CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 24 maggio 2023

NEGLI STESSI ANNI

 

 







 

BREVE PREMESSA 


PRIMA DELLA 


SECONDA PARTE 


DI MEDESIMO ATTO            


Prosegue con uno o più 


Vermeer


 




 

Negli stessi anni, lo Stato celebrando lo Smemorato Sconosciuto Straniero, andava consolidando, attraverso una forma tirannica e assolutistica di governo, che dal velato - evolveva o regrediva - verso una forma dittatoriale seppur ben accolta ed accetta dai rimanenti governi d’Europa, miopi o ciechi verso l'imminente ed improprio ‘disegno’ di cui diverranno vittime di una nuova e più tragica guerra; ‘associati-dissociati’ al futuro nazismo da cui ogni Stato complice nel compromesso avversato...

 

Non meno dell’odierna ugual medesima politica ampiamente ‘votata’ in difetto della stessa, innestata nel breve disgiunto ‘secondo atto’ della perduta Storia e paradossalmente di nuovo abdicata alla perenne Memoria nella celebrazione da cui la Maschera.

 

E seppur celebrata ed in offerta nell’interpretazione dello Stato per ciò di cui difetta, ma non certo (lo Stato) di Diritto fondato sullo stesso; in quanto Essere tale implica una serie di principi accompagnati da altrettanti obblighi e doveri morali il quale lo stesso, abdicandoli o dandoli in appalto, ne compromette l’esercizio.

 

Ovvero, ne incarna la recitata ‘trama’  disgiunta dalla capacità interpretativa (per come lo Stato di Diritto fondato e costituito) la quale paradossalmente compie la mostruosità a Scena aperta.




Seppur ‘recita’ platealmente e con ampio profitto di replica con impareggiabile saggio interpretativo su ugual ‘scena’ del delitto, mascherando e in qual tempo giustificando, muovendo e non certo rimuovendo, ed accogliendo e non certo ‘cacciando’, platealmente quel populismo nel medesimo obiettivo di chi ne vuol ‘in-scenare’ ed interpretare, in nome e per conto della mafia, nuovi ruoli i più elevati meriti associati ed assisi sino alle più elevate e comode poltrone istituzionalizzate.  

 

Immemore dei propri ed altrui trascorsi, i quali rimembra e rinnova in disgiunta offerta alla medesima ugual Storia, al saldo della mafia con cui sembra riscrivere un nuovo e più ‘assolutistico concordato’, con la perenne benedizione della Cattolicissima comitiva della Chiesa, la qual anch’essa avendo perduto Memoria, medesima Memoria circa il Sacro in merito ad ugual Dio pregato, trova più conveniente associarsi al Bruneri tipografo di una diversa Storia non del tutto narrata, in difetto del professore non più accetto in ordine ad una diversa ricchezza acquisita…

 

 In quanto medesimi personaggi sembrano non solo ubicati in taluni posti di comando, o di propria ed impropria presunta Difesa verso (…o contrari… quindi avversi al)la Democrazia - nominata propriamente o non Italia -, difendere o aggredire oggi come allora, la perseguitata calunniata nonché taglieggiata Patria, congiuntamente messa al saldo ed in offerta in difetto di Storia (compresa ovviamente la perduta Memoria) ai grandi iper-mercati o simmetrici ‘vertici di comando’ posti congiuntamente in ugual gradi d’economica pretesa da cui il riconoscimento paradossalmente avverso ai processi della Storia…  




Formare i vertici di quello stesso Stato di (doppia) ‘deviata’ (mostruosa) natura il quale ebbe, se non erro, problemi di cementicata pretesa stragista. Ed il mio solo un (ap)punto di Memoria collettiva dismessa e perduta a beneficio di  innominati cortigiani segretari e dubbi trafficanti non meno di sottosegretari di cui le doppiezze di antiche parentele fasciste, poco o per nulla vengono rimembrate, quando la cementificata nostalgia stragista viene rinnovata come consolidata, quindi istituzionalizzata, prendere il sopravvento sulla Memoria collettiva, nella mostruosità per come dedotta e successivamente edificata ed interpretata la Storia senza un più elevato Diritto di Natura; ovvero ugual Storia celebrata nell’offesa perpetrata a danno di più noti martiri avversi alla Mafia! 

 

 

IL DOPPIO MOSTRUOSO 

 

 

La visitazione divina, nelle ‘Baccanti’, fa tutt’uno con la perdita dell’unanimità fondatrice e lo scivolare nella violenza reciproca. La trascendenza non può ridiscendere tra gli uomini se non ricadendo nell’immanenza, metamorfosandosi in una seduzione propriamente ‘immonda’.

 

La violenza (reciproca) distrugge tutto quello che la violenza (unanime) aveva edificato.

 

Mentre muoiono le istituzioni e i divieti che poggiavano sull’unanimità fondatrice, la violenza sovrana vaga tra gli uomini ma nessuno riesce a mettere le mani su di essa in modo duraturo. Pronto, almeno in apparenza, a prostituirsi agli uni e agli altri, il dio finisce sempre per sfuggire, seminando rovine dietro di sé. Tutti coloro che vogliono possederlo finiscono per uccidersi a vicenda.




Nell’‘Edipo re’, il conflitto tragico verte ancora o sembra vertere su oggetti determinati, sul trono di Tebe, sulla regina, che è anche la madre e la sposa. Nelle ‘Baccanti’, Dioniso e Penteo non si contendono niente di concreto. La rivalità verte sulla divinità stessa, ma dietro alla divinità non c’è che la violenza.

 

Rivaleggiare per la divinità è rivaleggiare ‘per niente’: la divinità non ha altra realtà che quella trascendente, una volta che la violenza sia stata espulsa, una volta che sia definitivamente sfuggita agli uomini. La rivalità isterica non genera direttamente la divinità: la genesi del dio si effettua per il tramite della violenza unanime. Nella misura in cui la divinità è reale, non è una posta in giuoco. Nella misura in cui la si considera una posta, essa è un’illusione che finirà per sfuggire a tutti gli uomini senza eccezione.

 

Ed è proprio a quest’illusione che, in ultima analisi, si aggrappano tutti i protagonisti tragici. Fin quando un individuo qualunque cerca di incarnare quella violenza, suscita rivali e la violenza rimane reciproca. Non resta che ricevere e dare botte. Proprio quel che constata il coro, che non vuole lasciarsi coinvolgere nel conflitto tragico.




Bisogna dunque guardarsi dall’interpretare tale conflitto a partire dai suoi oggetti, per quanto prezioso ci possa sembrare il loro valore intrinseco, siano essi il trono, per esempio, oppure la regina. ‘Le Baccanti’ ci mostrano che è opportuno invertire l’ordine consueto dei fenomeni nell’interpretazione della rivalità tragica. Prima viene l’oggetto, si crede, poi i desideri che convergono indipendentemente su tale oggetto in questione, e infine la violenza, conseguenza fortuita, accidentale, di questa convergenza. Man mano che si avanza nella crisi sacrificale, la violenza diviene sempre più manifesta: non è più il valore intrinseco dell’oggetto a provocare il conflitto, eccitando bramosie rivali, è la violenza stessa che valorizza gli oggetti, che inventa pretesti per meglio scatenarsi. E’ lei, oramai, a dirigere il giuoco; è la divinità che tutti tentano di padroneggiare ma che si fa giuoco di tutti successivamente, il Dioniso delle Baccanti.

 

[…..]

 

L’individuazione del doppio mostruoso permette di intravedere in quale clima di allucinazione e di terrore si svolga l’esperienza religiosa primordiale. Quando è al culmine l’isteria violenta, sorge ovunque nello stesso tempo il doppio mostruoso.

 

La violenza decisiva si compirà contemporaneamente ‘contro’ l’apparizione supremamente malefica e sotto la sua egida.




Alla violenza forsennata fa seguito una calma profonda; si dissipano le allucinazioni, la distensione è immediata, e rende più misterioso ancora l’insieme dell’esperienza. Per un breve attimo, si sono toccati tutti gli estremi, si sono fuse tutte le differenze; è sembrato coincidessero una violenza e una pace egualmente sovrumane. L’esperienza patologica moderna, invece, non comporta alcuna catarsi senza assimilare le due esperienze, occorre accostarle.

 

In numerosi testi letterari antichi e moderni figurano riferimenti al doppio, allo sdoppiamento, alla visione doppia.

 

Mai nessuno che li abbia decifrati.

 

Per esempio, nelle ‘Baccanti’ il doppio mostruoso è dappertutto. Sin dall’inizio dell’opera, si è visto, l’animalità, l’umanità e la divinità sono prese in una frenetica oscillazione; talora si confondono le bestie con gli uomini o gli dèi, talora invece si confondono gli dèi e gli uomini con le bestie. La scena più interessante si svolge tra Dioniso e Penteo, appena prima dell’uccisione di quest’ultimo, nel momento preciso, cioè, in cui il fratello nemico deve scomparire dietro al doppio mostruoso.




Ed è effettivamente ciò che accade. Parla Penteo; l’ha afferrato la vertigine dionisiaca; egli ‘vede doppio’:

 

 

PENTEO. E io, io credo di vedere due soli,

 

due volte Tebe e le mura dalle sette porte.

 

E te, io ti vedo come un toro che mi precede,

 

e due corna, così mi pare, ti spuntano dalla testa.

 

DIONISO. Tu vedi proprio quel che devi vedere.





In questo passo straordinario, il tema del doppio appare in un primo tempo in forma completamente esterna al soggetto, come visione doppia di oggetti inanimati, vertigine generalizzata.

 

Per ora abbiamo soltanto elementi allucinatori; certamente, fanno parte dell’esperienza, ma non ne costituiscono il tutto, e neppure l’essenziale. Man mano che si va avanti il testo si fa più rivelatore; Penteo associa la visione doppia a quella del mostro. Dioniso è uomo, dio e toro a un tempo; il riferimento alle corna del toro fa da ponte tra i due temi; i ‘doppi’ sono sempre mostruosi; i mostri sono sempre sdoppiati.

 

Il sorgere del ‘doppio mostruoso’ non comporta una verifica empirica diretta, come neanche, a dir il vero, l’insieme dei fenomeni sottesi a ogni religione primitiva. Persino dopo i testi sopra citati, il ‘doppio mostruoso’ conserva un aspetto ipotetico, come tutti i fenomeni associati al meccanismo della vittima espiatoria, di cui esso specifica taluni aspetti.

 

Il valore dell’ipotesi è accertabile in base all’abbondanza dei materiali mitologici, rituali, filosofici, letterari, eccetera, che sarà capace di interpretare, come pure in base alla qualità delle interpretazioni, alla coerenza che instaura tra fenomeni rimasti sino ad oggi indecifrabili e dispersi.




Aggiungeremo altri motivi a quelli che già militano in favore della presente ipotesi. Grazie ad essa è possibile delineare una prima interpretazione di due gruppi di fenomeni che sono da annoverare tra i più opachi di qualsiasi cultura umana: i fenomeni di ‘possessione’ e l’uso rituale delle ‘maschere’.

 

Sotto il termine di ‘doppio mostruoso’, classifichiamo tutti i fenomeni d’allucinazione provocati, al parossismo della crisi, dalla reciprocità misconosciuta. Il ‘doppio mostruoso’ sorge là dove si trovavano nelle tappe precedenti un ‘Altro’ e un ‘Io’ sempre separati dalla differenza oscillante. Si hanno due fuochi simmetrici da cui vengono emesse quasi simultaneamente le stesse serie di immagini.

 

Secondo ‘Le Baccanti’, osserviamo due tipi di fenomeni e devono essercene molti altri che possono susseguirsi rapidamente, trapassare gli uni negli altri, confondersi più o meno. Il soggetto, nelle ‘Baccanti’, percepisce in un primo tempo le due serie di immagini come egualmente esterne a sé; è il fenomeno della ‘visione doppia’. Subito dopo, una delle due serie è colta come ‘non-io’ e l’altra come ‘io’.

 

Questa seconda esperienza è quella del ‘doppio’ propriamente detto. Si colloca nel prolungamento diretto delle tappe antecedenti. Conserva l’idea di un antagonista esterno al soggetto, idea essenziale per decifrare i fenomeni di ‘possessione’.




Il soggetto vedrà la mostruosità manifestarsi in sé e fuori di sé a un tempo. Deve interpretare alla meno peggio quello che gli capita e finirà necessariamente per collocare fuori di sé l’origine del fenomeno. L’apparizione è troppo insolita perché non venga ricollegata a una causa esterna, estranea al mondo degli uomini. Tutta quanta l’esperienza è dominata dall’alterità radicale del mostro.

 

Il soggetto si sente penetrato, invaso, nel più intimo del proprio essere, da una creatura soprannaturale che lo assedia anche dal di fuori. Assiste inorridito a un duplice assalto di cui è vittima impotente. Non è possibile difesa alcuna contro un avversario che si fa beffe delle barriere tra il dentro e il fuori. La sua ubiquità permette al dio, allo spirito o al demone di assalire gli animi come più gli piace. I fenomeni cosiddetti di ‘possessione’ non sono altro che un’‘interpretazione’ particolare del ‘doppio mostruoso’.

 

Non ci si deve stupire se l’esperienza della possessione si presenta, di frequente, come una ‘mimesis’ isterica. Il soggetto sembra obbedire a una forza venuta dall’esterno; ha i movimenti meccanici di una marionetta. In lui si svolge un ruolo, quello del dio, del mostro, dell’altro che lo sta invadendo. I desideri si lasciano tutti prendere nel tranello del modello-ostacolo che li vota alla violenza interminabile.

 

Il ‘doppio mostruoso’ si presenta in seguito al posto di tutto ciò che affascinava gli antagonisti agli stadi meno avanzati della crisi; si sostituisce a tutto ciò che ciascuno desidera a un tempo assorbire e distruggere, incarnare ed espellere. La possessione non è altro che la forma estrema dell’alienarsi al desiderio dell’altro.




Il posseduto muggisce come Dioniso, il toro, o leone, fa finta di divorare gli uomini che gli vengono a tiro. Può persino incarnare oggetti inanimati. E’ al tempo stesso uno e parecchi. Vive o rivive la ‘trance’ isterica che immediatamente precede l’espulsione collettiva, il confondersi vertiginoso di ogni differenza. Ci sono culti di possessione con sedute collettive. Nei paesi colonizzati, o nei gruppi oppressi, è interessante osservare come talvolta a far da modello siano le personalità rappresentative della potenza dominante: il governatore, la sentinella alla porta della caserma, eccetera.

 

Ancora un’altra pratica rituale si chiarisce alla luce del doppio mostruoso, l’uso delle ‘maschere’.

 

Le maschere sono da annoverare tra gli accessori d’obbligo di numerosi culti primitivi, ma non possiamo rispondere con certezza a nessuna delle domande poste dalla loro esistenza.

 

Che cosa rappresentano, a che servono, qual è la loro origine?

 

Dietro la grande varietà degli stili e delle forme, deve esserci una unità della maschera alla quale siamo sensibili anche se non riusciamo a definirla. Mai, infatti, quando ci troviamo in presenza di una maschera, esitiamo a identificarla in quanto maschera.

 

L’unità della maschera non può essere estrinseca.

 

La maschera esiste in società molto lontane nello spazio, perfettamente estranee le une alle altre. Non è possibile far risalire la maschera a un centro di diffusione unico. Si sostiene a volte che la presenza quasi universale delle maschere risponde a un bisogno ‘estetico’.




I primitivi hanno sete di ‘evasione’; non possono fare a meno di ‘creare delle forme’, eccetera. Non appena ci si sottrae al clima irreale di un certo tipo di riflessione sull’arte, ci si accorge che questa non è una spiegazione vera.

 

L’arte primitiva ha una destinazione religiosa.

 

Le maschere devono servire a qualcosa di analogo in tutte le società. Le maschere non sono ‘inventate’. Hanno un modello che può, certo, variare da una cultura all’altra ma di cui certe caratteristiche rimangono costanti. Non si può dire che le maschere rappresentino il volto umano ma sono a esso quasi sempre legate, in quanto destinate a ricoprirlo, dargli il cambio o, in un modo o nell’altro, sostituirsi a esso.

 

Avviene per l’unità-diversità delle maschere lo stesso che per quella dei miti e dei rituali in genere. Non si può riferire che a un’esperienza reale, comune a buona parte dell’umanità e che ci sfugge completamente.

 

Come la ‘festa’ nella quale assume spesso un ruolo di primo piano, la maschera presenta combinazioni di forme e colori incompatibili con un ordine differenziato che non è, in primo luogo, quello della natura ma quello della cultura stessa.

 

La maschera unisce l’uomo e la bestia, il dio e l’oggetto inerte. Victor Turner, in uno dei suoi libri, menziona una maschera ‘ndembu’ che raffigura a un tempo una figura umana e una prateria. La maschera affianca e mescola esseri e oggetti separati dalla differenza. La maschera è al di là delle differenze, non si accontenta di trasgredirle o di cancellarle, se le incorpora, le ricompone in modo originale; in altre parole, fa tutt’uno con il ‘doppio mostruoso’.




Le cerimonie rituali che richiedono l’uso della maschera ripetono l’esperienza originaria. E’ spesso al momento del parossismo, appena prima del sacrificio, che i partecipanti indossano le maschere, perlomeno coloro che hanno nella cerimonia un ruolo essenziale. I riti fanno rivivere a quei partecipanti tutti i ruoli successivamente sostenuti dai loro antenati nel corso della crisi originaria.

 

In un primo tempo fratelli nemici, nei simulacri di combattimento e nelle danze simmetriche, i fedeli scompaiono in seguito dietro le loro maschere per tramutarsi in ‘doppi mostruosi’. La maschera non costituisce una comparsa ‘ex nihilo’; essa trasforma l’apparenza normale degli antagonisti.

 

Le modalità dell’uso rituale, la struttura in seno alla quale si inserisce la maschera, nella maggior parte dei casi, sono rivelatrici più di tutto ciò che coloro che l’indossano possano dirne al riguardo. Se la maschera è fatta per dissimulare tutti i visi umani a un determinato momento della sequenza rituale, è perché ‘la prima volta’ le cose sono andate così.




Occorre riconoscere nella maschera una interpretazione e una rappresentazione dei fenomeni da noi stessi descritti un po’ più sopra in modo puramente teorico.

 

Non c’è da chiedersi se le maschere rappresentino ancora uomini, o già spiriti, esseri soprannaturali. Tale domanda non ha senso che in seno a categorie tarde, generate da una differenziazione più spinta, vale a dire dal crescente misconoscimento di fenomeni che l’uso rituale della maschera permette, invece, di ricostituire.

 

La maschera si colloca all’equivoco confine tra l’umano e il ‘divino’, tra l’ordine differenziato che sta disgregandosi e il suo aldilà indifferenziato che è anche la riserva di ogni differenza, la totalità mostruosa dalla quale verrà fuori un ordine rinnovato. Non c’è da interrogarsi sulla ‘natura’ della maschera; è nella sua natura di non averne alcuna, poiché le ha tutte.

 

Come la festa e tutti gli altri riti, la tragedia greca inizialmente non è altro che una rappresentazione della crisi sacrificale e della violenza fondatrice. L’uso della maschera nel teatro greco non esige quindi nessuna spiegazione particolare; non si distingue assolutamente dalle altre consuetudini. La maschera scompare quando i mostri ridiventano uomini, quando la tragedia dimentica completamente le sue origini rituali, il che non vuol certo dire che abbia smesso di svolgere un ruolo sacrificale, nel senso lato del termine. Si è anzi completamente sostituita al rito. 


(R. Girard)


(PROSEGUE CON LA SECONDA PARTE, OVVERO, LA MEMORIA...)





 


 

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