CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

giovedì 28 maggio 2020

THE STORM (23)














































Precedenti capitoli:

Del viaggio in Alaska (21/2)

Prosegue nel...:

Day after the storm (24)


Prosegue ancora...:















Con il ricordo dello scienziato &

un buon articolo di Carbon Brief 













Un anno fa scompariva un grande ricercatore, anzi potremmo definirlo un ‘pioniere’, anche lui diretto quasi cento anni dopo verso quelle stesse terre mèta di esploratori accompagnati da avventurieri e cercatori d’oro, ‘bottegai’ in cerca del facile benessere per una via una nuova rotta, ed anche questa grazie al progressivo degrado dell’ambiente sarà sicuramente aperta fra non meno d’un secolo; dacché l’età dell’Oro con la sua èra la possiamo intendere tradurre e rapportare alla reale quotazione, con cui ed in cui formulare più concreti e certi Valori in riferimento alla Vita, e non solo economici; e con cui il materiale prezioso oro viene solitamente tradotto, o ancor peggio confuso, nella corsa da cui la presunta ricchezza che ne deriva beneficio di ugual medesimo principio.

Anni dopo ugual corsa viene intrapresa per medesimo oro nero, principio della stessa medesima ricchezza, e fine (certa) d’ogni più concreta certezza, dacché dal 1860 circa, possiamo rilevare e rivelare un graduale lento degrado confuso e misurato in ragione d’una falsa Economia confacente con la ricchezza, e la vera ricchezza irrimediabilmente persa… 




Proseguiamo questo Viaggio fin dentro la Tempesta e la graduale ascesa verso quell’inutile ghiacciaio da cui per taluni nulla deriva, per cui esaminando attentamente la differenza posta fra l’oro ed il nulla della nostra comune fredda conquista per ugual principio di Vita, gli addetti ai lavori fors’anche più intelligenti della facile ricchezza, potranno tradurre il senso di codesta ricerca, per i restanti illustri idioti e/o ‘uomini elefanti’ (padroni del mondo intero) che edificano e colmano il comune Tempo condiviso senza Anima e Spirito mi auguro che intendano codeste parole a loro offerte se appena in possesso di quelle rare facoltà intellettive da cui la presunta intelligenza di capirne il senso compiuto…

…Si dice che talvolta la Natura difetta in taluni se pur l’opera apparentemente compiuta… abdicando ad un ‘vuoto sguardo’ ciò che seppur, dicono, da Lei nato, seppur da un esame più attento anche lui da qualcosa certamente creato…

Ed in attesa di scoprire fra qualche anno da ciò che veramente composto ci dedichiamo alla vera infinita superiore opera del vero Creato!

(il curatore del blog)



  
Nel 2007 dei sommozzatori hanno trovato uno scheletro nella penisola dallo Yucatan. Era appartenuto a una ragazza di 12.000 anni fa. Era l’èra glaciale. Conifere. Brughiere. Megafauna. Un giorno la ragazza cadde in un pozzo di 30 metri. Si ruppe il bacino. Forse morì sul colpo. Forse no. Poi si sciolsero i ghiacci. Il pozzo diventò una tomba subacquea.

Per i paleontologi si tratta del più antico scheletro mai ritrovato di un Nativo americano. E in questo scheletro c’è una risposta in più. Il problema più serio dei paleontologi è che i crani dei primi abitatori americani non somigliano a quelli dei Nativi attuali. I Nativi attuali hanno tratti asiatici. Gli scheletri dei primi Americani no. Somigliano ai caucasici o agli australiani o ai polinesiani. Anche la ragazza dello Yucatan non ha tratti asiatici.




I sommozzatori che l’hanno scoperta l’hanno chiamata Naia. Dai suoi molari si è estratto il DNA mitocondriale e si è scoperto che è imparentata con i Nativi attuali. Questo significa solo una cosa. Che i Paleoamericani vengono dalla Beringia e che in Beringia e nel resto del continente si sono diversificati intorno a 9.000 anni fa. Un unico ceppo. E in tempi relativamente brevi un mosaico di popoli diversi.

Scendemmo nelle terre sotto i ghiacciai e li vedemmo. Alcuni li conoscevamo. Molti erano nuovi. Imparammo a cacciarli. Alcuni cacciavano noi. Seguimmo le loro piste. Conoscevamo terreni e nascondigli. Gli accampamenti erano ricchi di carne e pellicce. Poi cominciarono a diminuire. I grandi elefanti scomparvero. I cervi e i caribù diventarono sempre più piccoli. Ma erano ancora numerosi. Come gli insetti nella tundra. Innumerevoli e selvaggi. La loro storia era la nostra.




Intorno a 10.000 anni fa la megafauna cominciò a estinguersi. Negli anni Settanta del Novecento Paul Martin avanzò l’ipotesi che fosse colpa dell’uomo. L’overkill  hypothesis sostiene che i Paleoamericani si abbandonarono a una mattanza illimitata. Un po’ come l’uomo bianco con i bisonti delle Grandi Pianure. L’idea traeva rapide conclusioni da un fatto facilmente osservabile: l’inizio dell’estinzione e l’arrivo dell’uomo coincidono temporalmente.

Alcuni nuovi studi climatologici stanno però iniziando a proporre una narrazione diversa dei dati. Analisi comparate al radiocarbonio hanno mostrato che nel nordest del continente i siti dei primi Americani sono più recenti dell’estinzione. La megafauna aveva cominciato a contrarsi intorno a 14.100 anni fa per poi crollare verticalmente intorno a 12.700 anni fa. Animali e umani convissero ancora per circa un millennio ma l’estinzione era già al suo culmine. Il secondo crollo coincide poi con l’inizio di un episodio climatico freddo (Dryas recente) cui seguì un generale riscaldamento del pianeta (Olocene). Queste rapide e drammatiche fluttuazioni portarono la megafauna a un punto di non ritorno. L’uomo ha dato solo il colpo di grazia.




Le immagini del villaggio di Shishmaref in Alaska hanno fatto il giro del mondo.

Case come scatole di cartone in bilico su un gradino di terra addentata dal mare. Da un lato il livello delle acque marine si è innalzato. Dall’altro lo scioglimento del permafrost ha trasformato le coste in montagnole di sabbia infradiciate dai marosi. In primavera e in estate si perdono ampie falde di terra. Franano come blocchi di farina. Terreni paludosi e impraticabili. Piste della selvaggina che scompaiono. Diminuzione delle specie autoctone. Arrivo di specie esogene. Ghiaccio marino troppo sottile. Estati sempre più calde. Il villaggio di Newtok è il prossimo. L’acqua si fa strada ogni anno di più verso il grappolo di case. Striscia centimetro dopo centimetro come un grosso animale liquido. Viene dai fiumi che hanno sponde sempre più larghe. Viene da sotto come una spugna che si gonfia. Il permafrost si scioglie e il terreno sprofonda. I prati sono trappole vischiose. Per non finirci dentro gli abitanti hanno costruito ovunque delle passerelle di legno. Come zattere tra le case. Intanto le fondamenta non reggono. Entrare e uscire dal villaggio è un’impresa. Non ci sono più i campi di bacche.

L’Artico è in prima linea negli scenari dell’effetto serra. Si sta scaldando tre-quattro volte più rapidamente del resto del pianeta. Come la carcassa di un mammifero marino in stadio di decomposizione avanzata è pieno di liquidi e gas.




…Si dice che talvolta la Natura difetta in taluni se pur l’opera apparentemente compiuta… abdicando ad un ‘vuoto sguardo’ ciò che seppur, dicono, da Lei nato, seppur da un esame più attento anche lui da qualcosa certamente creato…




Un incontro casuale ad una ‘conferenza accademica’ degli anni 50 (del 1900) sulla datazione al radiocarbonio portò ad una spedizione improvvisata sul campo nel Grande Bacino del Nevada con un altro partecipante, il Viaggio segnò l’inizio della carriera accademica di Broecker come ricercatore sul campo; da allora prese parte a spedizioni scientifiche nell’Oceano Atlantico e nel Pacifico, nelle Bahamas, nella Sierra Nevadas, nella costa della California, nelle Barbados, in Groenlandia, in Canada - anzi, quasi in tutto il mondo.  

Molti dei miei contemporanei orientati al laboratorio hanno prestato scarsa attenzione alle osservazioni sul campo,

…afferma Broecker,




Quindi, a differenza di molti dei miei colleghi, ho imparato a mettere insieme ‘mele e arance’ - vale a dire osservazioni sul campo e in laboratorio.

Questa capacità di comprendere sia le ‘mele che le arance’ è stata fondamentale in ciò che, per il pubblico popolare, fu ed è l’indiscussa fama di Broecker:

il suo lavoro sul riscaldamento globale.

Per i primi due decenni della sua carriera professionale, Broecker era stato principalmente interessato a come gli oceani assorbivano CO2.

L’interesse nacque quando uno scienziato danese pubblicò un articolo circa la calotta di ghiaccio della Groenlandia con i profondi ‘carotaggi’ che erano stati ricavati nei rilevamenti, i quali consentirono agli scienziati di tracciare i CO2 ‘estrapolati’ dal ghiaccio per riuscire a determinarne una cronologia precisa dei periodi di riscaldamento e raffreddamento, questa ‘ricerca’ spinse Broecker a iniziare ad esaminarne gli effetti della CO2 nell’atmosfera.









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