregolarmente geometrica, dei seracchi: alcuni alti
sull’acqua, altri come grandi tavole galleggianti; talora formati da più
icebergs che, riunitisi, si sono saldati fra loro, prendendo le forme più
bizzarre.
Fra i
blocchi bianchi, coperti di laminette e di fioriture ghiacciate, spiccano
alcuni massi dalla superficie liscia, color verde mare: sono icebergs capovoltisi,
in modo che viene a sporgere sull’acqua la parte che prima era sommersa. A
sinistra si inalza la catena sormontata dalle vette del La Pérouse, Crillon e
Fairweather, di una arditezza di disegno da rivaleggiare colle più imponenti
montagne conosciute. Le punte vicine, meno alte e meno isolate, quasi
scompaiono dinanzi alla straordinaria maestà delle maggiori. L’intiera catena è
situata su un promontorio largo 50-60 chilometri, fra la Glacier Bay e l’Oceano
Pacifico. Da essa scendono nella Glacier Bay quattro ghiacciai, che un piccolo
contrafforte sporgente nella baja separa dal
ghiacciaio Muir.
A destra
della catena del Fairweather, e nel fondo della baia, scende il ghiacciaio di Muir, un enorme altipiano che termina bruscamente nel
mare con una parete verticale di ghiaccio lunga 1600 metri ed alta 80, coronata
da innumerevoli pinnacoli e guglie, colla base frastagliata, scavata di solchi
e di caverne dall’onda che vi si infrange contro. Da questa fronte cadono a
brevi intervalli masse di ghiaccio nel mare, sollevando sprazzi giganteschi, e
formando lunghe onde che si rompono con violenza sulle rive della insenatura.
Dietro la
fronte, rotta e solcata in tutti i sensi da numerosi crepacci, il ghiacciaio si
estende quasi piano fino ad un grande anfiteatro di 50-60 chilometri di
diametro, dove riceve nove grandi affluenti e diciassette minori che scendono
da vette di disegno non molto interessante.
Il ghiacciaio di Muir fu esplorato per la
prima volta nel 1879 dal geologo di cui porta il nome; nel 1886 G. F. Wright,
con due compagni, passò un mese nella baja per studiarne il movimento. I
risultati delle sue osservazioni sono sorprendenti: nel mese di agosto il
ghiacciaio si avanza nella baia con una velocità media di metri 12.20, cioè di
metri 21.30 al centro e 3 ai margini. Siccome la fronte del ghiacciaio ha una
superficie di sezione di 464 470 metri quadri, esso scarica nel mare più di 5
600 000 metri cubi di ghiaccio al giorno.
Solo nella Groenlandia sono state misurate
velocità paragonabili a questa; nelle nostre Alpi il movimento dei ghiacciai è
molto più lento. Le velocità massime verificate con ripetute osservazioni da
Hugi, Agassiz, Forbes e Tyndall, sono di 48 centimetri al giorno pel ghiacciaio
d’Aletsch, di 56 centimetri per quello di Grindelwald, e di 90 centimetri per
la Mer de Giace. Questa grande differenza appare tanto più strana, quando si
osservi che l’inclinazione del pendio sul quale scivola il ghiacciaio Muir è
appena di 19 metri per 1000, mentre nelle Alpi le pendenze minime sono
all’incirca del 50 per 1000.
La spiegazione non può quindi trovarsi che nella
grande differenza di massa fra il ghiacciaio di Muir e quelli delle Alpi, e si è condotti ad
ammettere che la velocità colla quale si muove un ghiacciaio dipenda molto meno
dalla inclinazione del fondo che dal volume della corrente in sè stessa
(Wright). Numerose e certe indicazioni provano che il ghiacciaio di Muir
diminuisce rapidamente, tanto che la fronte sarebbe retroceduta di oltre 900
metri dal 1886 al 1901.
Risalendo
molto più addietro, troviamo un prezioso documento nella descrizione della
Glacier Bay nel 1794, lasciataci dal Vancouver nella relazione del suo viaggio attorno al mondo, dalla quale appare che il ghiacciaio di Muir riempiva
quasi totalmente l’insenatura occupata oggi dal mare.
Per
concludere questo primo capitolo mi preme un particolare riconoscimento al dott. De Filippi che mi ha rimesso per lo studio i pochi animali
raccolti durante la spedizione; provengono tutti dal ghiacciaio di Malaspina,
dove furono trovati sulla neve; essi appartengono a cinque specie. Due di esse
sono insetti volanti, capitati per caso sul ghiacciaio e venuti forse da grande
distanza.
Esse sono:
un Dittero, Syrphus arcuatus, Fallen, specie comune in Europa e nell’America settentrionale,
come mi scrive il dott. Ermanno Giglio Tos di Torino che ebbe la compiacenza di
determinarlo, e un Imenottero, Ichneumon hiemalis, Cress., che fu determinato
dal dott. Giuseppe Kriechbaumer del Museo di Monaco.
Appartengono
invece senza dubbio alla fauna propria del ghiacciaio le tre altre, cioè: una
Podura del genere Isotoma molto affine, se non identica, alla I. Besselsi, Pack; un Aracnide dell’ordine degli Opilionidi di cui il prof. Pavesi ha fatto il
tipo di un genere nuovo col nome di Tomico- merus bispinosus; un Anellide
oligochete che deve anch’esso costituire un nuovo genere, e che io ho
descritto col nome di Melanenchytraeus solifugus. Mandai quest’insetto al prof. Grassi per la
determinazione precisa della specie.
Mi preme
inoltre ricordare con particolare dedica a riguardo, i miei cani polari, che mi seguiranno (o precederanno) per il resto delle spedizioni; i quali cani seppur abituati ai rigidi climi
dell’inverno sanno al meglio partecipare al lavoro dell’uomo, grazie a loro, infatti, le
pesanti slitte vengono facilmente mosse nel gelido terreno.
È dovere
dinastico e non solo di Principe della casata Savoia qual riconoscimento
particolare a questi cani nel saper adempiere al proprio compito, soprattutto
per quelli che cercheranno l’Oro; un peccato, però, vederli, povere bestie, trainare
slitte di altri, seppur solo una di loro dalla bianca zanna posso annoverare
qual miglior persona e non più cane. A questo Lupo che mi fa compagnia dedico
la presente breve strofa e mai si detta rima…
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