CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

venerdì 24 ottobre 2025

DIFFERENZA FRA ERETICI e CIARLATANI, ovvero, IL GUANTO RITROVATO

 


















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& Giuliana 'Facciatonda' (6)











La Dia ha notificato la misura degli arresti domiciliari a Filippo Piritore, ex funzionario della squadra Mobile di Palermo ed ex prefetto.

 

Lo rende noto la procura di Palermo. Piritore è indagato per il depistaggio delle indagini sull’omicidio dell’ex presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella.

 

Sentito dai pm sul guanto trovato il giorno del delitto a bordo della Fiat 127 utilizzata dai killer, mai repertato né sequestrato, secondo i magistrati ‘ha reso dichiarazioni rivelatesi del tutto prive di riscontro, con cui ha contribuito a sviare le indagini funzionali (anche) al rinvenimento del guanto (mai ritrovato)’.

 

‘Il fatto’ - si legge nella nota della procura guidata da Maurizio de Lucia – ‘si colloca nell’ambito delle indagini che l’ufficio conduce con riferimento all’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, evento che, per la qualità della carica che la vittima svolgeva, assume evidente carattere di ragione di specifico interesse pubblico’.

 

Il guanto, ritenuto un tassello importantissimo per risalire agli autori dell'omicidio, è sparito nel nulla. Ai pm, che l’hanno sentito come testimone a settembre del 2024, Piritore ha raccontato - mentendo secondo la procura di Palermo - di aver inizialmente affidato il guanto all’agente della polizia scientifica Di Natale che avrebbe dovuto darlo a Pietro Grasso, allora sostituto procuratore titolare delle indagini sul delitto.

 

Il magistrato, sempre secondo il racconto di Piritore, avrebbe poi disposto di fare riavere il reperto al gabinetto regionale di polizia scientifica e Piritore, a quel punto, lo avrebbe consegnato, con relativa attestazione, a un altro componente della Polizia scientifica di Palermo, Lauricella, per lo svolgimento degli accertamenti tecnici. L'indagato ha anche sostenuto che la Squadra mobile era in possesso di una annotazione da cui risultava la consegna.

 

Secondo l’accusa, però, quella raccontata dall’ex funzionario sarebbe una storia inverosimile e illogica da cui verrebbe fuori che una prova decisiva, tanto che della sua esistenza fu informato anche l’allora ministro dell'Interno Rognoni, sarebbe stata sballottata per giorni senza motivo da un ufficio a un altro. Le parole dell’ex funzionario, inoltre, cozzano con le testimonianze dei protagonisti della vicenda come Piero Grasso e l’agente Di Natale; con la prassi di repertare e sequestrare quanto ritenuto utile alle indagini seguita all'epoca in casi analoghi e col fatto che al tempo, alla Scientifica, non c’era nessun Lauricella.

 

‘Filippo Piritore, consegnatario del guanto sin dal momento del suo ritrovamento, pose in essere un'attività che ne fece disperdere ogni traccia - gli contestano invece i pm - Essa iniziò probabilmente a partire dall'intervento sul luogo di ritrovamento della Fiat 127, ove indusse la Polizia scientifica a consegnargli il guanto, sottraendolo al regolare repertamento e contrariamente a ciò che di norma avveniva in tali circostanze’. 

 

Il pm: ‘Le indagini inquinate da pezzi delle istituzioni’

 

 Le indagini sull’omicidio dell’ex presidente della Regione Piersanti Mattarella furono gravemente inquinate e compromesse dai appartenenti alle istituzioni che, all’evidente fine di impedire l’identificazione degli autori del delitto, sottrassero dal compendio probatorio un importantissimo reperto, facendone disperdere definitivamente le tracce’.

 

Lo scrivono i pm della Dda di Palermo che hanno ottenuto dal gip i domiciliari per depistaggio dell’ex funzionario della Squadra Mobile Filippo Piritore. Il riferimento è al guanto in pelle trovato nella 127 usata dai killer del politico sulla cui sorte l'ex prefetto avrebbe mentito.

 

Da non perdere!









Alla morte di don Chisciotte ciò che ricordiamo di lui, oltre penna e pennello esposti alle vicissitudini del Tempo, evoluto se pur immobile, osservato nell’orbita da chi mirabilmente lo ha (ri)creato dipinto e ben ritratto, l’apparente ‘pazzia’  nella dolente nota biografica accomunare l’Eresia alla Verità negata allo stesso, lento scorrere ai capricci del vento così come ogni Elemento ed ogni Straniero scagliarsi al mulino della inesorabile sua ed altrui evoluzione: minuti ore secoli numerati e transitati, ère immuni alla Verità così come la Ragione ed ogni Eretico rincorrere la propria Visione… immune al Tempo con solo negli occhi l’orrore del presente!

Fedele alla solitaria Dottrina negata derisa e perseguitata, combattuta fra Monopodio ed il triste Tempo numerato, e l’‘esule’ vittima d’ogni visibile invisibile reato da cui deriso e perseguitato; giacché chi afferra il senso nonché sottile ‘quadro’ della metafora qual dettaglio della dovuta congiunzione intuirà anche, che i favori del Secolo ogni Secolo conservato e dipinto maggiormente incline a Monopodio accompagnato da tutti i personaggi che lo omaggiano e proteggono, in Primo Piano o sullo sfondo comporre l’eterno panorama della Storia a voi narrata e felicemente vissuta…  

Dividere, per l’appunto, Infinito e Tempo…

Nella prospettiva con cui deriso descritto e ritratto…




La postura, si prenda dovuta nota nella differenza, che intercorre fra la postura detta e l’impostura, si compone nel mirabile ritratto che si conviene al gentiluomo virtuoso: lo sguardo è fermo, rivolto a noi, o meglio a voi, al vostro felice Tempo così mirabilmente transitato ciarlato vilipeso non meno che perseguitato, Rembrandt non distante negli anni dalle tristi vicissitudini del Cervantes, ci tramanda un mirabile dettaglio: il gentiluomo Six si sta sistemando il guanto con cui si predispone alla ‘vista’ dello spettatore, del resto chi lo osserva appartiene a ben vedere al Tempo transitato per ogni museo o Tomo ben rilegato.

Il Gentiluomo, invece, Infinito nel dettaglio della celata prospettiva raffigurare mirabile metafora la qual unisce Arte Poesia e Filosofia, Pittogramma di una velata eretica Dottrina nella postura per l’appunto, in cui il guanto degna maschera (ai nostri odierni intendimenti anche ‘mascherina) d’una più ordinata odierna impostura… di cui il Tempo transitato ne ammira la solitaria sottigliezza immune da qualsivoglia patologica corrotta Natura…




Il gentiluomo nell’ipotesi comune della Storia sembra che si stia sistemando il guanto sinistro sulla mano, preparandosi, per così dire, ad assumere la sua figura pubblica.

Me il pittore si è preoccupato di evidenziare con grande cura il pollice infilato nel guanto aderente, al punto di delineare l’estremità superiore dell’unghia sotto la morbida pelle di camoscio. È quindi altrettanto plausibile immaginare che la mano nuda, la destra, sia invece per sfilare il guanto. Ciò non significa, ovviamente, che dobbiamo invertire la direzione del movimento di Six – da un uscire ad un entrare, dal commiato al benvenuto -, quanto piuttosto la volontà di Rembrandt quando intende cogliere il soggetto proprio sull’ambiguo limite fra la casa ed il mondo esterno, tra pubblico e privato, per indurci altresì a pensare oltre che osservare nel dettaglio le due mani, ornate e protette da guanti (o da ‘mascherina’), nella più reale o irreale relazione e connessione in cui e per cui ritratto il gentiluomo condiviso e diviso tra relazioni pubbliche e private: una per il mondo e una per gli amici (degli amici) e per se stesso…




Il dettaglio del guanto (oppure l’odierna mascherina) serve unitamente a preservare l’osservato nel pubblico Tempo transitato, che pur osservando se medesimo non riesce a cogliere il sottile dettaglio del guanto calzato, oppure al contrario, sfilato, così come l’intero abito con cui la mascherina conferisce ulteriore odierno dettaglio del degrado sia se calzata, oppure, per l’intrepido futuro che attende per ogni pubblica relazione…, sfilata, nel costante rischio d’un contagio con cui l’impostura peggio d’ogni virus inganna e falsa ogni prospettiva ed inganna la vista…

Divisa e condivisa fra pubblico e privato!

Tra una casa e la scena d’un teatro…

Tra pubblico e privato non sufficiente un guanto, una mascherina, a preservarci dagli inganni accompagnati dai soprusi di Monopodio (e con lui chi al meglio lo nobilita e legalizza, fors’anche istituzionalizza), giacché da sangue ‘coronato’ e non ancor del tutto ‘guasto’ e ‘ulcerato’, dai remoti tempi in cui ogni falso sovrano o signore esige superiore pretesa nella ‘differenza’ posta e nell’apparenza vestita nonché adornata con ‘nobile’ ricchezza, quantunque sempre privata del dovuto Spirito da cui l’uomo; mai potrà nascere o evolvere Esemplare Novella nella ‘voce del sangue’ con cui scritta la Storia del nostro quanto altrui destino.




Tra pubblico e privato, per chi calza il guanto o cammina per la stessa ugual medesima strada scalzo, corre ed inciampa il Tempo preservato al tatto così come al contagioso respiro, d’una appestata realtà evoluta al panorama d’una Storia sempre corrotta…

Unita e divisa tra pubbliche e private risate di sdegno i Poeti di corte umiliarono Cervantes non reputandolo degno, il ritratto di se medesimo e di come il mondo cinto e calzato con ugual costume (e guanto) guasta l’intera Reale Compagnia non sopportandone l’altezzosa Rima ridotta al cortile d’una Osteria.

Il ‘quadro’ della Storia non meno della Rima al colore del pennello che l’accompagna ornata da Monopodio e chi al meglio, pur calzando guanto e mascherina, lo asserve e mantiene nel fasto della pubblica economia che nulla priva della ricchezza ottenuta pur il guanto e la maschera d’un penoso corrotto bilancio falsarne la Memoria, come Monopodio e l’eterna sua dottrina insegna…

Tra pubbliche calunnie il pastore incolpa il Lupo del danno mai arrecato alla pecunia del Monopodio di Stato, se pur il nobile paese assetato di gloria e colmo di arroganza e falsa dottrina divenuta morale di vita… umilmente ed umiliato calzo il guanto come la mascherina in ciò che divide Eretico e ciarlatano… astenendomi di inchinarmi, o ancor peggio, baciare le mani del Monopodio da cui ciò che Stato… e mai sarà…       

(il curatore del blog)




…Noi ci siamo riformati allontanandoci da loro, non contro di loro…; poiché facendo astrazione da quegli oltraggi e quello scambio di espressioni ingiuriose, che unicamente indicano la differenza fra le nostre tendenze e non nella nostra causa, esistono un unico nome e appellativo comune fra noi, un’unica fede e un necessario nucleo di principi comuni agli uni e agli altri; e perciò io non mi faccio scrupolo di conversare o vivere con loro, di entrare nelle loro chiese in difetto delle nostre, e di pregare insieme a loro, o per loro: non sono mai riuscito a percepire un qualche nesso logico con quei molti testi che vietano ai figli di Israele di contaminarsi con i templi dei pagani, essendo noi tutti cristiani, e non divisi da detestabili empietà, tali da poter profanare le nostre preghiere o il luogo in cui le diciamo; e nemmeno a comprendere perché mai una coscienza risoluta non possa adorare il suo Creatore ovunque, specialmente in luoghi dedicati al suo servizio; in cui, se le loro devozioni l’offendono, le mie possono piacergli, se le loro profanano il luogo, le mie possono santificarlo; l’acqua benedetta e il crocifisso (pericolosi per la gente comune) non ingannano il mio giudizio, ne fan menomamente torto alla mia devozione: io sono, lo confesso, naturalmente incline a quello che lo zelo fuorviato definisce superstizione; riconosco indubbiamente austera in genere la mia conversazione, pieno di severità il mio comportamento, non esente talvolta da qualche asperità; pure nella preghiera mi piace usare rispetto con le ginocchia, col cappello e con le mani…, insomma con tutte quelle manifestazioni esteriori e percepibili ai sensi…




…E quindi come vi furono molti riformatori, allo stesso modo molte riforme; tutti i paesi procedendo ciascuno col proprio metodo particolare, a seconda di come li dispone il loro interesse nazionale, insieme al loro temperamento e al clima; alcuni irosamente e con estremo rigore, altri con calma, attenendosi ad una via di mezzo, non con strappi violenti, ma separando senza sforzo la comunità, e lasciando un’onesta possibilità di riconciliazione; cosa questa che, sebbene desiderata dagli spiriti pacati disposti a concepirla effettuabile per opera della rivoluzione del tempo e della misericordia di Dio, pure a quel giudizio che vorrà considerare le attuali incompatibilità fra i due estremi, come questi dissentano nella condizione, nelle tendenze e nelle opinioni, potrà prospettarsi altrettanto probabile quanto lo è un’opinione fra i poli del Cielo…

…Ma per differenziarmi con maggior precisione, e portarmi in un cerchio più ristretto: non vi è alcuna Chiesa di cui ciascun punto tanto si armonizzi con la mia coscienza, i cui articoli, costituzioni ed usi sembrino così consoni alla ragione, e come formati per la mia speciale devozione, quanto questa dalla quale io traggo il mio credo, la Chiesa anglicana alla cui fede ho giurato obbedienza…




…Io non condanno tutte le cose del Concilio di Trento, e nemmeno approvo tutte quelle del Sinodo di Dort. In breve, là dove la Sacra Scrittura tace, la Chiesa è il mio testo; dove quella parla, questa è solo il mio commento; quando vi è l’unito silenzio di entrambe, non prendo da Roma o da Ginevra le leggi della mia religione, ma mi valgo piuttosto dei dettami della mia stessa religione.

È un ingiusta calunnia da parte dei nostri avversari, e un grossolano errore in noi, far risalire a Enrico ottavo la natività della nostra religione; poiché, sebbene sconfessasse il Papa, egli non rifiutò la fede di Roma, e non effettuò più di quanto i suoi stessi predecessori desiderarono e tentarono nei tempi passati, e per cui si ritenne si sarebbe adoperato lo Stato di Venezia ai nostri giorni.


Ed è ugualmente manifestazione poco caritatevole da parte nostra associarci a quelle volgarità plebee e a quegli obbrobriosi insulti contro il vescovo di Roma, cui come principe temporale dobbiamo un linguaggio castigato: confesso che c’è causa di risentimento fra noi; grazie alle sue sentenze io me ne sto scomunicato; Eretico è l’espressione migliore di cui dispone per me; tuttavia nessun orecchio può testimoniare che io lo abbia mai ricambiato chiamandolo anticristo, uomo del peccato, o meretrice di Babilonia. È metodo della carità sopportare senza reagire: quelle usuali satire e invettive del pulpito possono magari avere un buon effetto sul volgo, le cui orecchie sono più aperte alla retorica che alla logica; pure in nessun modo confermano la fede dei credenti più saggi, i quali sanno che una buona causa non ha bisogno di essere protetta per mezzo della passione, ma può sostenersi con una disputa contenuta.












sabato 18 ottobre 2025

LA CARROZZA SOBBALZA, GIRA DA UNA PARTE, GIRA DALL'ALTRA, MA POI...

 









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circa la 


Libertà di Stampa 











ed il Libro  


Prosegue con la....



 






graduale ascesa 


& un bosco 


d'Autunno







Mi domando se, a parte la sua esperienza giornalistica e politica, il suo intuito psicologico non gli doveva dire che era proprio quello il modo più adatto per infondere da una parte forza, energia e combattività alla nostra stampa e per aggiungere dall’altra un nuovo elemento di diffidenza per sé, pel suo governo e pel suo partito nella opinione pubblica italiana e straniera, ‘Mussolini’ — mi scriveva da New York lo scorso settembre il collega Felice Ferrero — ‘ha fatto un grave errore tattico col decreto contro la stampa: in un giorno ha perduto una buona parte delle simpatie di cui lo circondava il giornalismo americano’. 

 

Che il decreto del luglio, venuto subito dopo il delitto Matteotti, ed il progetto. di legge del dicembre, emanato dopo il processo Balbo, non abbiano avuto altro scopo che quello di proteggere il Governo ed il regime dalle critiche e dalle rivelazioni dell’opposizione è cosa così chiara ed evidente che sembra perfino ingenuo il rilevarla. Però non si può a meno di sorridere leggendo le giustificazioni che delle misure contro la stampa cercano di dare i fogli fascisti.

 

Essi se la prendono coi giornalisti, come se questi si agitassero per un loro privilegio di classe. Ignorano, o affettano di ignorare, che la libertà di stampa è una questione che interessa, o dovrebbe interessare, più il pubblico che i giornalisti stessi; che è inutile parlare di libertà di coscienza, di libertà di riunione, di garanzie costituzionali, di istituzioni parlamentari, di indipendenza della magistratura, se non si mette a base di tutto ciò la libertà di stampa, cioè la libertà di pensare, di scrivere, di controllare, di criticare, di correggere e di consigliare.

 

Se il pubblico italiano non fosse — politicamente — quello che è lo dovremmo vedere nelle piazze a protestare, insieme coi giornalisti e più dei giornalisti, contro questi attentati alla libertà di stampa; così come nelle piazze scendeva il pubblico inglese nel 1768 quando i ministri reazionari di Giorgio III ordinavano di bruciare il North Briton.

 

I nostri fogli fascisti si sono anche accorti che i giornalisti italiani mancano di ‘probità politica, di rigido autocontrollo, di coscienza nazionale’; parlano della ‘ingiusta e immorale licenza dei giornalisti’; e, lusingando fin troppo il nostro amor proprio, ci accusano di voler essere ‘una forza nello Stato’ mentre, secondo loro, dovremmo considerarci ‘una forza dello Stato’ cioè... del Governo fascista.

 

Con questi ed altri complimenti, si fa intanto un quadro assolutamente falso ed ingiurioso del giornalismo italiano, il quale — nel suo passato — è stato tutto fuorché improbo politicamente, immorale e licenzioso. ll giornalismo italiano — sia permesso dirlo ad uno che vi milita modestamente da più di trenta anni ed ha avuto modo di fare molti raffronti — è stato fino a ieri una delle manifestazioni che più hanno onorato l’Italia all’estero.

 

Durante la Conferenza di Genova erano convenuti qui da noi centinaia di giornalisti di cartello da ogni parte del mondo. A Conferenza finita uno di questi, il Garvin, direttore del londinese Observer, ha scritto un articolo sinceramente entusiastico sulla stampa italiana, osservando che essa era da considerarsi tra le prime di Europa per la sua organizzazione, per i suoi mirabili servizi di informazione, per l’intelligenza, la coltura e la perizia dei suoi uomini.

 

Un giudizio analogo ho sentito e letto spesse volte fuori d’Italia e non credo che esso fosse del tutto immeritato lo stesso concludevo uno studio pubblicato quindici anni fa (Il giornalismo inglese, pagina 317 e segg.) facendo un raffronto fra il giornale italiano e quello inglese ed affermando che il primo poteva andar orgoglioso dei grandi progressi fatti; che ben poco aveva da invidiare ai migliori giornali stranieri; che si distingueva per il suo spirito di iniziativa, per l’ampiezza e regolarità dei suoi servizi di informazione; che era onesto ed indipendente; che era letterariamente vario, vivace e brillante.

 

Il solo difetto che io gli trovavo era la mancanza di combattività. ‘Chi sa se a furia di star davanti allo specchio per farsi bello — scrivevo allora — non si sia anche un po’ smascolinizzato. Voi sentite tutto nel nostro giornale, meno la spina dorsale’. Orbene, siano rese grazie all’on. Mussolini: questa spina dorsale, questa combattività, gliela ha data lui. Il giorno in cui la nostra stampa si è vista mettere così ingiustamente sotto tutela ha acquistato una energia, una vivacità, un coraggio, una fierezza polemica veramente mirabili.

 

Vi si legge ora immancabilmente l’articolo politico quotidiano — come nei giornali inglesi; vi si trovano sottili, acri e sapienti entrefilets come nel giornale parigino; vi si sente il fervore, il calore, la passione dell’aspra battaglia. Che questa passione in alcuni casi trascenda nessuno nega; ma gli eccessi, per quanto deplorevoli, sono sempre inevitabili in un atmosfera di irritante compressione.

 

L’on. Mussolini, ha, dunque, ottenuto l’effetto opposto di quello che presumibilmente si riprometteva; invece di fiaccare la nostra stampa l’ha rinvigorita, invece di umiliarla l’ha inorgoglita, invece di asservirla ne ha stimolato lo spirito di indipendenza e di ribellione. La più sensitiva e scontrosa di tutte le libertà è quella della stampa. Il Risorgimento nel suo numero di dicembre 1849 recava un articolo, erroneamente attribuito a Cavour, che cominciava colle parole: ‘Non si tocca la stampa!’.

 

Mussolini l’ha voluta toccare ed ha commesso l’errore più grave dei suoi due anni di Governo. Perché io non ho il minimo dubbio che la partita che egli ed il Fascismo hanno impegnato col popolo italiano è stata virtualmente decisa il giorno in cui sono cominciati i sequestri e le diffide, Quintino Sella, —- uomo d’ordine, uno dei più autorevoli esponenti della Destra storica — in un memorabile discorso pronunziato in Biella l’11 ottobre 1868 alla riunione della Società Operaia di Biella, così si esprimeva, dopo aver ricordati i tempi in cui si temeva la libertà di pensiero e di stampa:

 

‘La libertà è come il vapore. Osservatelo quando si eleva da una caldaia aperta: è innocuo, poco meno che invisibile. Provatevi a trattenerlo, rinforzate il coperchio, accerchiatelo di muri; lo scoppio sarà tanto più terribile quanto maggiori saranno gli ostacoli; e così la libertà mandò l’uno dopo l’altro in aria i Governi e le dinastie che cercarono di comprimerla’.

 

Scopo del mio opuscolo non è certamente quello di fare una disquisizione sulla libertà di stampa. Si dovrebbero ripetere cose ovvie, intuitive ed anche inutili, perché la libertà di stampa se ha sempre molti nemici ha ormai ben pochi avversari. C’è ancora qualche buon’anima, in perfetta buona fede, che crede che il mondo andrebbe molto meglio senza libertà, senza i giornali, senza il vapore e senza l’elettricità (certamente il Borsa non avrebbe mai immaginato gli eccessi accompagnati dagli abusi del progresso che minacciano peggio della Libertà di Stampa, proprio perché la medesima li individua nella catena di montaggio in cui l’abuso e l’eccesso formano non solo l’oltraggio, ma anche un Dominio a beneficio di quella dittatura del capitalismo, o Futurismo, di cui il Fascismo andava e va ben fiero!).

 

Sempre fra i pochi avversari in buona fede ce n’è di quelli che ammetterebbero la libertà di stampa... se non ci fossero quei benedetti abusi che la mutano troppo spesso in licenza. A costoro rispondeva, colla sua bonomia ambrosiana, Emilio De Marchi una volta in cui era chiamato come perito in un pro- cesso di stampa ‘Signori’ — egli diceva rivolto ai giurati — ‘la libertà di stampa è come il sole. Anche il sole scotta, dà le insolazioni e molti altri mali, ma nessuno si è mai sognato di limitare la luce ed il calore del sole che sono tutta la nostra vita’.

 

Quanto ai molti nemici è superfluo cercare chi siano, tutti coloro che hanno qualche cosa da nascondere, tutti coloro che hanno motivo di temere il controllo della pubblica opinione sono, logicamente, i nemici della libertà di stampa perché... si preoccupano della forza dello Stato, del bene della Patria, del rispetto dovuto alle istituzioni, del prestigio della Nazione... a via discorrendo. È bene anche avvertire che la libertà di stampa poteva essere, una questione filosofica tre o quattro secoli fa. Ma da allora in poi è sempre stata una questione politica — anzi, come direbbe l’on. Mussolini, squisitamente politica.

 

La è oggi, la sarà domani. Se i nostri ottimi fascisti, tra le altre loro amenità, non avessero anche quella di credere che la storia incomincia colla marcia su Roma e che tutto il resto è roba morta, cadaverica, in decomposizione, si potrebbe cercare insieme nella esperienza del passato qualche esempio che valga a dimostrare la fallacia e la vanità delle misure restrittive introdotte dal presente Governo. È quello che io ho tentato di fare affrettatamente e sommariamente nelle pagine che seguono, ricordando le principali peripezie attraverso cui è passata ed è stata conquistata la libertà di stampa in Inghilterra ed in Francia.

 

La storia, tra le altre cose, mi pare che non lasci dubbi sopra questi punti: — Sempre ed ovunque la libertà di stampa è stata in qualche modo manomessa da Governi deboli che, sebbene tenessero il potere colla forza, non avevano dalla loro il consenso dell’opinione pubblica. Sempre e dovunque la menomazione della libertà di stampa ha avuto le stesse conseguenze: la formazione indisturbata di avide clientele… senza scrupoli e senza ritegni; il favoritismo, l’affarismo, la corruzione. Né potrebbe essere diversamente: la libertà di stampa essendo la condizione prima ed essenziale per la purezza della vita pubblica.

 

‘Datemi solamente la libertà di stampa’ — diceva Sheridan ai Comuni — ‘ed io lascerò che il ministro abbia una venale Camera dei Pari. Io gli lascerò una Camera dei Comuni corrotta e servile. Lascerò che egli usi ed abusi del patronato del suo ufficio. Gli lascerò tutte le sue influenze ministeriali. Gli lascerò tutti i poteri conferitigli dalla sua posizione per comprarsi la sottomissione e fiaccare colla intimidazione ogni resistenza. Con tutto ciò, armato della libertà di stampa, io mi farò innanzi solo e senza paura ed attaccherò il potente edificio che egli ha alzato con quell’arma ben più potente. Io abbatterò dalla sua altezza la corruzione e la seppellirò sotto la ruina degli abusi che voleva coprire’ 


(Più o meno lo stesso Principio adottò un personaggio a noi caro, quando la prematura fine, in quel dì della Russia, dallo Zar al Soviet unita, ne ha fatto scempio, e la formula espressiva del veleno di Stato lo ha prematuramente ricondotto verso la Storia di medesime ugual fognature, ove un altro profugo sopravvissuto ci narra e ricorda ciò cui uno Stato non solo capace, ma capace di alleare il proprio mascherato interesse, con l’apparente rispetto di un’altrettanta apparente immobile avversione all’arme come alla guerra, rivenduta e spacciata, grazie all’apporto di una stampa distratta e sovvenzionata dallo stato medesimo, qual garanzia della corrotta democrazia, in odor di fascismo alleato allo zar di turno).   

 

Dicevo, poco sopra, che i nostri fascisti affettano un sdegnoso disprezzo per tutti quelli che possono essere gli insegnamenti del passato. Né forse hanno torto se vogliono preservarsi l’illusione di essere e di rappresentare qualche cosa di nuovo nel mondo. La Storia infatti, è disseminata di Mussolini ed il fascismo è vecchio come lo spirito della reazione.

 

Anche questa battaglia di stampa a cui essi ci hanno, nostro malgrado, invitati non ci offre, non ci può offrire alcun spunto di novità.

 

Sempre gli stessi mezzi per coartarla, sempre gli stessi argomenti per giustificarne l’applicazione.

 

Non prevarranno né gli uni né gli altri.

 

È sempre stato così.

 

Non è la prima volta che si attenta alla libertà di stampa. Non sarà l’ultima. Ci sono ogni tanto bruschi ritorni: improvvisi stringimenti di freni: la carrozza sobbalza, gira da una parte, gira dall’altra, si arresta anche, temporaneamente. Ma poi riprende la sua via. È una sola: sempre quella: non può essere che quella.


(ATTENTATO PERFETTAMENTE SINCRONIZZATO SECONDO TALUNE...)








martedì 14 ottobre 2025

DIRITTI (e NON SOLO)

 









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circa i Diritti... 


ovvero: 


Nature Restoration Law


e un invito per 


la petizione in corso 






 Quindi hor hora osserviamo cosa succede a questo mondo moderno in eterno progresso seviziato a tempo pieno e indeterminato, per ogni campo coltivato, per ogni urbe all’opera per mantenere l’ordine morale e antico, non men del presunto Diritto, da cui il nostro marchio genetico privato della Natura e Dio e in qual tempo adattarlo alle nuove urgenze del feudatario del Castello.

 

Certo non cosa facile mantenere l’antico orto seminato a cavoli patate e buoni pomodori, senza per questo, udire immense ‘cavolate’ seminate da eserciti di industriose patate e ottenere, qual sola ricompensa, stagionati pomodorini per ogni Fiera ove a stento portiamo il nostro frutto d’ogni giorno…

 

 

 

DIRITTI (e non solo)

 

 

 

Già nel 1958 Hannah Arendt, una delle coscienze più vigili del secolo, scriveva che il problema essenziale del nostro tempo era quello di rendere artificiale anche la vita. Oggi stiamo assistendo a una delle più importanti rivoluzioni tecnologiche della vicenda umana, la cosiddetta “rivoluzione biologica”. Se, fino a un’epoca recente, la manipolazione della natura era concepita come emancipazione umana, matura progressivamente una presa di coscienza in virtù della quale gli sviluppi della tecnica non provocano unicamente processi di emancipazione ma anche pericoli di asservimento da parte dell’uomo e delle istituzioni.

 

Il dibattito assai acceso sulle biotecnologie, oltre a riflettere in larga misura il contrasto che si è venuto creando nel mondo moderno sul ruolo della scienza, tende a investire l’idea stessa di manipolazione in cui si ravvisa il tema centrale della nostra era tecnologica. Nel potere manipolativo molti vedono una minaccia all’immagine dell’uomo centrata sull’autonomia  razionale: anziché rappresentare una crescita delle libertà e delle opportunità, esso segnerebbe il trionfo del più cupo totalitarismo tecnocratico, quello “genetico”.




Forse proprio perché si fonda su principi completamente nuovi, l’ingegneria genetica fa riemergere antichi fantasmi e ataviche paure. La tecnologia che osa affrontare il massimo segreto – la vita– è considerata di volta in volta o come una sfida diabolica che vuole rubare alla divinità i poteri della creazione, o come la violazione di un ordine naturale fisso e immutabile nella sua intatta perfezione. Su ciò fa leva il pessimismo antitecnologico nutrito dei timori ancestrali espressi dai miti di Prometeo, di Icaro, della Torre di Babele e – ora – dall’immagine ricorrente dell’apprendista stregone punito per la sua audacia.  

 

Le biotecnologie presentano, per la loro stessa complessità, elementi di forte ambivalenza: da qui la necessità di promuovere un’analisi seria, informata ed equilibrata che eviti sia il rifiuto aprioristico che l’incondizionata accettazione al fine di favorire una discussione critica tale da alimentare dubbi salutari ma, insieme, consentire scelte razionali e consapevoli. A queste istanze intende appunto rispondere la bioetica, nella consapevolezza che ogni progresso scientifico rende più difficile la morale e le nuove possibilità offerte dalle biotecnologie pongono alla coscienza degli uomini quesiti morali, giuridici e sociali tra i più ardui da risolvere.




Si pone, ad esempio, con particolare urgenza la questione del confronto tra i cosiddetti “diritti naturali” – come erano stati elaborati nel pensiero dei secoli precedenti – e i “diritti umani” quali ci si presentano nella prospettiva aperta dal futuro che ci attende.

 

Quali sono i diritti dell’uomo di fronte alle manipolazioni della vita e della morte?

 

Sono ancora sufficienti i diritti tradizionali o v’è bisogno di elaborare un nuovo habeas corpus, uno statuto del corpo umano che comprenda, ad esempio, il diritto all’identità genetica, ovvero a un patrimonio genetico non manipolato?

 

Occorre ormai prendere atto che i diritti umani non sono un elenco che si possa fissare una volta per tutte, in riferimento a una pretesa struttura naturale e permanente sulla cui base poter fondare una legislazione definitivamente garantita.

 

Perché tuttavia, ci si potrebbe chiedere, di tali diritti ci si accorge solo adesso?




Una delle risposte possibili è che l’affermazione di un diritto si collega strettamente a un valore minacciato nei cui confronti ci sentiamo responsabili. A ben riflettere, non esiste la necessità di affermare un diritto finché non si dia la possibilità della violazione di un bene avvertito come precario: in tal senso, i diritti non nascono tutti in una volta ma si affermano, ad esempio, quando l’aumento del nostro potere sull’uomo e sulla natura – indotto dai progressi tecnologici – crea minacce inedite e imprevedibili alle libertà individuali.

 

È proprio il nostro potere, la nostra capacità di mettere in questione un valore a farcene scoprire il significato (si veda il caso della clonazione che, implicando una minaccia all’identità personale, ha indotto a una ferma difesa della dignità umana contro ogni tentativo di manipolazione genetica).  

 

In tal senso la bioetica è destinata a diventare una parola familiare perché le questioni da essa poste toccano ciascuno di noi: attraversano la nostra coscienza ma riguardano anche la vita della comunità, a metà del guado, per così dire, tra pubblico e privato.

 

Non solo.




In quanto risposta alle crescenti preoccupazioni relative alle tecnologie del controllo del corpo dell’uomo e della sua mente, essa fa parte di un più vasto movimento della coscienza collettiva contro il determinismo tecnologico, in favore dei diritti minacciati, specie dei soggetti più deboli, umani e non umani, e degli oppressi senza voce. Ma è soprattutto l’emergere della problematica ecologica ad allargare il quadro di riferimento: si fa strada una tendenza sempre più decisa verso l’universalizzazione legata al sentimento di appartenere a una comunità di destino.

 

Si affermano diritti riguardanti il controllo delle risorse del pianeta, la protezione dell’ambiente, la vita delle generazioni future. Soggetto titolare di diritti è ormai il genere umano presente e futuro, dal momento che l’ambiente è visto come patrimonio universale dell’umanità.




Lo sbocco finale di questo processo tuttora in corso può considerarsi la quarta generazione dei diritti umani collegati alla bioetica, che riguardano fondamentalmente le questioni legate all’entrata e all’uscita dalla vita. Lo scenario creato dalla rivoluzione biologica si fa ancora più complesso e, al suo interno, si possono individuare tre grandi aree: i diritti legati alla nascita, i diritti legati alla salute e alla cura, i diritti legati al morire.  

 

Quanto alla prima area, le nuove tecnologie riproduttive hanno imposto una ridefinizione sia dei soggetti che dei ruoli parentali. Appaiono nuove figure come la madre sostitutiva, la donatrice di ovuli, il donatore di seme (nel caso della fecondazione eterologa): quali i diritti e i doveri rispettivi?  Ci si chiede se esista un diritto procreativo e, se esiste, a quali condizioni; emerge un nuovo soggetto – l’embrione – sulla cui identità ed eventuali diritti il dibattito rimane aperto.

 

L’ingegneria genetica, col progetto genoma, pone sfide ulteriori all’idea di dignità umana.  Quanto alla seconda area, si fa strada, con l’affermazione del diritto alla salute, il principio di libertà terapeutica, con i problemi etici e giuridici legati al “consenso informato”. Accanto al diritto di sapere (di avere un’adeguata informazione sul proprio stato di salute) compare il diritto contrario di non sapere (di poter rifiutare le informazioni sulle proprie prospettive di vita e di ottenere una più efficace protezione della privacy).




Quanto alla terza area, a causa dello sviluppo tecnologico sono divenute sempre più labili le frontiere tra la vita artificiale e la morte. Casi recenti hanno rotto la congiura del silenzio sulla morte, costringendoci a parlare di che cosa è – e sarà sempre più – lo stato terminale della vita, il tratto estremo del nostro passaggio umano in società tecnologiche ad alta medicalizzazione.

 

La tecnica sta ormai cancellando la morte naturale nei termini in cui l’aveva finora vissuta la nostra specie. La crescente medicalizzazione degli eventi più privati dell’esistenza umana e le possibilità offerte dal progresso medico di prolungare indefinitamente la durata della vita, con le connesse questioni relative alle disposizioni anticipate di trattamento, alla problematica relativa al suicidio assistito e all’eutanasia, hanno posto drammaticamente in discussione quello che è forse il più paradossale dei diritti umani: il diritto di morire. 

(L. Battaglia) 

 


 

BIODIVERSITA’ 


 

 

Api, farfalle, insetti e uccelli trasportano il polline da fiore a fiore fecondando le piante e consentendo loro di riprodursi. Senza impollinatori, la maggior parte delle piante non si riprodurrebbe, e senza riproduzione delle piante i nostri approvvigionamenti alimentari sarebbero a rischio. Il ciclo del seme, che sia quello degli alberi delle foreste o quello delle varietà vegetali di cui ci nutriamo, si fonda sui cicli dell’impollinazione.




I sistemi ecologici basati sulla biodiversità non solo proteggono le api e gli impollinatori che ci sfamano, ma tengono anche sotto controllo i parassiti attraverso un equilibrio tra essi e i predatori. Questi sistemi lasciano prosperare una quantità di nemici naturali che impediscono l’eccessiva moltiplicazione delle popolazioni dei parassiti.  

 

Le monocolture industriali, invece, sono una sorta di invito a nozze per i parassiti, perché non c’è più la biodiversità a svolgere le funzioni ecologiche protettive, nel paradigma conoscitivo dell’agricoltura industriale, il controllo dei parassiti è una guerra. Così recita un manuale per il loro trattamento: “La guerra contro i parassiti non ha mai fine, e l’uomo deve continuare a combatterla per assicurarsi la sopravvivenza.




Cinquant’anni fa, Rachel Carson scrisse ‘Primavera silenziosa’, puntuale monito rivolto alle generazioni future.  Si interrogava sul mondo che mutava intorno a lei, leggiamo in un capitolo ‘ELISIR DI MORTE’: 

 

Per la prima volta nella storia del mondo, oggi ogni essere umano è sottoposto al contatto di pericolose sostanze chimiche, dall’istante del concepimento fino alla morte.

 

Gli antiparassitari sintetici, in meno di vent’anni di impiego, si sono così diffusi nell’intero mondo animato e inanimato, che ormai esistono dappertutto. Sono stati ritrovati nella maggior parte delle principali reti fluviali ed anche nei corsi d’acqua sotterranei. Residui di tali prodotti permangono sul terreno anche una dozzina d’anni dopo l’irrorazione.

 

Sono penetrati nel corpo dei pesci, degli uccelli, dei rettili e degli animali domestici e selvatici e vi si trattengono in tale misura che gli scienziati, quando effettuano i loro esperimenti su di essi, constatano la quasi impossibilità di trovare soggetti immuni. Sono stati riscontrati nei pesci di remoti laghi montani, nei lombrichi rintanati sotto il suolo, nelle uova degli uccelli e nell’uomo stesso, giacché si sono accumulati anche nella maggior parte di noi, senza distinzione di età. Si trovano nel latte materno e, probabilmente, nei tessuti dei nascituri.

 

Tutto ciò è una conseguenza del sorgere improvviso e del prodigioso sviluppo di un’industria che produce sostanze chimiche sintetiche, cioè fabbricate dall’uomo, dotate di proprietà insetticide. Tale industria è figlia della seconda guerra mondiale: nella ricerca di aggressivi chimici per uso bellico, qualcuna delle sostanze prodotte nei laboratori si mostrò letale per gli insetti. E tale scoperta non fu casuale: gli insetti venivano largamente usati come test per valutare la tossicità di tali sostanze chimiche per l’uomo.

 

Ne è così derivata una produzione apparentemente illimitata di insetticidi sintetici. Essi, per il fatto stesso di essere prodotti dall’uomo grazie alla ingegnosa manipolazione delle molecole in laboratorio, alla sostituzione dei singoli atomi ed alla alterazione del loro assetto differiscono notevolmente dai semplici insetticidi inorganici del periodo anteguerra.

 

Questi ultimi derivavano da minerali presenti in natura o da prodotti di origine vegetale - composti dell’arsenico, del rame, del piombo, del manganese, dello zinco, ecc., o piretro ricavato da fiori di crisantemo essiccati, solfato nicotinico tratto da qualche pianta affine al tabacco o rotenone contenuto in certe leguminose delle Indie Orientali.

 

Ciò che distingue i nuovi insetticidi sintetici è la loro enorme attività biologica.

 

Essi non soltanto hanno un immenso potere come veleni, ma sono in grado di inserirsi con altrettanta facilità nei più vitali processi, deviandone il corso in maniera funesta e spesso mortale.

 

Così, come vedremo, distruggono gli stessi enzimi ai quali è assegnata la funzione di proteggere il corpo dalle insidie, bloccano i processi di ossidazione da cui il corpo trae le sue energie, stornano il normale funzionamento di vari organi, e possono infine stimolare in certe cellule quel mutamento lento ed irreversibile che conduce alla cancerogenesi.

 

Frattanto la lista di nuovi e ancor più mortali composti chimici si allunga ogni anno e ne vengono proposti ulteriori impieghi, cosicché il contatto con essi è divenuto praticamente generale. La produzione di antiparassitari sintetici è passata negli Stati Uniti dai 56 milioni di chilogrammi circa del 1947 ai 290 milioni del 1960: un aumento, quindi, di oltre cinque volte, per un valore complessivo di oltre 250 milioni di dollari. Ma nei programmi e nelle speranze dell’industria questa gigantesca produzione dovrebbe essere solo un inizio.

 

Conoscere tutti gli antiparassitari è quindi una cosa che ci riguarda tutti indistintamente. Se siamo arrivati al punto di vivere a così stretto contatto con queste sostanze - ingerendole con gli alimenti, trattenendole nel midollo stesso delle nostre ossa - dobbiamo pur sapere qualcosa di più sulla loro natura ed efficacia.


Anche se, con la seconda guerra mondiale, si è avuta una svolta nella produzione degli antiparassitari, dalle sostanze chimiche inorganiche al sorprendente mondo dei composti del carbonio, un limitato numero dei vecchi prodotti persiste tuttora. Il più importante tra essi è l’arsenico, che costituisce anche oggi l’ingrediente principale di certi disinfestanti di erbacce e di insetti.


L’arsenico è un elemento di elevata tossicità che si trova largamente diffuso nei giacimenti di diversi metalli e, in piccole quantità, nei vulcani, nel mare e nelle acque di sorgente.

 

I suoi rapporti con l’uomo sono molteplici e millenari: poiché numerosi suoi composti sono insapori, è stato spesso usato come veleno da molto prima dell’epoca dei Borgia fino ai giorni nostri. L’arsenico, rintracciato nella fuliggine dei camini e messo in rapporto con l’insorgenza del cancro, circa due secoli fa, da un medico inglese, è stato il primo cancerogeno (o sostanza che provoca il cancro) riconosciuto pubblicamente. Sono note pure epidemie che hanno colpito per lunghi periodi intere popolazioni ed erano dovute ad intossicazione cronica da arsenico.

 

Inquinamenti ambientali da arsenico hanno altresì causato malattia e morte in cavalli, bovini, capre, maiali, cervi, pesci e api. Ma, nonostante questi fatti risaputi, le irrorazioni e le polverizzazioni di arsenico trovano ancora frequente impiego. Nelle piantagioni di cotone del sud degli Stati Uniti, l’apicoltura, prima altamente industrializzata, è pressoché scomparsa a causa delle disinfestazioni arsenicali. I coltivatori che hanno effettuato, per lunghi periodi, polverizzazioni di arsenico sono stati colpiti da intossicazioni arsenicali croniche; il bestiame è rimasto avvelenato dai disinfestanti arsenicali usati per proteggere le messi e distruggere la gramigna. Dalle distese di mirtilli, nubi di polvere di arsenico si sono diffuse sulle fattorie vicine, contaminando i corsi d’acqua, avvelenando le api ed i bovini, e provocando malattie tra gli uomini.

 

“Difficilmente sarebbe stato possibile… maneggiare le sostanze arsenicali con maggior dispregio della salute pubblica di quanto non si sia fatto nel nostro paese durante gli ultimi anni”, afferma il dott. Hueper del National Cancer Institute, un’autorità nel ramo dell’oncologia.

 

Così egli prosegue:

 

Tutti coloro che hanno visto al lavoro gli addetti alle operazioni di irrorazione o di polverizzazione degli insetticidi arsenicali sono rimasti impressionati dalla quasi totale noncuranza con cui essi spargevano sostanze velenose….