CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

giovedì 4 maggio 2023

UN CASO DEL TUTTO ITALIANO, ovvero, LO SMEMORATO DI COL-LEGNO

 









Da precedenti appunti 


Crescita e Forma [1]


Intelligenza e Memoria 


artificiale [2]


Le 'Lettere' e i 'Numeri' [3]


Prosegue con la: 


...Lettera & 


Chi sono or dunque io?








Il 10 marzo del 1926, alle 9,50 del mattino, il custode del cimitero israelitico di Torino Tommaso Cibrario vide un uomo ‘d’aspetto miserabile’ avviarsi, frettoloso e guardingo, verso l’uscita. Poiché dai primi del mese vasi funerari di bronzo erano scomparsi dalle tombe, il custode ebbe il sospetto che quell’uomo ne avesse appena trafugato uno: sospetto avvalorato dal fatto che quella miserabile figura appariva deformata da un ventre enorme, a stento contenuto da un miserabile pastrano. Gli intimò di fermarsi e corse a raggiungerlo.




L’uomo si diede alla fuga, ma fu dal Cibrario raggiunto e fermato. Dal pastrano sortì, come il custode si aspettava, il vaso di bronzo. In dialetto piemontese l’uomo disse: ‘signore, non mi rovini’; ma il custode lo consegnò alle guardie municipali Giovanni Roncarolo e Mariano Bruno, che lo accompagnarono alla loro caserma. Si tentò di verbalizzare l’accaduto, ma l’uomo rispondeva alle domande con frasi prive di senso. Pochi minuti prima, pregando il custode del cimitero di non rovinarlo, aveva mostrato di essere perfettamente in sé e di rendersi conto della rovina cui andava incontro con l’accusa di furto, e sacrilego per di più; ora sembrava invaso da follia: nello sguardo, nei gesti, nelle parole.




 Le guardie municipali lo accompagnarono in questura; e ancor più l’uomo si fece smanioso, agitato, violento. Tentò di precipitarsi dalle scale e di battere la testa contro il muro. Perquisito, altro non gli trovarono che un dattiloscritto, datato da Costantinopoli il 10 agosto 1924, con indicazioni relative alla possibilità di penetrazione commerciale in Turchia; un foglio scritto a lapis, di invettive contro la società, le istituzioni e i preti; una cartolina illustrata – fiori – senza indirizzo e con queste parole tracciate da mano infantile: ‘Al mio caro babbo: accetta gli auguri di un buon giorno onomastico che di cuore ti invia il tuo affezionatissimo Giuseppino’, ed altri appunti ritenuti ereticali, non fu’ facile tradurli!




 Senza documenti d’identità, senza memoria, agitato al punto che non lo si poteva lasciar solo, quell’uomo costituiva per la questura di Torino (come dell’intero Regno Italiano) un problema da risolvere con urgenza, ladro o pazzo che fosse, ladro e pazzo. Fu fotografato di fronte e di profilo, gli presero le impronte digitali. Nel frattempo, arrivò il dottor Biei, medico della questura: e non ci vuol molto a immaginare che, sentito come l’uomo si era comportato e gettatagli un’occhiata distratta, gli venisse facile diagnosticare ‘sintomi di alienazione mentale con propositi di suicidio’ e, conseguentemente dichiarandolo ‘pericoloso a sé e agli altri’, ne ordinasse l’immediato e provvisorio ricovero in manicomio.

 

E così, alle ore 14 dello stesso giorno, al vicino manicomio di Collegno lo sconosciuto fu accompagnato.




Del suo passaggio in questura restarono però due tracce, due distinti fascicoli: uno numerato 9175 e con la dicitura ‘arresto di un individuo che rubava al cimitero israelitico’, un altro numerato 20-126 e con la dicitura ‘arresto di un individuo che commetteva atti di pazzia’.

 

La sentenza di più che due anni dopo, e che veniva a cadere sul caso, diventato ben più complesso e ribollente di passioni, dello smemorato di Col-legno, dirà: ‘è naturale che l’individuo oggetto prima di arresto per furto, poi di provvedimento di ricovero al manicomio, avesse intitolati a sé due fascicoli, uno presso la Polizia Giudiziaria e l’altro presso la Polizia Amministrativa’; ma a noi tanto naturale – e cioè logico – il fatto non appare, anche se siamo disposti a riconoscere alla burocrazia una natura a sé, e imperscrutabile.




 Infatti, se per curiosità storica si volesse ricostruire l’attività della questura di Torino nella giornata dal 4 al 10 maggio 1926, il risultato oggettivo sarebbe questo:

 

che quel giorno non una ma due persone non identificate vi passarono: una accusata di furto, l’altra in preda a follia. Naturale il fatto può invece dirsi per il corso che la vicenda poi ebbe: e cioè in ordine alla fantasia. Prassi o errore che fosse della memorizzazione burocratica, quei due distinti fascicoli ponevano il caso sotto il segno dell’ambiguità, dell’ambivalenza, dello sdoppiamento o dimezzamento; e lo destinavano a prender nome – e poi forma – dallo scrittore che nella realtà di quegli anni, nella vita di quegli anni, aveva inventato (inventare: ‘la forza innovatrice, perfezionatrice, che è nel trovare, condotta al sommo, resa feconda sì che possa creare...’) casi a questo rassomiglianti o consimili.

 

Casi pirandelliani.




A Collegno, i medici diagnosticarono ‘stato confusionale depressivo’ e ne diedero comunicazione agli uffici giudiziari, che ne presero atto e trasmutarono il ricovero dello sconosciuto in manicomio da provvisorio in definitivo.

 

Ma la decisione veramente definitiva, cioè la scelta tra il mandarlo in carcere e il farlo restare in manicomio, spettava al giudice istruttore: e fu presa il 27 maggio. Lo smemorato fu dichiarato non punibile per il furto commesso al cimitero israelitico e affidato al manicomio di Collegno per le cure necessarie e fino a quando non gli avvenisse di ritrovare memoria e ragione. Gli diedero un numero, il 44170: e fu, fino al 2 marzo del 1927, il suo nome.

 

Per quasi un anno, lo sconosciuto visse in manicomio come in un’oasi di serenità.




L’immagine dello sconosciuto apparve sul settimanale il 6 febbraio del 1927, in una rubrica che di solito s’intitolava ‘Chi l’ha visto?’ (e vi apparve, undici anni dopo, l’immagine del fisico Majorana). ‘Chi lo conosce?’, era questa volta la domanda del settimanale: e alla immagine aggiungeva descrizione e notizie:

 

‘Ricoverato il giorno 10 marzo 1926 nel Manicomio di Torino (Casa Collegno). Nulla egli è in condizione di dire sul proprio nome, sul paese di origine, sulla professione. Parla correntemente l’italiano. Si rileva (sic) persona colta e distinta dell’apparente età di anni 45’.




Parve a molti di riconoscerlo, poiché moltissimi erano i dati per dispersi nella guerra ’15-18 e non rari i casi di tardivi ritorni (di solito, però, dovuti a un felice smemorarsi, in terra straniera, tra le braccia di una donna). Tra i tanti che scrissero alla direzione del manicomio per avere più precisi ragguagli sullo smemorato o che al manicomio si recarono per vederlo fu il professor Renzo Canella, partitosi da Verona con la speranza di ritrovare il fratello professor Giulio, dato per disperso (poiché nessuno dei pochi superstiti lo aveva visto cadere) nella battaglia di Nitzopole – presso Monastir, in Macedonia – del 25 dicembre 1916.

 


Un neo sotto i baffi e una cicatrice al calcagno erano i contrassegni che al professor Renzo Canella avrebbero dato la certezza, che senza esitazioni lo avrebbero mosso al riconoscimento: ma lo smemorato non aveva né l’uno né l’altra. Vi si intrattenne lungamente a colloquio, però: parlando molto del fratello scomparso, del suo carattere, dei suoi studi, della famiglia – la moglie e due figli – che ancora, incrollabilmente, sperava nel ritorno del disperso.

 

Lasciando il manicomio di Collegno, la dichiarazione di Renzo Canella fu netta: non aveva riconosciuto nello smemorato il fratello Giulio. Ma nel viaggio di ritorno, rimemorando gesti e frasi dello sconosciuto, e nella suggestione della grande rassomiglianza fisica, la sua certezza cominciò a vacillare. Arrivato a Verona, a quel questore fece perciò una dichiarazione meno decisa: di non poter affermare che lo sconosciuto fosse il fratello Giulio. E da questa indecisione forse non sarebbe più uscito, se non avesse ricevuto dallo smemorato una lettera che voleva esser commossa e commuovere e che noi, oggi, non senza fastidio leggiamo:


[PROSEGUE CON LA LETTERA]








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