lunedì 8 ottobre 2012
IO POVERO PAGANO
Precedenti capitoli:
eremiti nella taiga 17 &
eremiti nella taiga 18
.....Sono rimasta ancora diverse settimane nel Tajmyr e ho fatto un catalogo completo
di tutte le parole che Ivan conosce.
Purtroppo, il suo vocabolario è molto limitato.
Ma grazie ad alcuni radicali sono riuscita a costruire delle ipotesi etimologiche.
Saranno da verificare.
Dare la caccia alle parole era diventato il nostro gioco.
Andavamo in giro per le foreste e Ivan nominava in vostiaco quel che vedeva. Era
felice quando ricordava una parola (scolastica....scolastico.....filos...), il nome di un
albero, di un oggetto. Sapeva di farmi piacere e correva a dirmela tutto contento.
Me le offriva, le sue parole.
Come regali.
Quest'uomo deve aver sofferto molto e sento ancora incombere su di lui il male che
ha patito. Talvolta si incupiva senza motivo. Come se lo assalissero immagini di cui
non riusciva a liberarsi.
Allora correva via, solo nei boschi.
In certi momenti mi sembrava di avere a che fare con un bambino. Sprovveduto,
ingenuo, incapace di estendere un ragionamento alle diverse forme della realtà.
Eppure sa confezionare archi, conciare pelli, tendere trappole. Nel più sperduto
bosco si orienta come una bussola. Fiuta nell'aria gli odori più lontani e riesce a se-
guirli. Ma la sua intelligenza sembra piatta.
Si muove solo in una direzione fra le cose che conosce.
Mescola realtà e visione.
Quando non capisce qualcosa, prende subito paura.
Dopo tanta neve, la mattina della partenza un sole gelido era apparso e la foresta
si era tinta d'una luce rosa. Aspettando la corriera che ci doveva portare a Norlisk,
davanti alla finestra della taverna, ammiravo in silenzio le forme degli alberi carichi
di neve.
La padrona aveva appena acceso la stufa e un odore di resina si era sparso per la
stanza. La grossa pentola d'acqua per la zuppa si mise presto a bollire e il vapore
ricoprì lentamente ogni vetro.
Era un'ora vuota e languida, propria alla malinconia.
Seduto per tera, Ivan guardava assorto la luce abbagliante. Assieme al suo sacco
di pelle, aveva portato giù dai boschi un tamburo di pelle di renna. Se lo teneva al
petto e ci allargava sopra le mani.
Mi avvicinai, mi sedetti accanto a lui.
C'era qualcosa che non gli avevo ancora spiegato.
Gli dissi che io non abitavo in quella locanda, ma in una città lontana. Che dopo
il nostro viaggio a Helsinki non sarei tornata con lui nelle foreste del Tajmyr.
Allora il vostiaco mi rivolse uno sguardo smarrito.
Fissò corrucciato le mie valigie, scrutò i miei abiti cittadini, così diversi da quelli
frusti che indossavo di solito al villaggio. Scuoteva la testa, si ritraeva come se
non volesse sentirmi.
Provai a rassicurarlo dicendogli che sarei venuta ogni tanto a trovarlo.
Mi promise che se era perché non sapeva più parole nuove che me ne andavo,
se ne sarebbe fatte dire altre dai lupi.
Loro ne conoscevano tante ma bisogna riuscire a farli parlare di nuovo, mi spiegò
volgendo gli occhi tristi verso la foresta.
Sospirò.
Voleva chiedermi qualcosa che non sapeva dire.
Abbozzò qualche vuoto gesto e infine lasciò ricadere le braccia scoraggiato.
Cercava di capire quanto lontano sarei stata dalle sue montagne e misurava nella
sua mente distanze per lui inconcepibili.
Dalla penombra mi fissava e senza vederlo sentii che piangeva.
Dopo qualche istante, infilò la sua giubba, prese sacco e tamburo e uscì.
Si fermò in un punto rialzato, tirandosi il tamburo sul petto.
Sapevo che non voleva vedere nessuno quando suonava.
Allora rimasi in disparte, dietro un tronco.
Lo vidi accovacciato nella neve e indossare una maschera di scorza di betulla che
aveva preso dal sacco di pelle. Non l'avevo mai notata fra le sue cose.
Rimase a lungo immobile.
Poi cominciò a battere le mani sul tamburo sempre più forte, con colpi radi e pro-
fondi. In quel ritmo sentii Ivan ingaggiare una lotta, come se ripetendo senza sosta
il suo battito regolare e pulito volesse scacciare la disarmonia dal mondo e impri-
mervi il metro cadenzato della sua musica...
Ebbi l'impressione di sentire la materia tutta accordarsi al tamburo di Ivan e pulsa-
re con lui. Unanime saltare dentro il suo passo, accompagnarlo per un tratto e poi
scardinarsi di nuovo crollando nell'inguaribile disordine del mondo......
Il vostiaco cantava parole, rime, dialoghi, concetti....che non avevo mai sentito.....
(D. Marani, L'ultimo dei vostiachi)
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