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Natura (che Anima!)
Prosegue nella...:
Seconda parte (DELL'ULTIMO VIAGGIO)
Roald
Amundsen e Umberto Nobile erano tanto diversi quanto lo sono il giorno e la
notte. Il primo era uno scandinavo riservato, chiuso; aveva già raggiunto
entrambi i Poli, non aveva famiglia e preferiva evitare la mondanità e gli
affetti personali. L’altro era un italiano allegro e strafottente un po’ come
tutti gli italiani, che aveva progettato la prima aeronave ad aver mai
raggiunto il Polo Nord. Tenuto in grande considerazione dal partito fascista italiano,
aveva l’abitudine di portare con sé la sua cagnetta, una fox terrier di nome
Titina, anche nelle imprese più rischiose. Alcuni dicono che prestasse molta
attenzione all’umore e al comportamento dell’animale prima della partenza.
Nondimeno, vi era una caratteristica che Amundsen e Nobile avevano in comune —
entrambi erano grandi sognatori.
I due si
incontrarono per la prima volta a Oslo nel luglio 1925, Amundsen aveva invitato
l’ingegnere italiano in Norvegia, per proporgli di svolgere insieme una spedizione
transartica a bordo del dirigibile N-1, che fu poi ribattezzato Norge. Amundsen
garantì che l’Aeroclub di Norvegia avrebbe acquistato l’aeronave e si sarebbe
fatto carico di tutte le altre spese. Gli italiani avrebbero provveduto al
dirigibile e al suo comandante.
Una
delle più grandi operazioni di ricerca nell’Artico di tutti i tempi si era conclusa.
E, senza essere mai veramente
cominciata, si chiudeva anche la ricerca dei sei italiani volati via con quel
che restava del dirigibile Italia. Era impressionante che venisse dichiarato
così apertamente, ed era incomprensibile per chi aveva seguito le operazioni da
vicino. Era come se, ancor prima di fare un vero tentativo di localizzarli, i
sei fossero già stati dati per morti.
Il
destino del gruppo rimasto sul pallone era appeso al filo sottile di quel che
si sapeva sulla sua presunta posizione, calcolata in base a quella dell’accampamento
di Nobile. La loro vita era in mano al comando del rompighiaccio russo. I tre
responsabili della spedizione a bordo del Krassin furono molto offesi, per non
dire feriti, dal recupero fulmineo dell’alpino Sora e del conducente di slitte
Van Dongen da parte degli svedesi a Foynøya.
La
spedizione del Norge restava, quindi, un’iniziativa e una impresa norvegese,
anche se era stabilito che tutta la parte aeronautica sarebbe stata preparata
in Italia sotto l’esclusiva iniziativa, direzione e responsabilità di Nobile.
Nobile fu decisamente lusingato di ricevere una proposta del genere da parte
del grande esploratore polare; una stretta di mano suggellò l’accordo.
Amundsen, un pioniere ambizioso, non resisteva all’idea di poter mettere fine
all’antico dibattito sul fatto che la calotta polare celasse o meno un
continente; per questo motivo, continuò a spronare il suo partner italiano. La
spedizione mosse verso il Polo Nord il 10 aprile 1926.
In
un primo tempo, Amundsen trovò a dir poco oltraggiosa la presenza di un cane a
bordo. Alla fine dovette piegarsi al capriccio del suo compagno di viaggio, ma
non poté trattenersi dal buttar giù una nota sarcastica nel suo diario: “Le
cotolette di cane saranno squisite”. Amundsen si considerava non solo come il
capo spedizione, ma anche come il padrone della situazione in generale. In
conclusione, però, le sue grandi aspettative restarono deluse: al posto di un
misterioso continente, egli vide sotto di sé solo vaste distese d’acque scure e
banchi di ghiaccio.
Nel
frattempo, il viaggio stesso aveva costituito un’impresa clamorosa. Il Norge
aveva volato per 171 ore, di cui 72 attraverso l’Oceano Artico. Era stato così
effettuato il primo volo transpolare della storia, dalle Svalbard fino in
Alaska. Fu un record assoluto nella storia dell’aeronautica. Quando la
spedizione si concluse, il comandante Nobile ebbe tutto il plauso, mentre
Amundsen finì col trovarsi ad essere solo un eminente passeggero.
Tre
aerei, gli Hansa e lo Junkers finlandese Turku, partirono la sera del 13
luglio, atterrarono in un largo canale navigabile sul lato orientale dell’isola
e presero a bordo i due uomini. Il ritorno non fu altrettanto agevole. Dapprima
l’aereo finlandese ebbe un problema al motore e poi, quando finalmente si
riuscì a ripararlo, il canale si era di nuovo chiuso tutt’intorno. Qualche ora
dopo le condizioni migliorarono e poterono decollare. Sulla spiaggia rimasero i
due cani sopravvissuti al viaggio – eroico ma anche un po’ incauto – di Sora e Van
Dongen. I piloti viaggiarono in una nebbia fitta fino al Murchisonfjord e atterrarono
verso le due di notte.
La
gioia degli svedesi per la riuscita dell’azione fu enorme. Pur essendo in lutto
per la perdita di Malmgren, almeno il loro generoso contributo di due navi,
sette aerei e quindici uomini non era stato vano. Avevano portato a termine con
successo ben due operazioni di soccorso, tre se si contava anche il recupero di
Lundborg da parte di Schyberg.
Sul
Krassin l’atmosfera non era altrettanto festosa. Si discuteva il fatto che era
stato il pilota Čuchnovskij ad avvistare per primo i due uomini in cima a Foynøya,
dunque l’onore di salvarli sarebbe dovuto spettare ai russi. Agli occhi dei
giornalisti stranieri che avevano avuto la fortuna di potersi imbarcare sulle
navi della spedizione – tra cui il cineoperatore americano John Dored della
Paramount News – si trattava dell’ennesimo esempio della scarsa collaborazione
tra le nazioni durante tutta la missione di soccorso.
Dopo
aver recuperato Čuchnovskij a Capo Platen con il suo equipaggio e lo Junkers
danneggiato, Samojlovič propose di proseguire verso est in cerca del pallone.
Contattò dunque il comandante Romagna Manoja, a bordo del Città di Milano,
chiedendogli di inviare uno dei suoi idrovolanti per aiutarli: il pallone non
poteva essere tanto distante dalla posizione in cui era stato tratto in salvo
il gruppo della tenda, ma lo Junkers russo era troppo danneggiato per essere
riparato a bordo. Il comandante italiano respinse la richiesta spiegando, con
una serie di scuse, che nessuno dei suoi aerei poteva muoversi.
Ispirato
dal successo del Norge, su cui la stampa mondiale e le autorità italiane
avevano riversato enormi lodi (Mussolini lo aveva persino promosso al grado di
Generale), Nobile aveva deciso di continuare a costruire sul risultato e aveva
iniziato a elaborare piani per un secondo volo verso il Polo Nord, da
effettuare con un nuovo dirigibile, l’N-4. Com’era logico attendersi, esso fu
chiamato Italia.
L’Italia
era pronto a entrare in azione nella primavera 1928. Papa Pio XI benedisse
l’impresa. Egli consegnò a Nobile una grande croce di quercia perché la
portasse al Polo Nord. “E come tutte le croci”, avvertì il Papa, “sarà pesante
da portare”.
La
spedizione partì da Milano il 15 aprile 1928. Nobile, per la prima volta,
ignorò un presagio di Titina. L’amata cagnetta resistette all’imbarco con tutte
le sue forze, così l’esploratore dovette prenderla in braccio per portarla a
bordo.
L’Italia
prima di partire dal campo di Milano (Baggio)
Il
viaggio dell’Italia iniziò male fin dalle primissime ore. Danneggiatosi
nell’attraversare una tempesta sui Carpazi, il dirigibile dovette fare scalo a
Stolp, località allora in Germania (l’odierna Slupsk, in Polonia). A causa
delle riparazioni e del ritardo di arrivo della “Città di Milano” — la nave
appoggio cui era demandato il contatto radio — l’Italia ripartì solo il 3
maggio. Anche l’ormeggio in Finlandia dovette essere effettuato con il cattivo
tempo. Fortunatamente, tutto andò bene.
Sorvolando
Stoccolma, l’Italia discese alla quota minima possibile, per consentire a uno
dei membri dell’equipaggio, Finn Malmgren, di lasciar cadere un biglietto
indirizzato a sua madre.
Samojlovič
non si arrese e mandò una richiesta analoga al capo della missione svedese
Tornberg. Poco dopo arrivò un rifiuto anche da lì: la spedizione svedese doveva
lasciare le Svalbard al più presto, gli aerei dovevano essere smontati e
caricati sulla Tanja o stivati nel mercantile Ingerto, che sarebbe partito a
giorni da Adventbukta.
Senza
aerei il Krassin non poteva avventurarsi nella ricerca del pallone. Adolf Hoel
definì l’atmosfera a bordo un misto di incredulità e indignazione. L’ultimo
filo di speranza per gli uomini volati via col dirigibile fu spezzato da quelle
risposte. Anche se fossero sopravvissuti all’impatto con il ghiaccio, ora i sei
erano condannati a una morte certa. Con i danni alle eliche e all’albero di
trasmissione e le scorte di carbone al minimo, il rompighiaccio non poteva
avventurarsi da solo contro la massiccia banchisa a nord delle Svalbard in un
ultimo, disperato tentativo di trovarli.
Ai
russi non restava che puntare la rotta verso sud. Il 19 luglio il Krassin entrò
nel Kongsfjord, dove si trovava già il Città di Milano. Anche i due idrovolanti
Marina II e Savoia-Marchetti S55 erano tornati a Ny-Ålesund per un cambio di
motori. I sopravvissuti dell’Italia erano già a bordo del Città. Il giorno dopo
a Mariano venne amputata la gamba in cancrena e la spedizione italiana lasciò
le Svalbard. I due Hansa svedesi furono scaricati a Tromsø il 24 luglio. Dovevano
essere trasportati in Svezia, dove arrivarono l’indomani.
Il dirigibile aveva un equipaggio di 13 persone, di cui sette avevano partecipato precedentemente all’impresa del Norge. A seguito delle pressanti richieste del consiglio degli industriali milanesi, che aveva finanziato la spedizione, era stato permesso a due giornalisti di partecipare, alternandosi, ai voli del dirigibile. In totale, contando anche i tre scienziati presenti, erano 18 i partecipanti alla missione. Due anni prima il Norge aveva dimostrato al mondo intero che i dirigibili erano già affidabili nell’Artico. Questa volta, lo scopo non era solo raggiungere il Polo, ma anche condurre studi che producessero risultati scientifici. Una volta arrivati al Polo, alcuni ricercatori, dotati dell’equipaggiamento appropriato, avrebbero avuto il compito di scendere sulla superficie per qualche tempo, allo scopo di misurare il magnetismo terrestre, la forza di gravità e la profondità dell’oceano.
Il
primo viaggio avrebbe dovuto svolgersi attraverso un’area precedentemente
inesplorata a nord-est della Terra di Francesco Giuseppe. Tuttavia, il maltempo
e alcune difficoltà sopravvenute con un meccanismo di manovra fecero sì che il
dirigibile dovesse tornare indietro. Il volo durò non più di otto ore.
15
Maggio
Il
secondo volo si svolse in condizioni non certamente migliori, ma ebbe maggior
successo. L’Italia rimase in volo tre giorni interi, tempo durante il quale
percorse 4.000 km esplorando un’area di circa 50.000 kmq.
Uno
dei risultati della spedizione fu quello di smentire i racconti favolosi circa
la Terra di Gillis, che sarebbe stata scoperta nel 1707 da un capitano olandese
portatosi un grado di latitudine più a nord delle Svalbard. Nobile e il suo
equipaggio esplorarono accuratamente la zona in cui avrebbe dovuto trovarsi il
leggendario arcipelago, senza individuare nulla.
Un
accurato lavoro di preparazione fu intrapreso per un terzo, ultimo viaggio.
Vennero previsti gli scenari più sfavorevoli, compreso quello di un atterraggio
forzato sui ghiacci. I membri della spedizione avrebbero esplorato diverse zone
non cartografate ad ovest delle Svalbard e un’area sconosciuta a nord della
Groenlandia.
Il
resto dell’equipaggio, con l’attrezzatura, partì in treno da Narvik. Il 28
luglio la missione di soccorso svedese al completo fu accolta ufficialmente a Stoccolma:
ad attenderli c’era una grande folla di famigliari, politici, ammiragli e
generali. I piloti furono acclamati come eroi e le loro imprese elogiate in una
serie di discorsi ufficiali. Durante la spedizione gli aerei svedesi avevano
percorso in tutto 22.500 chilometri in 142 ore di volo intorno alle Svalbard. Nel
frattempo, la notte del 26 luglio, anche il Città di Milano era arrivato a Narvik.
Il contrasto tra l’accoglienza riservata agli svedesi e quella che aspettava
gli italiani non poteva essere maggiore.
Nonostante
l’ora, una folla numerosa si era radunata al molo e attendeva i sopravvissuti
italiani immersa in un silenzio pesante e ostile. Per Nobile, già spossato e
nervoso dopo essere stato informato degli attacchi ricevuti dalla stampa,
dev’essere stata un’esperienza terribile. Era come se lo stessero accusando
della scomparsa di Amundsen.
A
Narvik, il giorno dopo, la gente poté solo intravedere l’equipaggio
dell’Italia, prima che rientrasse in treno attraversando la Svezia, la
Danimarca e la Germania. Il Duce aveva deciso che i vagoni dovevano essere sigillati,
in modo che fosse impossibile rilasciare interviste o entrare in contatto con
qualcuno lungo il viaggio. La spedizione in dirigibile si era trasformata in
un’onta per l’Italia.
04:28
| 23 Maggio
L’Italia
partì per il suo ultimo viaggio.
17:00
L’aeronave
raggiunse le coste della Groenlandia. Per 30 minuti procedette seguendole,
mentre i partecipanti alla spedizione effettuavano ricerche e scattavano
fotografie.
00:00
| 24 Maggio
A
mezzanotte e venti, l’Italia raggiunse il Polo Nord, grazie al vento in coda.
Nobile, trionfalmente, adempì alla promessa che aveva fatto al Papa — la croce
e la bandiera italiana furono lasciate cadere sui ghiacci. I partecipanti alla
spedizione mandarono molti messaggi radio di auguri e dettero fondo a una
bottiglia di cognac per celebrare l’occasione. Il vento e la nebbia, però,
impedirono la discesa al di sotto dei 150 m dalla superficie. L’idea dello
sbarco sui ghiacci del Polo Nord fu perciò abbandonata.
02:20
| 24 Maggio
Nobile
era consapevole che sulla via del ritorno alla Kings Bay il vento avrebbe
ostacolato la marcia. Ad un certo punto, prese in considerazione l’eventualità
di puntare verso il Canada, avvalendosi ancora del vento in coda. Cionondimeno,
Malmgren lo convinse a procedere diversamente. Nelle dieci ore in cui sarebbero
stati in volo, fece presente l’esploratore svedese, il vento sarebbe potuto
cambiare diverse volte. Inoltre, l’atterraggio su un campo non attrezzato
avrebbe potuto avere esito incerto. Nobile concordò e dette ordine di tornare
alla base.
La
spedizione abbandonò il Polo Nord avviandosi lungo il 25° meridiano est, a una
quota di 1.000 m. Tuttavia, per effetto del vento che aumentava, il dirigibile
iniziò a deviare verso est. Nel giro di solo un paio d’ore, era già fuori rotta
di almeno cinque gradi.
16:00
| 24 Maggio
La
giovialità e l’allegria di poche ore prime avevano lasciato il posto,
nell’equipaggio, al silenzio, alla concentrazione e all’attenzione. Di tanto in
tanto si sentivano forti rumori, quando frammenti di ghiaccio, cadendo dalla
carena sulle eliche, venivano scagliati contro il dirigibile. In alcuni casi le
tele subivano piccoli danni, ma tutte le perforazioni erano prontamente
individuate e riparate.
18:00
I
venti si intensificavano fino a circa 50 km/h. Contrariamente alle previsioni
di Malmgren, i venti meridionali non mostrarono alcun segno di ruotare in
direzione sud. Il dirigibile si copriva sempre più di ghiaccio.
21:45
Nobile
ordinò l’avviamento del terzo motore. La velocità all’aria aumentò fino ad
oltre 100 km/h, ma, costretta a combattere contro un forte vento di prua,
l’Italia si muoveva con lentezza. Fra le principali preoccupazioni del
comandante vi erano il grande consumo di combustibile e l’eccessivo sforzo
strutturale cui il dirigibile era sottoposto. Intorno alle tre del mattino uno
dei motori venne fermato.
04:25
| 25 Maggio
Il
dirigibile scarrocciava fuori rotta. Uscire al più presto dalla perturbazione
era diventata questione di vita o di morte. Dopo aver stimato la distanza che
restava da coprire, Nobile ordinò di riavviare il terzo motore.
09:25
| 25 Maggio
Il
timone di quota si bloccò. Felice Trojani, che era di turno in quel momento,
cercò di riportare il dirigibile in assetto livellato ma non vi riuscì.
L’Italia continuava a scendere rapidamente. Nobile fece fermare tutti i motori.
Senza chiedere il permesso, uno degli ufficiali gettò fuori bordo taniche di
benzina; misura che si rivelò tuttavia di scarsa efficacia. L’accumulo di
ghiaccio aveva reso il dirigibile troppo pesante, in modo tale da rendere
ininfluente il rilascio di una zavorra tanto piccola.
10:00
Apparentemente
la situazione era migliorata. L’Italia risalì a 900 m. Il capotecnico Natale
Cecioni aveva smontato e poi rimontato il meccanismo del timone di quota, ma
non era riuscito a determinare la causa dell’inceppamento. Due motori, quello
centrale e quello di destra, erano stati rimessi in moto. L’Italia risalì a
1.500 m.
10:30
Cecioni
avvertì che il dirigibile era diventato pesante. La parte posteriore iniziò a
sprofondare e l’Italia cominciò a perdere quota. Nobile ordinò ai suoi uomini
di portare i due motori funzionanti al massimo e di rimettere in moto anche il
terzo. Questo ebbe il solo effetto di incrementare la discesa. Da quel momento
non vi fu alcun modo di fermare la caduta. Nobile si rese conto che un
incidente sarebbe stato inevitabile.
I
massi di ghiaccio, frastagliati, erano sempre più vicini; ormai pochi metri
fuori dalla cabina. Poi lo schianto. L’Italia urtò il pack 100 km a nord delle
Svalbard alle ore 10.33 GMT del 25 maggio 1928. Il campo della Kings Bay era
distante appena due ore di volo.
Fu
allestito in tutta fretta un passaggio perché gli italiani potessero andare direttamente
dalla nave al treno senza mettere piede sul suolo norvegese. Nel viaggio i
sopravvissuti furono trattati come prigionieri, ma questo non risparmiò loro la
vista di scene vergognose che si svolsero fuori dai finestrini. Specialmente in
Danimarca e in Germania, dove erano state pubblicate circostanziate dicerie su
presunti atti di cannibalismo durante la spedizione italiana, il viaggio fu
straziante: la gente correva lungo i fianchi del treno facendo smorfie e
mostrando i denti e alle stazioni appendevano manifesti con disegni grotteschi
e ingiurie.
Solo
in Svezia gli italiani furono accolti con contegno, con amicizia perfino. Per
il povero Nobile, uno degli episodi più belli di quel periodo così buio capitò
proprio in una stazione svedese, dove una bambina corse al finestrino a cui era
affacciato il generale e gli porse un mazzolino di fiori. Gli svedesi
riuscirono ad affrontare il lutto nazionale per la perdita di Finn Malmgren con
dignità. L’ordine di isolamento impartito da Mussolini in Svezia fu un po’ allentato,
in modo che Zappi, insieme all’inviato diplomatico italiano in Svezia, potesse
fare visita alla madre di Malmgren, che abitava poco fuori Uppsala.
All’incontro partecipò anche il cognato del professore, il dottor A. Fägersten,
e fu lui a riportare poi alla stampa i dettagli di quel momento.
Zappi
cominciò parlando dell’amicizia tra lui e Malmgren. Disse di essere arrivato a
considerarlo come un fratello. Poi raccontò le ultime ore del ricercatore
polare e si commosse elogiando il gesto eroico di Malmgren, che si era
sacrificato per offrire agli altri due la possibilità di arrivare a terra, non solo
perché si salvassero, ma perché cercassero aiuto per i compagni rimasti alla
tenda. Infine consegnò la bussola. Dopo l’incontro sia Fägersten che la madre
di Malmgren dichiararono di essere rimasti molto colpiti dalla sincerità di
Zappi.
Dopo
il disastro dell’Italia, la scomparsa del Latham e le tante spedizioni inviate
alle Svalbard in estate e in autunno, il governo norvegese valutò se istituire
una commissione di inchiesta. Come amministratrice delle Svalbard la Norvegia
aveva tutto il diritto di farlo, ma nei primi anni successivi al trattato non
si era sicuri delle modalità di applicazione della sovranità.
Alla
fine si decise di non istituirla.
Se
l’avessero fatto, forse il governo italiano sarebbe stato più cauto nelle
conclusioni della propria commissione di inchiesta. Più avanti si creò un
comitato internazionale cui prese parte anche Adolf Hoel come membro esperto,
ma ormai era troppo tardi per cercare di sollevare Nobile dalle responsabilità
che gli erano state attribuite. In una spedizione così complicata come quella
voluta da Nobile nell’estate del 1928, con obiettivi sia scientifici che
politici, era impossibile non incappare in qualche errore di valutazione.
Il
giudizio sulla spedizione nella sua interezza non poteva che essere soggettivo
e legato sia alle esperienze precedenti dei commissari che alla loro situazione
politica. I membri della commissione d’indagine italiana furono nominati tra i
sostenitori di Mussolini e di Balbo. Molti di loro erano fascisti attivi. Per
questo era stata un’imprudenza da parte di Nobile criticare tanto aspramente la
missione di soccorso italiana e in particolare il comportamento di Romagna
Manoja, visto che la missione operava direttamente sotto la guida del
ministero.
Poi
qualche cosa che dall’alto mi ruinava addosso mi fece cadere con la testa in
giù. Istintivamente chiusi gli occhi, e con assoluta lucidità e freddezza
pensai: “Tutto è finito”.
Nobile
si trovò sdraiato sul ghiaccio fra i rottami, con intorno alcuni uomini del suo
equipaggio. Nel momento in cui la cabina di comando si era schiantata al suolo,
il dirigibile, a causa del notevole alleggerimento, risalì in cielo e scomparve
in pochi istanti. Portò via sei membri dell’equipaggio, che al momento del
disastro si trovavano all’interno dell’involucro e delle navicelle motrici
laterali. Una considerevole quantità di equipaggiamento, attrezzature e
provviste erano parimenti scomparse. Solo quelli che al momento dell’impatto
erano all’interno della cabina, ora si trovavano in mezzo ai rottami.
I
sopravvissuti all’incidente trascorsero del tempo a controllarsi
vicendevolmente e ad osservare il pack circostante. Nobile pensò che la sua
fine fosse questione di pochi minuti. L’esploratore artico aveva la sensazione
che i suoi organi interni avessero subito danni irrecuperabili. Dunque, egli si
ripeteva, sarebbe stato meglio così; in tal modo, non gli sarebbe toccato in
sorte di vedere la disperazione e l’agonia dei suoi compagni.
L’anilina
fuoriuscita dai serbatoi sferici, che l’equipaggio del dirigibile utilizzava
per le misurazioni altimetriche, aveva disegnato un’ampia striscia rossa che si
allungava per 50 metri, quasi come un animale ferito che si fosse lasciato
dietro una traccia intrisa di sangue.
Nel
frattempo, Behounek scoprì nella neve un contenitore in tela con dentro una
tenda e sacchi a pelo. Fu presa la decisione di usare quanto restava del
colorante per tinteggiare in rosso la tenda, così da renderla di più facile
individuazione. Furono ritrovate alcune cassette di provviste, cadute sul
ghiaccio al momento dell’impatto. C’era del pemmicam (un concentrato di carne
essiccata, cioccolata, grasso e burro). Altra preziosa scoperta fu quella di
una piccola borsa, caduta fuori dal dirigibile, che conteneva l’articolo più
importante di tutti — un revolver Colt e una scatola con cento cartucce. Cinque
giorni dopo, Malmgren l’avrebbe usata per abbattere un orso polare, accrescendo
considerevolmente la riserva di cibo.
Il
radiotelegrafista Giuseppe Biagi era sopravvissuto e la sua trasmittente era
rimasta intatta. Questo dava qualche speranza, perché la nave appoggio
dell’Italia, la “Città di Milano”, era di guardia in mare durante tutti i
viaggi del dirigibile. L’altro telegrafista dell’Italia, Ettore Pedretti,
avrebbe ricevuto per primo la chiamata di soccorso dei naufraghi. Pedretti
effettivamente udì una parte del messaggio quattro giorni dopo l’incidente, ma,
per qualche ragione, lo interpretò come segnale proveniente da una stazione
radio a Mogadiscio, capitale della Somalia, in Africa, all’epoca colonia
Italiana.
S.O.S.-Italia-Nobile.
Caduti sui ghiacci a 81°14' di latitudine N e 25° di longitudine E. Vi sono due
feriti alle gambe. Impossibile muoversi per mancanza di slitte. Biagi
continuava a trasmettere chiedendo soccorsi, ma senza alcun risultato.
Frattanto, le batterie erano sul punto di esaurirsi, insieme all’ottimismo di
quelli che erano sopravvissuti alla caduta del dirigibile. Il giorno in cui
Pedretti aveva ricevuto, ma non era riuscito a verificare, la chiamata di SOS
dell’Italia, gli esploratori, demoralizzati, avevano avuto una discussione. Il
giorno successivo, tre di loro, Malmgren, Mariano e Zappi si offrirono
volontari per mettersi in marcia alla ricerca di assistenza. In tre settimane,
speravano, sarebbe stato possibile raggiungere l’estremità settentrionale di
Spitsbergen, dove erano molto più alte le possibilità di incontrare una grande
nave.
Gli
altri erano scettici sull’idea di dividersi in gruppi. Cecioni era convinto che
Malmgren, Mariano e Zappi non sarebbero riusciti a resistere a nemmeno un
giorno di marcia sui ghiacci e sarebbero certamente tornati indietro. “Ci
vediamo domani sera”, ripeteva. In un primo tempo, Nobile era contrario
all’idea di dividere il gruppo, ma Malmgren, esperto esploratore artico, aveva
proposto il piano. Nobile pensò che l’uomo sapesse cosa stava dicendo e li
lasciò andare.
31
maggio: tre chiazze nere sono rimaste visibili per l’intera giornata,
riducendosi gradualmente di dimensione man mano che si allontanavano lentamente
verso occidente.
Non
servì a niente che anche la maggior parte dei comandanti delle altre spedizioni
alle Svalbard concordassero sulla cattiva gestione di Romagna Manoja. A suscitare
l’indignazione di Riiser-Larsen, del comandante Tornberg, del professor Samojlovič,
del contrammiraglio Herr e di Gunnar Hovdenak erano state soprattutto la
mancanza di una guida chiara, le comunicazioni radio inaffidabili e il rifiuto
di mettersi alla ricerca degli uomini scomparsi con il pallone.
Adolf
Hoel fu chiamato a testimoniare al processo avviato in Italia dopo il rientro
di Nobile. Venne richiesta la sua presenza tra il 7 e il 16 gennaio 1929.
Superata una serie di perplessità, il ricercatore polare diede la sua disponibilità
come teste, ma non senza prima aver discusso con Fridtjof Nansen alcune
questioni che a suo avviso sarebbero emerse in quella sede. Dunque, quella
proposta da Hoel alla commissione italiana non sarebbe stata una sua visione
personale del disastro dell’Italia, bensì una versione concordata e ufficiale,
messa a punto dai maggiori statisti norvegesi nel campo delle questioni polari.
Niente
poteva riportare in vita i morti, perciò l’obiettivo del governo norvegese era
quello di consolidare e potenziare il ruolo della Norvegia alle Svalbard, e di
conseguenza magari anche nell’Artide. Per tutto il periodo successivo al
disastro dell’Italia e durante le inchieste della stampa sulle azioni di
ricerca, Fridtjof Nansen si era sempre tenuto in disparte. All’inizio aveva
dato la sua disponibilità a mettersi a capo di una missione di soccorso con uno
Zeppelin tedesco guidato da Hugo Eckener, il più grande concorrente di Nobile.
L’idea però era stata presto accantonata. Una ricerca in dirigibile avrebbe
avuto parecchi vantaggi, ma comportava un immenso apparato di supporto.
Un
candidato possibile era il Graf Zeppelin, il doppio più grande dell’Italia e
costruito con tutt’altra tecnologia. Ma sia l’hangar che il pilone di ormeggio
di Ny-Ålesund sarebbero stati troppo piccoli e non sarebbe nemmeno stato
possibile far portare in tempo utile le bombole di gas idrogeno a Kings Bay. Il
percorso dalla Germania alle Svalbard doveva essere concordato e preparato con
largo anticipo. Il dirigibile tedesco non aveva speranze di arrivare alle
Svalbard entro l’estate del 1928.
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