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Jules Verne (2)
Al cinquantasettesimo minuto
secondo la porta del salone si aprì e il pendolo non aveva battuto il
sessantesimo secondo, che Phileas Fogg comparve, seguito da una folla delirante
che aveva forzato l’ingresso del Club, e con la sua voce calma: ‘Eccomi, o
signori’, diss’egli…
Tutto questo avveniva alle…, sotto la cupola con i vetri azzurri
sorretta da venti colonne ioniche di porfido rosso del Reform Club di Londra. L’imperturbabile
gentiluomo londinese ritornava dopo 80 giorni esatti ad annunciare di aver
vinto l’audacissima scommessa in cui aveva arrischiato metà della sua fortuna,
contro i banchieri John Sullivan e Samuel Fallentin, l’ingegner Andrew Stuart,
Gualtiero Ralph, amministratore della Banca d’Inghilterra e il birraio Tommaso
Flanagan.
…O almeno si immagina avvenisse nell’episodio conclusivo del celebre romanzo
di Jules Verne che era uscito appunto in quell’anno. E lo spiritoso e
avvincente racconto del Verne non era tanto sorprendente per le prodezze del
signor Phileas Fogg e del suo domestico parigino Gianni Gambalesta, ex sergente
dei pompieri, quanto per il fatto che il piano di viaggio proposto dal Morning
Chronicle era, più o meno, praticamente realizzabile: da una dozzina di anni
era aperto alla navigazione il Canale di Suez, nel 1867 era stato inaugurato il
collegamento ferroviario transamericano dell’Atlantico al Pacifico, nello
stesso 1872 era stato realizzato il collegamento dei due tronchi del ‘Great
Indian Peninsular Railway’ da Bombay a Calcutta, regolari servizi marittimi
celeri con i moderni ‘pacchetti a eliche’ univano l’Europa all'America,
l'America all’Asia, l’Asia all’Europa.
Il vapore e il telegrafo avevano unificato il mondo.
Se oggi possiamo sorridere dell’entusiasmo di Verne e dei suoi contemporanei
per i Cunarder che valicavano l’Atlantico alla velocità di 11 miglia marine all’ora,
o degli espressi con carrozze-letto che attraversavano l’America in una
settimana, v’è da dubitare se il passo più grande in materia di celerità di
comunicazioni, con tutto quel che consegue nell’assetto del mondo e della vita,
l’umanità l’abbia fatto dall’epoca del viaggio di Phileas Fogg alla nostra dell’aereo
supersonico, o non piuttosto nei trenta o quarant’anni che precedettero e che videro
l’instaurarsi della civiltà del vapore.
In quegli anni la macchina del progresso tecnico ha iniziato una fase di
movimento a velocità progressivamente crescente. E il momento della partenza è
sempre quello che richiede le maggiori energie e suscita le più intense
emozioni. Ecco perché l’eccentrico gentiluomo inglese che non viaggiava, descriveva
soltanto una circonferenza, era un corpo grave che percorreva un’orbita intorno
al globo terrestre secondo le leggi della meccanica razionale più che un remoto
antenato, ci sembra un nostro fratello, di poco più anziano, con le idee un
pochino antiquate e soprattutto dotato di una dose di ottimismo superiore alle
nostre abitudini.
Questo educato gentiluomo, nel romanzo stesso più simbolo che personaggio,
che parte per il giro del mondo armato soltanto d’un makintosh, del Bradshaw
(orario e guida generale delle ferrovie continentali e dei battelli a vapore),
di un fascio di banconote della Banca d’Inghilterra e della serena certezza che
l’imprevisto non esiste, rappresenta bene l’entusiastico ottimismo del suo
tempo, la convinzione che il mondo camminasse con l’ordinata regolarità di un espresso
transcontinentale, su una linea verso l’avvenire che bastava prolungare all’infinito,
aggiungendo con concorde operosità sempre nuovi tratti di binari rilucenti...
La prima volta che venne
circondata tutta la balla del mondo, per dirla con il Ramusio, fu soltanto poco
più di quattro secoli, fa’. Fu una impresa grande e tragica che procurò al suo
sfortunato protagonista fama di essere stato il più grande navigatore di tutti
i tempi.
Ferdinando Magellano,
portoghese, era partito con navi spagnole e al servizio della Spagna il 20
settembre 1519 dal porto di San Lucar di Barrameda. Diciannove mesi dopo il
capitano generale moriva in combattimento all’isola di Mactan. E appena il 6
settembre 1522, una sola delle cinque navi della spedizione, la Victoria, un
guscio di noce, con a bordo diciotto superstiti dei 239 marinai e ufficiali
partiti, ritornava al porto di San Lucar guidati da Sebastiano del Cano.
Il viaggio era durato poco meno
di tre anni ed era stato compiuto seguendo il cammino del sole, da oriente verso occidente, seguendo la costa dell’America
meridionale, percorrendo lo stretto che porta ancora il nome del valoroso
capitano generale, attraversando l’Oceano Pacifico e riguadagnando l’Europa
dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza.
La spedizione, che fu
probabilmente la più importante impresa geografica dopo la prima navigazione di
Colombo, diede, a conti fatti, anche un utile commerciale. I 533 quintali di
garofani portati in Spagna, nella stiva della Victoria, dalle isole delle
spezie, bastarono a ripagare, con ampio margine, le perdite di beni e di navi. Fra
i 18 superstiti della Victoria v’era anche quell’Antonio Pigafetta, patrizio vicentino
e cavalier di Rodi, che diè conto per iscritto del viaggio notando anche il
singolare fenomeno dello spostamento della data, che permise al Verne di
architettare il finale a sorpresa del suo romanzo e al suo eroe di vincere la
grossa scommessa che l’ottusa solerzia del poliziotto sembrava avergli fatto
perdere per dieci minuti.
Giunto alle Isole di Capo Verde il Pigafetta, che aveva compiuto il
giro del globo verso occidente, si accorse che il calendario di bordo era in
ritardo di un giorno rispetto a quello degli isolani.
‘Incaricammo i nostri del battello di chiedere, quando andavano a
terra, che giorno fosse: e ci dissero che per i Portoghesi era giovedì. Ci
meravigliammo molto perché per noi era mercoledì e non potevamo capire come mai
avessimo errato...’.
Se oggi a qualche altro gentiluomo libero di disporre del suo tempo come
Fogg venisse in capo di seguirne le orme, percorrendone lo stesso itinerario
per mare e per ferrovia, non v’è dubbio che porterebbe a termine la sua impresa
in un tempo alquanto inferiore.
Per la sua traversata dell’Atlantico da Nuova York all’Inghilterra il piano
di viaggio di ottant’anni fa prevedeva dieci giorni, mentre poche settimane fa’
il transatlantico americano United States ha conquistato il Nastro Azzurro
attraversando l’Atlantico in tre giorni, dieci ore e 40 primi. Infinitamente
minor tempo impiegherebbe poi se, fedele allo spirito di Fogg, usasse dei mezzi
più veloci del suo tempo.
Il signor Tom Lamphier, nel 1949, ha compiuto il giro del mondo servendosi
di aerei di linea in 4 giorni, 23 ore e 47 minuti. Tom ha seguito più o meno l’itinerario
del gentiluomo britannico: Londra-Siria-India-Hong-Kong-Tokio-San
Francisco-Nuova York-Londra, volando per 35.488 Km sui clippers della
Panamerican e della United Air Lines.
Oggi chi volesse provarsi ad imitare Tom Lamphier impiegherebbe cinque
giorni e 22 ore, via Manila, perché le compagnie aeree hanno allargato i tempi
di sosta agli aeroporti. Il viaggio costerebbe 1700 dollari: una bella
sommetta, ma certo di molto inferiore alle 19.000 sterline profuse da Fogg, per
portare a termine il suo viaggio. Se
poi si trovasse qualcuno disposto a ripetere esattamente il cammino e le
avventure di Fogg e del fido Gambalesta, incontrerebbe serie difficoltà
organizzative non fosse altro nel trovare indiani Sioux disposti ad attaccare l’espresso
intercontinentale e yankees che gli offrano di attraversare la prateria in
slitta a vela....
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