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Bicicletta (34)
Il Decimonono secolo, che può veramente dirsi benemerito nella storia dei
popoli, poiché vide sorgere ed affermarsi le maggiori e le più utili concezioni
del genio umano, comprende certamente tutto il periodo storico del ‘velocipedismo’.
Il
ciclismo, nel senso preciso della parola, venne assai più tardi, e si affermò
come sport e come abitudine solo dopo l’invenzione della bicicletta. L’invenzione
del ‘velocipiede’, per quanto ci è noto, data da tempo
relativamente non lontano. Nulla ci conforta a ritenere che nei tempi antichi
alcuno abbia avuta l’idea di creare un veicolo direttamente posto in azione
dalla forza muscolare dell’uomo, né gli archeologi hanno voluto darsi fino ad
oggi pensiero di ricercare nella notte dei tempi la prova ipotetica di un
simile avvenimento, affatto trascurabile da molti punti di vista, e soprattutto
da quello… archeologico.
E poiché
nessuno papiro fino a noi giunse e nessun venerabile monumento rimase ad
attestare l’esistenza di un ‘velocipiede’ assiro o egizio, o
semplicemente greco o romano, noi dobbiamo pure, risalendo a traverso i tempi,
arrestarci a poco più di due secoli da oggi, al 1693, per ritrovare la prima notizia
attendibile di una velleità a ribellarsi al tardigrado destino che la misura impose
all’homo sapiens, mentre tanti altri animali della creazione nacquero e nascono
dotati di mezzi sufficienti a concedere loro naturalmente una facile e notevolissima rapidità di moto.
E se dalla
antica invidia dell’uomo primitivo per l’aquila dal volo maestoso e per la gazzella
agilissima possono aver tratto origine, a traverso infinite creazioni e
trasformazioni, anche il pallone dirigibile e l’aeroplano che già oggi afferma
la meravigliosa possibilità di un principio che sovrasta – è veramente il caso
di dirlo – alla vita intensa del ventesimo secolo, è non meno certo che nella
istoria del ‘velocipedismo’ il primo timido
tentativo può essere paragonato anche alla più modesta delle attuali biciclette
come la catapulta e lo specchio ustorio agli odierni formidabili mezzi di
offesa e di distruzione.
Nel
1300-1600 poche ed incerte sono le notizie
che risalgono a quell’epoca. Si tratta generalmente di vetture primitive a
forza di braccia, con bastoni o rudimentali congegni di corde e leve. Certo è
che i primi tentativi non sopravvissero ai loro inventori specialmente per l’enorme
peso e l’eccessiva complicazione. Tuttavia nella
biblioteca di Wolfenbuttel, in Germania, si conserva un
manoscritto, che farebbe risalire fino al XIV secolo, e che descrive una
specie di ‘velocipiede’ a quattro ruote, guidato
per mezzo di un manubrio.
E nella
cronaca della città di Meiningen esumata dal dott. Schozer, si ricorda che al 9 di gennaio del 1447…
Venne per la Kalchsthor
fino al mercato, e di nuovo se ne andò, una carrozza perfetta nelle sue parti,
non tirata da cavallo o da bue; essa era coperta, e dentro vi si vedeva il
‘maestro’ che l’aveva costruita e che con meccanismo interno la dirigeva.
Del 1625 abbiamo, più che una memoria, una leggenda. Secondo
l’inglese Henry Fetherstone, il gesuita Ricius avrebbe discesa la riva del
Gange, da Chinchiang-fu a Checkiang-ham-tcheu, a cavalcioni di un apparecchio
da lui inventato, composto di tre ruote ineguali complicate con leve e barre.
Una cronaca
di Norimberga ricorda pure che verso il 1649 un tal Hans Hautsch
abbia inventato un congegno mosso da ingranaggi che percorreva duemila passi
l’ora e poteva arrestarsi e mettersi in moto a capriccio di chi lo guidava. Si
dice pure che tale congegno sia stato venduto a Stoccolma al principe Carlo
Gustavo e che l’inventore abbia provvista anche una berlina di gala, del
sistema medesimo, alla Corte Danese.
Sembra al
contrario veramente storico il tentativo di certo dott. Richard, francese, medico
alla Rochelle, nato nel 1645 e morto nel
1706,
vittima della sua medesima invenzione. L’illustre Ozanam, membro della Academie
Royale des Sciences, citava, in un suo rapporto alla Accademia medesima una
sorta di macchina, sufficientemente pesante, che aveva in compenso il difetto
di non potersi muovere che se un terreno liscio e piano.
Della
moderna automobile questo apparecchio può dirsi precursore – ben che azionato
dalla sola forza umana – poiché la storia dice che esso finì fracassato, in
fondo a una ripida discesa, in uno col suo inventore.
Vogliamo
riportare testualmente la descrizione di questa macchina, data da Ozanam nella
relazione citata:
Un valletto, collocatosi sulla parte posteriore
della vettura, la spingeva avanti appoggiando i piedi alternamente su due pezzi
di legno, collegati a due ruote che agiscono sull’asse della vettura stessa.
Si ha poi
una vaga nozione di uno Stefano Farfler o Tarflersh orologiaio d’Aldorft che nel 1703, essendo sciancato, avrebbe costruito per recarsi alla
chiesa una specie di ‘triciclo velocimane’. Si dice che
l’arcivescovo abbia concesso molte indulgenze al pio inventore. Ma anche questa
notizia deve accogliersi con ogni riserva, non essendo essa provata o suffragata
da disegni o documenti attendibili.
Bachaumont
ricorda pure i tentativi fatti da altri,
in Francia, al principiare del XVIII
secolo,
con vetture e congegni diversi, mossi dalla sola forza muscolare dell’uomo, e
narra che allora gli inventori richiesero al Reggente il permesso di farne…. una
esposizione! Il permesso fu loro negato, ma non per questo diminuirono le
smanie e il numero degli inventori, imbevuti di false teorie e legati alla
utopia dei congegni inutili, complicati e pesanti.
Nondimeno, sotto Luigi XVI, qualche altro parto mostruoso e informe degli
inventori poté, se bene fuggevolmente interessare la frivola Corte di
Versailles. Altre esperienze, in questo volger di tempo, si sarebbero fatte in
Italia: a Genova, Padova e Bologna; però nessun nome e nessuna memoria precisa pervenne
sino a noi. L’Inghilterra, che tanta parte e tanto cospicua ebbe poi nella
costruzione dei velocipedi, ricorda la macchina di certo John Vevers, ed altri
minori e trascurabili tentativi.
D’altronde,
di tutte queste curiose invenzioni nulla è rimasto. Nulla che potesse dirsi
utile e geniale, non un avantreno articolato e libero, non un ingranaggio, non
un principio di meccanica anche rozza e infantile che la scienza moderna abbia
potuto, sia pure trasformandolo e migliorandolo, studiare e applicare!
Ogni pagina
della storia del velocipedismo, nel primo periodo storico, dimostra
luminosamente l’assoluta esattezza di un assioma principe della scienza
meccanica, oggi da tutti riconosciuto: una invenzione non vale e non dura che
per la sua semplicità.
Tutti i
tentativi che abbiamo finora numerati ci presentano solo dei veicoli a tre,
quattro o più ruote. La costruzione di macchine a due ruote collocate l’una
dietro l’altra veniva a sopprimere molti dei gravi inconvenienti dei precedenti
modelli, quali l’eccessivo peso e i numerosi attriti, ed apriva la via a quella
serie di modificazioni per cui i velocipedi giunsero alla perfezione odierna.
A chi per
primo sia venuta questa idea non è ben certo.
I célerifères, le draisiennes e gli hobby-horses ne rappresentano però
indubbiamente le prime applicazioni. Il periodo veramente storico ha pertanto inizio nel 1790, con la creazione di un nuovo tipo di macchina
che tutti gli autori sono d’accordo nel ritenere il capostipite del velocipedismo.
Ne fu inventore, a quanto si afferma e si ripete, un signor de Livrac o de
Civrac, francese, che la battezzò celerifero.
I celeriferi si componevano di due ruote di legno
poste l’una dietro l’altra e collegate mediante spranghe su cui era appoggiato
una specie di rozzo cavalluccio, o un leone; il cavaliere lo inforcava e a
forza di spinte alternate dei piedi sul terreno riusciva a mettere in moto la
pesante macchina di legno. L’equilibrio era in certo modo ottenuto appoggiandosi
con le mani alla testa del cavallo o del leone: si dice tuttavia che le cadute
non mancassero. Per lungo tempo il celerifero non subì altri
cambiamenti che quello d’aver trasformato il nome in velocifero (mentre era detto
‘velocipede’ la persona che lo montasse), e lo ritroviamo nelle caricature degli ultimi
anni della rivoluzione francese, e sotto l’Impero.
Nel 1800 abbiamo ricordate – e la data e l’avvenimento meritano
veramente di esserlo – le prime corse velocipedistiche, fatte con celeriferi, ai Campi Elisi di Parigi. La cronaca parla di
vere e proprie scommesse; la modernità si avvicinava evidentemente a gran
passi, con i bookmakers e i totalizzatori…
(Prosegue con la Bicicletta!)
(Prosegue con la Bicicletta!)
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